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diretto da Romano Luperini

L’aguzzino benevolo o della narrazione sull’Esame di Stato

Questo non è un articolo sull’Esame di Stato.

Non si descriveranno indagheranno criticheranno (come è pure legittimo che sia) le tracce delle prove scritte, le griglie di valutazione, i membri esterni e interni, i Presidenti, i candidati con le bottiglie di spumante i genitori con i mazzi di fiori, ma si cercherà di mettere in fila qualche osservazione sul modo in cui media mainstream raccontano il grande carrozzone che impegna l’italica prole nelle tre o quattro settimane a cavallo dei mesi di giugno e luglio.

Di solito, i primi articoli compaiono a qualche giorno dall’inizio delle prove: illustri quotidiani concedono a personaggi noti (forte è la tentazione di scrivere “sedicenti intellettuali”), che spesso a scuola non entrano più dai tempi della propria, di “maturità” – psicologi, professori universitari, presidenti di fondazioni, rampanti formatori ed innovatori digitali, di sbrodolare paginoni in cui descrivono l’Esame di Stato come un rito obsoleto, un retorico dinosauro cartaceo residuo del passato: chi mai scrive più a mano con una penna biro? e per sei ore di fila, poi! ora ci sono l’IA, la rete, i compiti di realtà… insomma, basta con questi esami che sanno di muffa e naftalina, che non valutano adeguatamente il learning-by-doing, il lifelong learning la resilienza, le soft skills!

A questo tipo di interventi inneggianti alle magnifiche sorti e progressive di una scuola libera dalle pastoie burocratiche dell’Esame, si affiancano, alcune settimane dopo, quando anche le prove orali si stanno ormai avviando alla conclusione, una seconda ondata di articoli denigratori, spesso a cura di siti di pseudoinformazione scolastica, che ci annunciano, suonando le trombe della statistica, che l’esame è inutile perché promuove il 99% dei candidati, che c’è un evidente squilibrio nell’assegnazione delle valutazioni massime, che non è una prova affidabile perché i suoi risultati sono smentiti da quelli delle rilevazioni INVALSI, delle prove Ocse-Pisa, dei test di Medicina, dei diplomi Cambridge, dei Trials USA per Parigi 2024.

A questa narrazione iniziale e finale che descrive l’esame e le sue procedure come descriverebbe le fissazioni di un nonno molto anziano (vuole fare così anche se è inutile, lo sai bene, ma se gli dai retta alla fine ti allunga sempre la busta coi 10€: pochi, ma non si butta via niente) se ne contrappone un’altra, che si accende invece nelle settimane dello svolgimento delle prove. Al netto dei legittimi interventi che si soffermano sui pregi e i difetti delle prove scritte o del colloquio orale, sulle testate di provincia e sulle edizioni locali dei quotidiani nazionali fiorisce una sequela di pezzi in cui si grida all’ingiustizia di un 85/100, allo strapotere di commissioni che umiliano i candidati, di commissari esterni “giustizieri” che risolvono con valutazioni bassissime faide di lunga data tra docenti, di Presidenti segretamente devoti alle torture medievali o al Marchese De Sade.

Rispetto al funzionamento delle commissioni (che è sempre perfettibile, per carità) ci si limiterà qui a sottolineare che il processo valutativo, sia delle prove scritte sia del colloquio orale, è collegiale ed estremamente mediato e normato, a partire dalle griglie che sono ministeriali e nazionali: se una commissione lavora in modo corretto (magari non perfetto, ma corretto), ed il Presidente esercita la propria funzione di garante, è praticamente impossibile che si compiano palesi iniquità. E se molte delle iniquità descritte (anzi, spesso solo alluse) fossero davvero avvenute, le figure a cui rivolgersi sarebbero gli Ispettori, non certo i giornalisti.

Al di là delle molte altre osservazioni che si potrebbero fare, ciò che è interessante osservare è la costruzione ossimorica e paradossale di queste due narrazioni: da una parte, si denuncia un Esame fin troppo facile, incapace di selezionare e valorizzare adeguatamente “il merito”, che esclude l’innovazione e le tecnologie digitali: un nonno benevolo e magari un po’ rimbambito, appunto, che ti dà una pacca sulla spalla e ti manda in vacanza senza averti, alla fin fine, stressato troppo. Dall’altra, invece, si inveisce contro un esame sadico e completamente servo dell’arbitrio di docenti aguzzini il cui unico scopo nella vita sarebbe quello di rendere le ultime settimane di scuola di studenti devoti e brillanti (e spesso già avviati verso prestigiose università straniere) una sorta di Full metal jacket in salsa italica, ma con i fogli protocollo timbrati e siglati avvolti nell’asciugamano al posto delle saponette.

Non serve essere esperti di comunicazione e semiotica per comprendere che, tra due narrazioni così opposte, probabilmente in medio stat virtus: l’esame è sicuramente perfettibile, alcune procedure possono risultare ridondanti e macchinose, la valutazione finale non può avere la pretesa di una totale oggettività (anche perché le variabili umane, di docenti e studenti, sono infinite), ma in fondo il carrozzone funziona e adempie al proprio compito istituzionale, ovvero quello di validare il percorso di studi compiuto.

A me, che quest’anno osservo il tutto dalla panchina, sine ira et studio, poiché non sono impegnata nelle commissioni, pare invece, che l’obiettivo comune di questa doppia narrazione sia proprio lei, la funzione istituzionale, legale e certificativa dell’Esame di Stato. Affermare contemporaneamente che le prove scritte siano troppo facili o troppo difficili, che gli argomenti proposti siano obsoleti o che “nessuno arriva a quel punto del programma”, che le valutazioni delle commissioni siano troppo soggettive o troppo ragionieristiche, che il voto finale non valorizzi abbastanza o penalizzi troppo, significa – in sintesi – affermare che un esame così è del tutto inadeguato, che non s’ha da fare, e che l’affare (e non uso questo termine a caso) della valutazione conclusiva della scuola secondaria va lasciato ad altri: più competenti, più oggettivi, più innovativi, più… E noi insegnanti dovremmo conoscere bene chi sono questi aristòi della valutazione: INVALSI, Eduscopio, i centri che rilasciano certificazioni linguistiche o informatiche, le procedure di ammissione delle università private che non considerano più il voto dell’Esame e che anticipano di mesi l’Esame stesso.

Allora, quando noi docenti ci uniamo in modo acritico al coro dei detrattori dell’Esame e lo gettiamo nel cestino dell’indifferenziato senza proporre migliorie sensate, dobbiamo essere consapevoli che stiamo contribuendo a creare un clima generale di cui si avvantaggeranno tutte quelle agenzie esterne che da anni stanno erodendo la credibilità della valutazione effettuata dai docenti, e che ora puntano, sempre meno velatamente, ad un obiettivo ancora più alto: la validità legale del titolo di studio.

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