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diretto da Romano Luperini

Perché leggere “I quindicimila passi. Un resoconto” di Vitaliano Trevisan

Prefazione
In tutti questi anni, nel corso di tutti gli spostamenti da me effettuati, da casa al tabaccaio (791p), da casa al municipio (930 p), da casa al negozio di generi alimentari (1851 p) eccetera, il computo del numero dei passi, sempre scrupolosamente contati e successivamente annotati in un apposito taccuino che ho sempre con me, durante il viaggio di andata poi durante il viaggio di ritorno, non è mai tornato. Una volta, scrive Thomas seduto sul gradino della veranda, da casa al municipio 937 in andata e 932 al ritorno, un’altra 941 andata e 939 ritorno. Mai lo stesso numero di passi all’andata e al ritorno. Sempre dei numeri diversi; tre in più o quattro in meno, addirittura uno in più o in meno, ma mai lo stesso numero. Solo durante spostamenti inferiori alle tre centinaia di passi, e solo occasionalmente, ho potuto riscontrare, devo dire con una certa soddisfazione, una coincidenza di cifre tra un’andata e un ritorno. È chiaro che più aumenta la distanza percorsa, parimenti diminuisce la possibilità di riuscire, per quanto concentrati, nell’impresa di coprire il tragitto di andata verso un luogo dato con un numero di passi uguali a quello necessario per il tragitto di ritorno. Due sole volte, dunque in numero statisticamente non significativo, mi è capitato di veder coincidere cifre (casa/cimitero: andata 3633, ritorno 3633, e casa/casa incompiuta: andata 4717, ritorno 4717) superiori al migliaio di passi. L’eccezionalità dell’evento accaduto oggi, cioè la coincidenza del numero di passi da me conteggiati, prima all’andata poi al ritorno dallo studio del notaio Strazzabosco, situato a Vicenza in piazza Castello, numero di passi superiore non solo al migliaio, ma addirittura superiore alla decina di migliaia, è sconcertante. Questo il motivo che mi spinge a redigere questo resoconto, il più possibile dettagliato, degli eventi intercorsi durante detto spostamento e la conversazione avuta con il notaio Strazzabosco nel suo studio. Mentre rammento con chiarezza tutto ciò che riguarda il mio spostamento da casa all’ufficio del notaio, e il colloquio con lui, inspiegabilmente non ricordo nulla riguardo al ritorno.
Nulla a parte il numero di passi.
N.B. I numeri indicati tra parentesi a fianco dei luoghi, numeri che esprimono il numero di passi che questi luoghi distano dalla mia casa, sono il risultato della media calcolata sulla totalità dei miei rilevamenti. ato della media calcolata sulla totalità dei miei rilevamenti.
(V. Trevisan, I quindicimila passi. Un resoconto, Torino, Einaudi,2002, pp. 5-6)

La migliore narrativa dell’estremo contemporaneo può essere  vista nelle sue relazioni mobili con il passato, nei recuperi delle tradizioni espressive del moderno, di modelli letterari canonici e nel loro riposizionamento entro l’immaginario della contemporaneità. In tale contesto I quindicimila passi. Un resoconto (2002) di Vitaliano Trevisan risulta esemplare: perché, da una parte, presenta tratti marcatamente neomodernisti grazie alla costruzione dell’interiorità del protagonista e, dall’altra, per la rappresentazione realistica della periferia diffusa dei nostri giorni.

Per queste due ragioni si può proporne la lettura agli studenti dell’ultimo anno di scuola quando sono in grado di riconoscere con maggiore consapevolezza e apprezzare le forme e i temi della grande tradizione romanzesca europea, dall’Ottocento in poi.

Inoltre,  i giovani lettori, grazie alla loro sensibilità ritmica, potranno apprezzare il peculiare stile dell’autore, percussivo, digressivo e modulato sull’ossessività cogitante del protagonista; spesso la voce del narratore assume infatti i toni dell’invettiva, della provocazione: il fiume di parole, frutto di scelte sempre sorvegliate e accorte sul piano lessicale e ritmico, è il prodotto – come lo stesso Trevisan ha affermato in questa intervista – di “sofferenza e profondità di analisi”.

Perché il protagonista è un personaggio “assoluto” di stampo modernista

Come accade nelle costruzioni narrative moderniste, anche la trama de I quindicimila passi è pressoché evanescente: la vicenda lascia spazio a fatti in apparenza minuti e insignificanti e la voce assoluta di Thomas Boschiero è modulata dall’autore sui modelli di Thomas Bernhard e di Samuel Beckett (si veda ancora qui ). Fondamentale, inoltre, il rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto: la ricostruzione dell’esistenza scissa di Boschiero e della sua storia familiare, ripercorsa attraverso flashback irrelati, coincide con la durata del tragitto a piedi tra la casa di via Dante e lo studio notarile dell’avvocato Strazzabosco, a Vicenza. Il protagonista, cedendo malvolentieri a «un’incombenza alla quale non posso sottrarmi» come dice ripetutamente, vi si reca per firmare i documenti che lo decretano unico erede del patrimonio familiare: infatti è stata dichiarata la morte presunta della sorella, scomparsa dieci anni prima e mai più ritrovata. Thomas, che vive nella casa di famiglia in un voluto isolamento, è ossessivamente tormentato dalla figura del fratello, sparito a sua volta dopo l’omicidio della donna.

Nel corso del romanzo il lettore penetra nelle elucubrazioni mentali di Thomas grazie al martellante ripetersi del verbo «pensavo»/«pensai», una costante che attraversa tutto il testo; in questo senso vale, per il personaggio creato da Trevisan, quello che Enrico Testa scrive a proposito di Beckett:

Il personaggio assoluto, proprio di tanta tradizione narrativa novecentesca, si fa qui voce assoluta e totalizzante: parola mobile che tramuta la sua impotenza a vivere […] in un discorso sconfinato e interminabile, privo di argini e libero dai limiti istituiti dalla presenza degli altri. (E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2009, p. 20)
 

La propensione a riportare il flusso continuo dei pensieri risulta particolarmente efficace nella sezione intitolata Tre teste, dove Thomas, mentre si reca all’appuntamento con il notaio, rimemora un lungo racconto del fratello, colpito dalla vista dell’opera di Francis Bacon Three Studies for Self-Portrait esposta nella vetrina di un corniciaio vicentino. Il riferimento pittorico alla peculiare deformazione espressionista di Bacon rappresenta un altro importante modello riferibile alla tradizione del moderno. Le impressioni del fratello, preso dalla stupefazione per il quadro, vengono ripensate fedelmente da Thomas. Dal punto di vista espressivo, l’effetto è straniante e confusivo:

Ingrandimenti, pensai allora, disse mio fratello, pensavo camminando, non sono che ingrandimenti di foto, una variante del caso Warhol. […] facce distorte e rovinate portate in giro da corpi distorti e rovinati, questa è la verità disse mio fratello, pensavo camminando. […] I tre ritratti, pensai allora, disse mio fratello, pensavo camminando, erano in realtà un solo ritratto, o comunque, pensai ancora, davano vita a un solo ritratto, perché erano tutti in stretto riferimento allo stesso soggetto nello stesso presente. (Ivi, p. 38, p. 45 e p. 48.)

L’atto del camminare sembra, per tutto il romanzo, l’unico gesto che permetta al protagonista di mantenersi in vita, da sempre ossessionato dall’idea del suicidio:

Sono ancora in vita, pensavo, solo perché mi sfinisco percorrendo a piedi in lungo e in largo il bosco di roveri – bosco che non esiste più da centinaia di anni. […] Mi aggiro ogni giorno col solo scopo di mantenermi in vita, per una campagna nebbiosa che non è altro che il confuso ricordo di una vera campagna, distrutta dalle zone artigianali e residenziali. (Ivi, p. 25)

Inoltre l’incedere continuo costituisce l’occasione privilegiata per concentrarsi sul proprio pensiero: la frase “pensavo camminando”, con minime variazioni, diviene un vero e proprio intercalare, un leit-motiv che scandisce ritmicamente il progredire del racconto nato, come precisa la Prefazione, allo scopo di dare conto di un viaggio che ha visto eccezionalmente l’identico numero di passi tra andata e ritorno.

Così passo dopo passo, pagina dopo pagina, fanno irruzione i pensieri, le percezioni, i monologhi di Thomas Boschiero ed emerge la schizofrenia del protagonista.

Per la rappresentazione della periferia diffusa

Oltre al debito con la tradizione modernista, I quindicimila passi è esemplare per la peculiare attenzione alla rappresentazione dello spazio urbano e periurbano dell’ipermodernità.

Vicino idealmente al Zanzotto di In questo progresso scorsoio e ai molti altri autori che, nell’estremo contemporaneo, restituiscono una diversa relazione con lo spazio grazie a un’immersività caratterizzata da esperienze come quelle dei “Walkers”, Trevisan descrive percorrendola a piedi la convulsa cementificazione della periferia di Vicenza, figura di tutte le periferie dell’arricchito e abbrutito Nord-est.

Rispetto al paesaggio rurale che per decenni ha caratterizzato il Veneto e ne ha determinato “un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante” (Zanzotto), ora lo sprawl urbano è dominato da uno spazio parcellizzato in «proprietà rigorosamente private, difese da alte mura […] perennemente chiuse» e attraversato da strade dove gli abitanti «si riversano con tutti i mezzi: auto, furgoni, camper, motociclette, biciclette o […] a piedi»:

 Chissà, pensavo, forse un tempo passeggiare per i colli poteva anche essere rilassante, un immergersi nella natura eccetera. Ma ora, pensavo camminando, in questi anni, oggi, adesso, il nostro camminare è trasformato in un aggirarsi furtivo per un territorio dominato da una nevrastenia di ordine superiore […] Gli interi colli, pensavo, in questa prima parte a stretto ridosso della città in modo capillare, sono stati colonizzati, suddivisi, frazionati, e ogni frazione, ogni proprietà – privata – è stata poi adeguatamente isolata dalle altre proprietà – private. Tutte le case coloniche sono state ristrutturate e completamente riadattate, in modo da corrispondere alle esigenze abitative dei nuovi proprietari. Là dove si poteva costruire, ma spesso anche là dove non era concesso, si è costruito, demolito e ricostruito, sbancando, livellando, movimentando terra e roccia, aprendo nuove strade – private. (Ivi, pp. 114-115)

Boschiero, da walker, reagisce all’inconoscibilità degli spazi urbani riappropriandosi del camminare come unica forma di esperienza esistenziale e conoscitiva.

Nel brano seguente, inoltre, risulta evidente la volontà di rappresentare lo «spazio senza progetto» (P. Donadieu) che caratterizza l’odierno sprawl urbano e di cui è responsabile una gestione politica volta solo a soddisfare la grettezza dell’affarismo localistico, che Trevisan ben conosceva avendo lavorato come geometra comunale per una dozzina d’anni. La figura che fissa una volta per tutte lo scempio del territorio è quella della «pattumiera»:

In questo consiste la tua bella gestione del territorio: costruire fin che il territorio non finisce, fin che non c’è più spazio. Allora, quando il territorio è finito si lascia andare anche di far politica, chè, tanto, non c’è più scopo di farla perché non c’è più niente da costruire. […] Il vostro razionalismo non è che un abborracciato pseudorazionalismo di provincia; il vostro postmoderno un appastellato postmoderno di provincia, e in definitiva tutta l’architettura vicentina non è che una avvilente architettura di provincia, che ha perso per strada anche il minimo decoro di facciata. […] Camminare per una qualsiasi di queste zone residenziali industriali e artigianali, significa infilarsi in una pattumiera urbanistico-architettonica in scala di uno a uno. […] Ma ormai mio fratello parlava a se stesso, i suoi ospiti non li guardava neanche più. (Ivi, pp.81-82)

Dunque, leggere e discutere I quindicimila passi è un modo possibile per interpretare consapevolmente e criticamente lo spazio delle periferie iperurbane, per costruire un proprio “sguardo abitante” (G. Peterle), per coniugare parole e cose, letteratura e mondo, paesaggi descritti e periferie quotidianamente attraversate, zaino in spallo, tra casa e scuola.

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