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diretto da Romano Luperini

Dilaga il movimento universitario per la pace in Palestina

“Dai campus americani la protesta pro-Gaza dilaga oltre gli oceani, dalla Francia al Regno Unito e all’Australia, da Roma a Tokyo, Dublino e Beirut”, così riporta l’ANSA del 4 maggio. Nel momento in cui sembra essere tornata la calma alla Columbia University di New York e nel campus di Los Angeles, il solerte Macron, quello che vuol inviare le truppe di terra in Ucraina, ha inaugurato la linea della “fermezza totale”: la polizia francese ha sgombrato per la seconda volta Sciences Po di Lione, il prestigioso ateneo, dove gli studenti avevano promosso “un sit-in pacifico”, dichiarandosi insoddisfatti del negoziato sulle partnership di ricerca a fini militari con le università israeliane. Nel Regno Unito la protesta da Londra si è estesa a Bristol, a Newcastle e a Warwick. Le tendopoli, che sono una caratteristica del movimento, si sono estese in Australia (Adelaide, Canberra, Melbourne e Sydney). La stessa cosa sta succedendo con diverse forme di lotta in Italia (Roma, Napoli, Torino, Milano, Bologna, Normale di Pisa), in Giappone, in Irlanda e a Beirut. Negli Usa il movimento è arrivato alla Portland State University nell’Oregon, a Princeton, nelle università di Rutgers, di Rhode Island, della Georgia e del Texas. Il movimento ha raccolto anche la solidarietà di una parte dei docenti. Una parte degli amministratori degli atenei respinge l’intervento della polizia, invocando l’autonomia delle loro istituzioni, un’altra la richiede in nome della disciplina e dell’ordine. Molto spesso è intervenuta la polizia a sgombrare. Sulle tende degli sfollati palestinesi ammassati a Rafah nel sud nella Striscia di Gaza, sono apparsi “messaggi di ringraziamento per la mobilitazione globale” (scrive l’ANSA). Il sito egiziano Ahram riporta scritte come: “Grazie, studenti della Columbia University”, “Grazie, studenti universitari americani”.

Cosa vuole il movimento?

Nonostante le varie manipolazioni dei media filo-governativi, in particolare in Italia, gli obbiettivi del movimento sono due: la pace con il cessate il fuoco immediato a Gaza e la fine del genocidio (o del massacro di massa, se si vuole essere filologicamente “corretti”) dei palestinesi e l’interruzione dei progetti di ricerca con le università israeliane, che implicano investimenti, i quali più o meno indirettamente aiutano le azioni militari di Israele a Gaza (cosiddetto “dual use”). Oggi la partecipazione di 65 studenti di 13 università italiane alle esercitazioni navali in corso nel Mediterraneo Occidentale, a cui prendono parte le flotte di 22 paesi aderenti alla NATO, sotto il coordinamento dell’Italia, testimonia che l’obbiettivo è giusto e pertinente (Il Manifesto, 5 maggio 2024).

Per quello che si è potuto apprendere dai media, in particolare in relazione agli scontri avvenuti alla Columbia, nell’articolazione del movimento degli universitari vi sono tre posizioni: ci sono due frange minoritarie, una pro-Hamas e l’altra filo-palestinese con alcune venature antisemite, mentre la parte maggioritaria è dichiaratamente pacifista e chiede la fine del conflitto a Gaza e la fine dell’uccisione dei civili. Dall’altra parte gli studenti di religione ebraica si dividono in due posizioni: una minoritaria, decisamente di destra, che ha attaccato con l’uso della forza gli studenti della tendopoli nel campus, tentando di sfondare le transenne e di imporre le bandiere israeliane, e l’altra più consistente di alcune associazioni di studenti ebraici (come Jewish Voice For Peace), che aderiscono alle posizioni del movimento.

La questione dell’antisemitismo: Biden e l’effetto perverso di Netanyahu

La situazione attuale nei campus statunitensi mette a rischio le prossime sessioni di laurea, durante le quali sono previsti i discorsi rituali dei “keynote speakers”, cioè delle personalità a cui sono destinate le lauree ad honorem e a cui è affidato il compito di presentare un messaggio di speranza per il futuro dei neo-laureati. Lo stesso presidente Joe Biden è stato invitato il 19 maggio al Morehouse College di Atlanta, storica scuola afro-americana dove ha studiato Martin Luther King. Si tratta di discorsi rischiosi, dato il clima di repressione nei campus occupati, che ha portato a migliaia di arresti. Chi rischia di più è proprio Biden, il quale ha invocato la mano pesante delle forze dell’ordine, agitando l’antisemitismo come presunta posizione del movimento. Si tratta di un’arma retorica, che non funziona presso gli studenti, i quali in larghissima maggioranza non sono antisemiti, e che rischia di appiattire le posizioni di Biden su quelle di Trump, pregiudicando anche il risultato delle elezioni presidenziali a favore del candidato repubblicano.

In realtà è stata proprio la posizione estremista di destra del governo Netanyahu di vera e propria persecuzione dei palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania a produrre l’effetto perverso di rinfocolare le posizioni antisemite in tutto il pianeta. Tra tutte le posizioni sioniste, elencate per esempio da Abraham Yehosua (Antisemitismo e sionismo, 2004), sono progressivamente cadute le antiche posizioni socialisteggianti per approdare a un comportamento duramente nazionalista con espressioni razziste e neo-colonialiste contro i palestinesi, paragonati alle bestie in un classico processo di disumanizzazione del nemico. Così paradossalmente accade che la posizione per gli ebrei, emersa dall’Olocausto, del “mai più” contro di noi, giustifica qualsiasi azione contro gli altri popoli. In questo paradosso sta la possibile spiegazione di come le destre di tutto il pianeta, anche quelle più violentemente antisemite in passato, possono convergere con Netanyahu a spese dei palestinesi.

Il paragone con il ‘68

Le immagini dell’occupazione della Columbia hanno richiamato alla memoria quelle del movimento del ’68 e i media hanno agevolato la sovrapposizione, riproponendo le riprese in bianco e nero, ancora vivide nella memoria dei militanti del movimento di allora. Vi è almeno una differenza macroscopica: il movimento odierno, a cui va tutta la mia simpatia, non ha raggiunto le dimensioni planetarie e di massa di allora. Pesano questioni demografiche (la nostra era una generazione molto più numerosa, quella dei baby boomers) e le sconfitte patite allora e nel frattempo (ricordiamo la morsa stretta dai servizi segreti e dalle polizie dei paesi del G7 contro il movimento no global e pacifista degli anni Novanta fino ai fatti di Genova). Nel suo dilagare, almeno fino ad oggi, il movimento universitario per la pace in Palestina riguarda solo i paesi occidentali. Per così dire è “questione nostra”, degli equilibri geopolitici che portarono alla seconda guerra mondiale con le immani tragedie di Auschwitz e di Hiroshima e che da essa uscirono. Il declino della superpotenza statunitense ha aperto i problemi e i rischi del “multipolarismo instabile” più volti qui evidenziati.

Un elemento, invece, ritorna tra il movimento di questi giorni e quello del ’68: la spirale lotta/repressione, che si è attivata in maniera più precoce e più feroce di allora soprattutto negli USA e in Francia, per fortuna a oggi senza morti. Giocano in questo le paure che le élite al potere hanno ancora del movimento del ’68 e della “breccia”, che esso aprì sotto la linea di galleggiamento del sistema capitalistico per usare l’espressione di Edgar Morin (Maggio 68. La breccia, 2018). Ciò consiglierebbe, nelle scelte del movimento, il terreno della lotta non violenta, come fu caratteristica della nascita di quello del ’68, cercando programmaticamente di sfuggire a questa spirale. Metaforicamente gli attendamenti nei campus americani e anche negli atenei italiani (che hanno un precedente nel movimento degli studenti sul caro affitti dell’anno scorso), che richiamano il popolo delle tende di Gaza, indicano come nella coscienza delle giovani generazioni non vi sia un posto certo dove poter vivere nell’epoca iper-moderna.

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