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diretto da Romano Luperini

La Storia a scuola

La pagina di Laura

Laura è una studentessa che quando eravamo in dad, un giorno s’è collegata che pareva essere sopra un albero. Per questo, quando a fine novembre di quest’anno era lì, a discutere con me e altri due compagni sulla prima parte de La Storia che aveva letto, ho subito notato il suo libro tutto appuntato all’inizio del secondo capitolo, come se Laura si fosse arrampicata con la matita anche tra le parole della Morante. Alla fine della chiacchierata, le avevo chiesto se avessi potuto fotografare con il suo permesso qualche pagina, tipo queste che – sempre con il suo permesso – mostro qui, adesso:

Di quella parte de La Storia avevamo discusso per tutta l’ora, insieme a lei e i suoi due compagni, ma anche con il resto della classe. Mi avevano colpito, mi colpiscono, molti dei passaggi evidenziati da Laura, tipo questo:

«Essa non aveva mai avuto confidenza col proprio corpo, al punto che non lo guardava nemmeno quando si lavava. Il suo corpo era cresciuto con lei come un estraneo; e neppure nella sua prima giovinezza non era stato mai bello, grasso alle caviglie, con le spalle esili e il petto precocemente sfiorito»

passaggio che Laura aveva glossato con queste parole: «il corpo post-gravidanza è ancora un corpo di donna meraviglioso».

Se avessi dovuto annotare accanto alla firma sul registro elettronico quanto era avvenuto durante quell’ora, ovvero «discussione di classe sulle pagine dello stupro di Ida e pagine successive sul tentativo di rielaborazione di quel fatto», ci sarebbe stato di che avere timore dei colleghi, dei genitori, di chiunque avesse aperto il registro elettronico, quando invece, per l’ennesima volta, la letteratura mi aveva mostrato di che è capace se la lasciamo libera di essere, di fare, di educare, di farci mettere i piedi nei territori dell’indicibile ma perché illuminati da un orizzonte di senso.

Sì, faccio leggere La Storia nelle mie classi quinte oramai da cinque anni, classi dell’indirizzo economico-sociale, linguistico e classico, con modalità che non mi sottrarrò dal dire, ovvero come, ma non prima di avere condiviso qualche idea sul perché e sul cosa, secondo una gerarchia che continuo a ritenere ineludibile nell’ordine: perché, cosa, come, ovvero la negoziazione profonda del senso di ciò che facciamo a scuola (perché), la scelta del portato conoscitivo sul quale si incardina ogni atto educativo e relazionale (cosa), e infine il metodo (come) al servizio dei primi due momenti, ma senza i quali ogni prassi didattica non avrebbe ragione di essere.

La voce

La prima negoziazione del perché La Storia in classe, così come per ogni altra conoscenza, avviene nella testa e sul tavolo dell’insegnante. La classe è ancora lontana, si tratta del tempo dello studio dell’insegnante, in questo caso del dovere della storicizzazione consapevole dei testi che è permanente, che va fatta ogni anno, perché cambiano i ragazzi e le ragazze ogni anno, perché cambia la scuola ogni anno. Dei tanti possibili perché portare La Storia in classe, per sintesi mi limiterei in questo caso a dire qualcosa su due aspetti che mi paiono fertili educativamente e didatticamente, ovvero la questione della narratrice e la questione della possibilità del romanzo.

Come noto, la narratrice de La Storia è uno degli aspetti peculiari dell’opera. Se in tutti gli altri romanzi la Morante si affida a un narratore omodiegetico, interno alla storia (Elisa in Menzogna e sortilegio, Arturo nell’Isola di Arturo, ma anche il successivo Manuele in Aracoeli), La Storia è l’unico romanzo in cui la narratrice è eterodiegetica. Si tratta di una narratrice anomala, che a tratti e da interna pare depositaria di un referto parziale («io, quanto a me, le rare e frammentarie notizie che ho potuto raccogliere, le ho avute in gran parte da Ninnuzzu…»), ma che poi sa dirci con contezza assoluta, sciamanica, la morte di Giovannino nell’inferno bianco della ritirata di Russia e che si conclude con il «buona notte biondino» che ogni lettore de La Storia porterà con sé.

Ecco, a me pare che quella parola profetica, divinatoria, precognitiva che è della narratrice, ma che è anche di Ida Ramundo fin da bambina («precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali»), così come di Useppe che interroga il mondo e che dà voce alla natura della «tenda d’alberi», agli animali e alla lingua canina di Bella, sia un primo perché di assoluta capienza didattica per l’insegnante.

Lo è nella misura in cui quella narratrice, se fatta propria dall’insegnante, acquisita come patrimonio personale, per poi essere introdotta preliminarmente e durante la messa in opera in classe, spiegata, acclimatata, resa consapevole nell’esperienza di lettura, darà ragione di uno dei perché oggi La Storia è potente, nel senso che può molto educativamente a scuola: perché la sua lettura è immersiva per come è concepita l’opera, anzitutto in virtù della sua voce, che ha il potere di prendere il lettore per mano attraverso una narratrice che, al di là degli equivoci della prima ora, si inserisce pienamente nella grande stagione dell’eredità modernista, in grado di un punto di vista complesso e da perimetrare, ma proprio per questo credibile, capace del passo del tempo presente, proprio a ragione del suo specifico affabulatorio.

La forma

La questione della narratrice de La Storia si lega poi a quella del romanzo, che se per il docente porterebbe in dote anche l’opportunità della rilettura preziosa della vicenda del caso Morante, e sul quale ha dato un apporto decisivo il lavoro di Angela Borghesi (L’anno della Storia, Quodlibet 2019), trova fondamento nel contributo Sul romanzo del 1959 della Morante, poi incluso In pro o contro la bomba atomica, testo di assoluto respiro anche scolastico, nel quale viene dichiarato il mandato che quindici anni dopo diventerà conferma con La Storia:

«Romanzo sarebbe ogni opera poetica, nella quale l’autore – attraverso la narrazione inventata di vicende esemplari (da lui scelte come pretesto, o simbolo delle relazioni umane nel mondo) – dà intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo, nella sua realtà)».

La Morante, ferma sull’idea che il «gusto di inventare la storia inesauribile della vita è una disposizione umana naturale», affida al romanzo l’onere di dire un mondo, di dire il mondo, di dire le storie per dire la Storia, nel tempo in cui tale opzione pareva negata, fuori tempo massimo, vuota.

Lo dichiara fin dalla copertina originale del libro, purtroppo oggi menomata da scelte discutibili dell’editore: il bambinetto sereno seduto al posto del rosso del cadavere tra le macerie, la negazione del carattere maiuscolo a La Storia che annulla la diade Storia/storie fondativa del romanzo, la cancellazione di «Uno scandalo che dura da un milione di anni», ma soprattutto l’elisione proprio di quel «Romanzo» che è consustanziale al titolo e che determina l’opzione conoscitiva scelta dalla Morante, quella del romanzo appunto, che è forma e sostanza di quest’opera:

Un’opera quindi che si affida a una narratrice difficile da inquadrare, ma come appena detto di sicura efficacia conoscitiva e la scelta consapevole e convinta di una forma, quella del romanzo, proprio nel tempo storico in cui pareva essere negato: ecco, sono questi due grandi e a mio parere importanti perché che già giustificano La Storia in classe, proprio perché capaci di dire anche ai nostri studenti «conoscerai il racconto di singole e oneste storie, perché sistemiche alla grande storia, e perché è possibile farlo, e perché è possibile il romanzo anche oggi, e perché lo farai a mezzo di una voce misteriosa, ma che non ti deluderà perché onesta».

Due perché che probabilmente resteranno nel segreto dello studio dell’insegnante, della propria consapevolezza culturale e didattica, forse semplicemente nella propria testa, ma che ho sperimentato capaci, se adottati, di sedimentare naturalmente anche nell’esperienza della lettura dei ragazzi e delle ragazze.

La parola materno

La narratrice de La Storia e la scelta del romanzo, della forma del raccontare le storie consustanziali alla grande Storia che trova sede nelle cornici dei nove capitoli, insistono primariamente sui due personaggi che incarnano tale opzione conoscitiva: Ida e Useppe.

Se entrambi condividono con la narratrice la parola profetica (Ravello), che si rivela nelle passeggiate nel ghetto vuoto di Ida o nell’interlocuzione primigenia con il cosmo di Useppe nella «tenda d’alberi», madre e figlio sono latori di due portati conoscitivi che già ci fanno entrare in classe, che diventano materia e non più solo intenzione culturale del docente, che ci fanno ragionare sul cosa consegniamo agli studenti e alle studentesse mettendo a sistema quest’opera.

Per quanto riguarda Ida Ramundo, delle infinite considerazioni che si potrebbero fare su un personaggio del genere oggi, affidato a ragazze e ragazzi degli anni Venti, mi espongo nel dichiarare quella per quanto mi riguarda tra le più potenti, sempre nei termini di ciò che può educativamente in classe, ma allo stesso tempo quella più attaccabile, perché mossa anche da un referto personale. Provo a dirlo. Leggere Ida Ramundo significa fare e far fare un’esperienza di prossimità al materno di forza assoluta, alla prova certa della generatività che è infinitamente oltre il fatto biologico di avere messo al mondo figli o figlie, alla vertigine della letteratura che accosta il mistero della madre a chiunque, in ultimo all’uomo, padre o non padre che sia.

Personalmente, da tempo medito sulla percezione di come, se fino alla mia generazione il tema edipico sia stato quello centrale della ricezione ma anche del rispecchiamento specie negli anni scolastici, questa generazione di ragazzi e ragazze trovi nel campo del materno e dei significati da esso veicolati il campo di forze più intenso, a tratti violento, ma anche straordinariamente ricco per la definizione e il conflitto della propria identità. Proprio per questo, portare Ida Ramundo in classe, questa madre complessa partorita da chi madre biologica non lo è mai stata, ma che forse è la madre più importante del nostro Novecento, ritengo sia un’opzione conoscitiva assoluta o, per chi pretende concretezza, l’opportunità di assistere, durante la finale attivazione della classe-comunità ermeneutica su questo aspetto, all’ingresso delle domande più importanti dentro l’aula, alle considerazioni che i ragazzi e le ragazze sapranno tirare fuori, lasciandoci in silenzio, con la consapevolezza che in quell’ora qualcosa di grande stia accadendo.

Uno stupore attonito

Per quanto riguarda Useppe, il «pischelluccio» che rimarrà con i denti da latte, il piccolo idiota che dostoevskianamente interroga il mondo, le implicazioni conoscitive e quindi educative, se possibile, si moltiplicano a dismisura.

Useppe rientra a pieno titolo in quella genealogia dell’infanzia, della prossimità al tema del transito (che nel suo caso non avviene), quella stirpe nella quale è possibile annoverare tutti i Carlino Altoviti, i Pinocchio, i Rosso Malpelo, gli Agostino, i Pin e i mille altri bambini, ragazzini, preadolescenti che ogni docente che almeno una volta abbia portato in classe conosce perfettamente per la capacità assoluta di farsi via maestra di esperienza, di conoscenza, di rispecchiamento.

Ma se come nel caso di Ida dovessi segnalare uno degli aspetti più potenti, nel senso di ciò che un personaggio come Useppe può veramente a scuola didatticamente, mi basterebbe il patrimonio conoscitivo che lo «sguardo attonito» di Useppe difronte all’orrore porta in dote al lettore, allo studente, alla studentessa. Useppe nel celebre passo del binario della Tiburtina, il lunedì successivo al 16 ottobre del 1943 (che in classe potremmo riscoprire grazie a quell’altro agevolissimo e spendibilissimo capolavoro che è il 16 ottobre 1943 di Giacomo De Benedetti), si ritrova nell’affrontamento puro del male con «gli occhi spalancati in uno sguardo indescrivibile di orrore», al quale antepone quello «stupore attonito» che «non domandava nessuna spiegazione». Ecco, tale sguardo seminale, prerazionale, idiota, offre una via conoscitiva alternativa e necessaria al lettore e alla classe nell’affrontamento della questione capitale del male, a ragione di un accostamento non mediato dalla ragione tra il puro e l’impuro, tra l’innocenza e l’indecenza, tra lo stupore e l’orrore, alternativo ad esempio al modello conoscitivo di Primo Levi, segnato dal tarlo del comprendere.

È un fiore

Vivo il privilegio per paradosso anomalo, la condizione necessaria che dovrebbe essere normale ma che norma non è, della continuità didattica. Mi rendo conto di come la possibilità della lettura integrale de La Storia che ho sperimentato negli ultimi cinque anni dipenda in gran parte da tale presupposto, che mi permette di battere il terreno per il tempo necessario di un intero triennio, portando avanti un laboratorio di lettura che ho già raccontato in questa sede. Rimando a quel contributo per non eludere e rispondere compiutamente all’ultima questione, ovvero quella del come, del metodo, della prassi per fare sì che i perché che motivano questa scelta e il cosa che le dà sostanza si completino con la terza gamba necessaria del come, affinché il principio di realtà resti in piedi. Personalmente e per esperienza vissuta nelle mie precedenti classi, spero che anche quest’anno, a maggio, possa testimoniare come La Storia letta per intero abbia segnato un prima e un dopo per la mia attuale classe quinta, ma anche per me stesso. Per certo so che, come è avvenuto nei precedenti quattro anni, le parole che metteremo in comune sul libro dei morti della parte finale de La Storia non saranno il cedimento al patetico che un tempo fu lo stigma ingiusto di questo libro. So invece che le ultime parole che commenteremo, e che molto probabilmente gran parte di loro avrà dimenticato di leggere, saranno quelle nascoste di Gramsci nell’ultima vera pagina del libro, che ci diremo che «tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so che cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia», che chiederò loro quale sia ancora oggi quel fiore, se esiste quel fiore, che io dirò certo che esiste ancora quel fiore, è la scuola che decide ancora di essere sé stessa quel fiore.

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