Aporie del saggismo. Una risposta a Matteo Marchesini
Pubblichiamo una risposta di Mimmo Cangiano all’articolo di Matteo Marchesini Aborti di Marx, uscito su Snaporaz il 21 dicembre 2023.
Quando sono particolarmente stanco sogno di fare il saggista. Non aspiro ovviamente al vecchio saggismo novecentesco che mi obbligherebbe a un surplus di fatica, ad abbandonare un sistema di analisi per sostituirlo con un dedalo di metodologie interpretative da combinare, di citazioni (camuffate o meno), di continui cambi di direzione tesi a rimettere sul piatto, magari straniandola, tutta quella cultura accademica che al tempo stesso dovrei accettare e rifiutare. Non sogno insomma quel sovrappiù di problematizzazione (e di cultura) che il rifiuto delle strettoie di un metodo richiede. Non lo sogno perché, stanco, soprattutto non aspiro a quello sforzo che Fredric Jameson chiama metacommentario; al chiedermi sempre da quale posizione parlo e a domandarmi in che modo quello che dico sia connesso con la situazione storica, sociale e culturale che sto vivendo (come individuo, come parte di determinati gruppi sociali, ecc.). Applicare questo metacommentario mi condurrebbe infatti fatalmente non solo a questionare continuamente le mie affermazioni, ma addirittura a chiedermi cosa sia rimasto della carica dissacrante del saggismo medesimo quando, come oggi, la società è del tutto frantumata e singolarizzata, quando le “chiese” (religiose o laiche che fossero) sono scomparse, quando cioè alcuni degli assunti dello stesso saggismo (la parola detta sempre con riserva, il rifiuto della sovra-identificazione ideologica, l’eterodossia come habitus) si sono fatti a loro volta sistema e status quo. Ma come si fa a dire ai saggisti che hanno vinto?
Evitato tutto ciò, potrei allora finalmente affastellare dichiarazioni sicure e perentorie, farle tanto generali da trovare una certa risonanza nell’animo di ognuno, non considerare la loro resultante inevitabilmente kitsch e liberarmi così, come fa Matteo Marchesini nel suo articolo intitolato (con eleganza) Aborti di Marx, dall’ansia di doverle dimostrare: “tendiamo a rimuovere impauriti le zone d’ombra dell’esistenza”; “persiste il disprezzo per chi cerca un Bene che non è già fissato socialmente”, e così via. Ma ciò che può funzionare in un post di Facebook difficilmente funziona in un articolo.
Potrei allo stesso modo prendere un fatterello che mi è capitato (qui un interlocutore che confonde ideologia e falsa coscienza), moltiplicare il fatto per dieci (o per cinquanta) e trarne una teoria addirittura “sintomatica”, ma ci torno dopo.
Potrei poi sostenere che “neoliberismo” è un’etichetta di comodo e “mai verificata” (il neoliberismo nun esisti). E potrei farlo, come se parlassi per tranquillizzare i lettori del Foglio, dopo gli studi di Harvey, Anderson, Sennett, Moss Kantor, Laval, Boltanski, Chiapello, Lash, Peck, Piketty, Burt, Eisenstein, Powell, Graham, ecc. Ma ci sta pure che l’autore di Aborti di Marx abbia ragione e questi qua torto, però non riesco a immaginarmeli tutti, dal primo all’ultimo, nelle vesti dei poveri stronzi davanti a Marchesini.
Ma non mi si fraintenda: Marchesini è assolutamente conscio dei rischi interpretativi che la sua perentorietà saggistica si porta dietro. Deve allora impostare una doppia difesa.
Da un lato è costretto a fingere che le “chiese” esistano ancora, ed eccolo dunque, vittima, assediato da ogni dove da guardie rosse accademiche, barbuti pasdaran che, pur confondendo ideologia e falsa coscienza, continuano a salutarsi a pugno chiuso e a elargire prebende, premi letterari e scranni giornalistici. Contro questi (proditoriamente assimilati, come fa la destra americana, ai nuovi alfieri del politically correct)può allora attivare la sua ironia, quella del trickster che deride le cittadelle del potere, ma queste cittadelle sono assai meno difese di quanto Marchesini vorrebbe farci intendere.
Dall’altro lato si trincera bollando di “falsa coscienza” (qui usato correttamente) l’accusa di “arretratezza”. Se uno dice che il neoliberismo è solo un’etichetta senza essersi letto un po’ di roba sul tema, se sostiene la consequenzialità diretta fra vecchie “scuole del sospetto” e “correttismi” contemporanei, non è che magari farebbe bene ad aggiornarsi un po’ sul tema, no, è che chi lo accusa di non essere aggiornato è parte di un “Impero” (di un “aggressore”), moralistico e fondamentalistico, che persegue… gli spiriti liberi. Tra Es regressivo e Super-Ego cinico, le aporie del mondo culturale possono così essere ridotte nel cono d’ombra psicologizzante che le immagina bloccate in un’eterna adolescenza (alla fine un argomento moralistico alla Crepet), allontanando sempre più sullo sfondo la connessione fra quelle aporie (dell’accademia come del saggismo giornalistico) e le trasformazioni socio-strutturali.
“Ogni senso comune troppo sicuro di sé diventa ottuso”, sostiene Marchesini, e ha ragione. Bisogna sempre chiedersi (marxisti, cattolici, post-strutturalisti, femministe, ecc.) a cosa la propria protesta corrisponde; non solo a cosa mira ma di quali sintomi (di quali concrezioni socio-economiche, di quali inevitabili processi di mercificazione, ecc.) è figlia. Ma allo stesso modo bisogna anche chiedersi, evitando di figurarsi sempre e solo gli altri come soldatini conformisti, di cosa sia a sua volta sintomo quell’ansia che Andreas Reckwitz ha appunto chiamato “di singolarizzazione”, quell’incapacità di sentirsi parte di quel discorso collettivo che sono le ideologie, quel luogo comune (comunissimo ormai) per cui ogni costruzione ideologico-intellettuale sarebbe una camicia di forza su una realtà che sempre la eccede. Senso comune e analisi sintomatica sono insomma armi a doppio taglio, e il rischio per gli spiriti liberi di accomodarsi inconsapevolmente in un’assai più potente egemonia socio-culturale, mentre si critica la falsa coscienza altrui, è altissimo. E nessuno ha del resto ancora davvero chiarito se l’ironia, in una società disgregata e atomizzata come la nostra, non stia in realtà servendo a sua volta lo status quo.
Marchesini ci invita a sospettare dei maestri del sospetto e dei loro nipotini contemporanei. Se il suo fosse un invito a un surplus di materialismo, a una messa in connessione delle prospettive culturali (marxismo corrente incluso) con i processi socio-materiali in atto, potrebbe contarmi fra i suoi. Ma il suo appello si riduce poi, non a caso, proprio all’apologia indiretta dello status quo, mobilitando un cliché che sentivo spesso da un mio zio monarchico, e fiero oppositore del politicamente corretto, al pranzo di Natale: “fare i comunisti col culo degli altri”. Solo apparentemente più articolato Marchesini, ma il punto è esattamente lo stesso: “Chi non conosce “rivoluzionari” del 2023 tuttora incuranti dell’habeas corpus, là dove si tratta di paesi esotici, ma ben decisi a goderne nella loro esistenza quotidiana?”. Il senso comune è come detto un’arma a doppio taglio. Non è chiaro, infatti, dove Marchesini veda tutte queste garanzie democratiche nello status quo occidentale che indirettamente difende, nell’Israele di Netanyahu?, in quelle democrazie occidentali da anni alle prese (nelle dinamiche lavorative come in quelle poliziesche e di controllo) con ciò che Balibar ha chiamato una “ricolonizzazione del centro”? Il rischio per Marchesini è qui quello di trasformarsi nel “tizio di destra che ti spiega come essere di sinistra”, perché c’è un’enorme differenza fra il vedere e rilevare le contraddizioni da cui siamo, a sinistra, attanagliati (contraddizioni anzitutto materiali dovute al passaggio al post-fordismo), e il goderne, accusando la cultura di protesta (marxista, operaista o da French Theory che sia) di moralismo infantile. Il che, tradotto, significa semplicemente che dato che il mondo non può essere cambiato, bisogna rinunciare a sostenere ideologie che sostengono la possibilità di cambiarlo (oltreché a qualsiasi serio tentativo di storicizzazione del clima intellettuale). Dato che non si può sviluppare un serio programma politico, si deve rinunciare a quello culturale. Tutto qua? Ancora: apologia indiretta. È vero, “la dialettica, quando viene rimossa, gioca […] dei brutti scherzi”.
Ma davvero ormai il saggismo, per sopravvivere, è costantemente costretto a inventarsi un nemico fantoccio su cui riversare i suoi strali per ergersi vittorioso?
E però l’accusa che Marchesini muove va presa sul serio: “hanno finito per ridurre a ideologia il marxismo stesso”. Qua si inserisce appunto il lungo excursus su quegli intellettuali che confondono ideologia come partigiana visione del mondo e ideologia come falsa coscienza: “appena ho parlato di ‘ideologia in senso marxiano’ come fatto negativo, il mio interlocutore o la mia interlocutrice, sempre piuttosto maturi e animati da simpatie (astrattamente) marxisteggianti, hanno subito frainteso le mie parole.” Se Marchesini intende il rischio di uno scadimento delle categorie marxiste alla loro pura funzione culturale (o meglio culturalista), sottolineando di una loro separazione dall’analisi dei processi materiali a cui sono dialetticamente connesse, l’idea non brilla per originalità ma mi trova d’accordo. Gli do dunque il benvenuto nel materialismo storico, a patto naturalmente, e ciò non viene da lui fatto, che la stessa critica corrente allo scadimento delle categorie marxiste sia in grado di riconoscersi come a sua volta in dialettica con i suddetti processi materiali (che dialettica e analisi sintomatica valgano insomma per tutti, saggisti inclusi).
Se invece vuole semplicemente sottolineare che determinati intellettuali si accomodano in categorie che non hanno ben compreso per sfruttare a fini di posizionamento le solite “chiese”, sempre moraleggianti e fondamentaliste, devo ahimè fargli presente due cose: 1) che rischia, suo malgrado, di dare la stura a un’altra “chiesa”, quella dell’immarcescibile accademismo italico per cui cultura e arte sono sempre al di là di ogni ideologia; 2) che il rapporto fra ideologia e falsa coscienza è molto più complesso e dialettico del modo contrastivo e giustappositivo in cui lo presenta.
Lungi da me non credergli sul fatto che negli ultimi anni si sia imbattuto in circa 50 (cinquanta!) intellettuali che semplicemente non hanno capito il modo in cui Marx usa il termine “ideologia”, ma il Gramsci da bignami che utilizza in Aborti di Marx per spiegare il ruolo dell’ideologia come Weltanschauung manca completamente di dare conto del fatto (come spiegato nei Quaderni X e XI) che ogni Weltanschauung (marxismo incluso) è essa stessa falsa coscienza. La peculiarità del materialismo storico non consiste assolutamente nell’essere un’ideologia in grado di porsi, di per sé, al di là delle contraddizioni che dalla struttura si riversano nelle sovrastrutture. Sintomo del capitalismo (come Marx e Engels ben sapevano), il marxismo, in quanto espressione di una contraddizione che rivela ma che ovviamente non è in grado, nella mera teoria, di risolvere, non può, di per sé, porsi oltre le contraddizioni di una società divisa; non può – detto in altro modo – sperare di accomodarsi in un pensiero che si dà come oggettivo. Può solo (ma non è poco) additare la natura situata e partigiana delle sovrastrutture medesime (marxismo incluso) e quindi il loro carattere di falsa coscienza, vale a dire di prodotti che, mentre si presentano come universalistici, risentono di quelle contraddizioni e divisioni sociali che si originano sul piano dei rapporti materiali (di produzione, lavoro, mercato, ecc.). Questa è la ragione per cui il marxismo, a un tempo ideologia e falsa coscienza, deve poi puntare sul gradino ulteriore della prassi, una prassi che, se vittoriosa, finirà appunto per rivelare il marxismo stesso come falsa coscienza, perché distruggerà le condizioni materiali (il capitalismo) della sua formazione. Di nuovo: “la dialettica, quando viene rimossa, gioca […] dei brutti scherzi”. Non compreso ciò, non è un caso che Marchesini finisca poi per confondere la critica dell’ideologia marxiana con l’epistemologia relativista di Pareto, un’epistemologia che, non intendendosi a sua volta determinata da trasformazioni sul piano dell’operato del capitale, si immagina come scaturita da qualche punto esterno al piano materiale, cioè alla storia stessa.
Sulla base di questo fraintendimento scambiato per sintomo, Marchesini accusa allora in blocco il pensiero della protesta (e quello marxista in particolare) di essersi trasformato in una mera attitudine di posizionamento intellettuale con “l’alibi di chi si sente dentro la corrente trionfale della Storia” (qui l’assenza di storicizzazione, come le sue citazioni dimostrano, lo porta a pensare che siamo ancora negli anni ’50), vale a dire in una merce da spendere nell’agone competitivo del mercato delle idee, non capendo che il metacommentario è da sempre integrato al marxismo stesso, e che il marxismo sa che il passaggio a merce delle ideologie (marxismo incluso) è un fenomeno inerente al piano materiale dei rapporti di produzione, lavoro, mercato.
Sì, tutto avviene nel mercato (e al momento non potrebbe essere altrimenti); la produzione accademica, le culture wars, i festival letterari e gli articoli sul Foglio succedono all’ombra del mercato, cioè della funzione-merce della cultura. Marchesini però, sempre pronto ad alzare il ditino verso quelli che si è scelto come avversari (e non è questa un’altra forma di posizionamento?), ha posto a metacommentario il suo saggismo? Ha riflettuto sul rapporto che la sua stessa critica intrattiene con la sua posizione lavorativa? Lo vedo infatti ripetere, da articolo a articolo, sempre le stesse cose, usando gli stessi identici giri di parole, le stesse metafore. Non ha alcuna colpa di ciò, è la natura del lavoro che fa a costringerlo a questo riciclare continuo, oltreché a dover scrivere dei più svariati argomenti, per alcuni dei quali, chiaramente, è modestamente attrezzato. E però, e questa invece è una colpa (a venti come a cinquant’anni), si scaglia continuamente contro l’uso (sono termini suoi) massmediatico, social o buro-accademizzato della cultura, e lo fa nei due registri prediletti della sua godibilissima prosa, il perentorio e l’ironico, e io non riesco a immaginare niente che, di questi tempi, venda meglio, sia cioè più adatto al pubblico della cultura, di questi due registri. Ma mi pare di capire che la “falsa coscienza” riguardi sempre e solo gli altri.
E forse non è colpa sua. Non perché, come mi disse una volta un amico comune riducendo anche lui il tutto a un tic psicologico, “in fondo vuole solo essere amato!”, ma perché questo saggismo che assomiglia sempre più agli articoli che Lucien de Rubempré scriveva sulle gazzette parigine del tempo,manca sistematicamente di chiedersi se questo mondo della cultura che abbiamo davanti non sia proprio quello che ha sognato e aiutato a preparare. Ma per carità non si dica ai saggisti che hanno vinto.
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