Un Nobel mancato
Il nome di Anne Carson inizia a diffondersi in Italia verso la fine del 2020, dato per favorito per l’assegnazione del Premio Nobel, vinto poi, a sorpresa, da un’altra poetessa, Louise Gluck. In effetti Carson con la sua colossale e variegata produzione sembrava «la più destinata al ruolo di modern classic» (così Alessandro Carrera, Doppiozero). In realtà, le due poetesse molto hanno in comune, a partire dalla passione per la letteratura greca antica (Carson è anche traduttrice, saggista, drammaturga, docente universitaria ed esige che nelle note biografiche dei suoi libri si scriva: «Anne Carson è nata in Canada e per mantenersi insegna greco antico»), gli archetipi della mitologia e lo sguardo assolutamente disincantato; ad accomunarle, però, sono anche alcuni temi, come l’amore, il desiderio, il corpo, l’eros, il tradimento, il trauma dell’abbandono/perdita, il dolore straziante e incredulo che ne consegue, e la capacità di rivestirlo, questo dolore, con tagliente e sorprendente ironia.
A rendere, invece, unica Anne Carson è l’«audace sperimentazione» della sua scrittura che tende al «montaggio», all’«intersezione tra poesia, saggistica e memoriale» (così Deborah Tall e John D’Agata per cui questa nuova forma «dà il primato alla creazione artistica rispetto alla trasmissione di informazioni esatte, abbandonando la trama narrativa, la logica discorsiva e l’arte della persuasione a favore di una meditazione idiosincratica»), in cui lirismo, idee, fatti, riferimenti classici e contemporanei, autobiografismo dialogano costantemente. La frantumazione del racconto, però, non prescinde mai dalla fedeltà, assoluta, al reale e non rinuncia, quindi, a narrare una storia, spesso con frasi ellittiche ma precise, immagini dense e simultanee.
A questo proposito, qualche mese fa è stato pubblicato in Italia, da Crocetti Editore, Vetro, Ironia e Dio, tradotto e curato da Patrizio Ceccagnoli, considerato da subito (Glass, Irony & God, edito da New Directions nel 1995, con il consenso di James Laughlin, poeta e fondatore della casa editrice, ritenuto il principale promotore del modernismo americano), come uno degli eventi più significativi per la poesia di lingua inglese di fine Novecento, e tuttora considerato uno dei libri più importanti della letteratura nordamericana (e non solo) degli ultimi decenni.
Glass, Irony & God
Il libro è diviso in sei sezioni, The Glass Essay, racconto intimo della fine di un amore («It is stunning, it is a moment like no other, / when one’s lover comes in and says I do not love you anymore. / I switch off the lamp and lie on my back», p. 94; «È sbalorditivo, è un momento come nessun altro, / quando l’amato entra e dice: non ti amo più. / Spengo la luce e mi sdraio sulla schiena», p. 95); The Truth About God, una dissacrante riflessione sul divino («It was a November night of wind. / Leaves tore past the window. / God had the book of life open at PLEASURE // and was holding the pages down with one hand / because of the wind from the door. / For I made their flesh as a sieve // wrote God at the top of the page / and then listed in order: / Alcohol / Blood / Gratitude / Memory / Semen / Song / Tears / Time.», p. 142; «Era una ventosa notte di novembre. / Le foglie sfrecciano di là dalla finestra. / Dio aveva il libro della vita aperto alla parola PIACERE // e con una mano teneva ferme le pagine / a causa del vento che entrava dalla porta. / Perché feci la loro carne come un setaccio // scrisse Dio in cima alla pagina / e poi elencò in quest’ordine: Alcool / Sangue / Gratitudine / Memoria / Sperma / Canto / Lacrime / Tempo», p. 143); TV Men, una ironica critica ai mass media e alla rappresentazione di eroi ed eroine del passato e del presente («TV is hardhearted, like Lenin. / TV is rational, like mowing. / TV is wrong, often, a worry. / TV is ugly, like the future. / TV is a classic example. // Hektor’s family members found themselves engaged in exciting acts, / and using excited language, which they knew derived from TV. // A classic example of what. // A classic example of a strain of cruelty», p. 146; «La TV non ha il cuore tenero, come Lenin. / La TV è razionale, come la tosatura del pratino. / La TV è sbagliata, spesso, preoccupante. / La TV è brutta, come il futuro. / La TV è un classico esempio. // I membri della famiglia di Ettore si trovarono coinvolti in gesti entusiasmanti / e nell’uso di un linguaggio entusiasta, che sapevano venire dalla TV. / Un classico esempio di cosa. // Un classico esempio di una certa forma di crudeltà», p. 147); The Fall of Rome: a Traveller’s Guide, una meditazione sullo straniero e, più in generale, sullo smarrimento e lo sradicamento («What is the holiness of the citizen? / It is to open // a day // to a stranger, / who has no day / of his own», p. 196; «In che cosa consiste la sacralità del cittadino? / L’aprire // un giorno // a uno straniero / che non ha un giorno / tutto suo.», p. 197); Book of Isaiah, riscrittura personale delle sacre scritture; The Gender of Sound, un saggio che esplora il tema del suono secondo la prospettiva di genere.
The Glass Essay (Il saggio di vetro)
A spiccare significativamente è, però, The Glass Essay (Il saggio di vetro), considerato un modello di riferimento per il genere del saggio lirico. È la confessione, lucida e dolorosa, della sofferenza amara per la fine di una relazione amorosa («un melodramma spirituale»), attraverso il racconto di una visita ai genitori vecchi e malati (il padre è ricoverato in una clinica per Alzheimer e la madre, con cui ha un rapporto assai complesso, vive sola e isolata da tutti), in un paesaggio che accende il confronto con la brughiera delle sorelle Brontë e le loro opere (l’identificazione avviene soprattutto con Emily). Le prime due poesie (I, Io; She, Lei) danno un’anticipazione precisa della parabola evolutiva (ma non definitiva) della vicenda. In I il prologo, l’antefatto: I can hear little clicks inside my dream. / Night drips its silver tap / down the back / At 4 A.M. I wake. Thinking // of the man who / left in September. / His name was Law. // My face in the bathroom mirror / has white streaks down it. // I rinse the face and return to bed. / Tomorrow I am going to visit my mother (Io: «Nei miei sogni sento il ticchettio. / La notte sgocciola lungo la schiena /il suo picchiettio d’argento. /alle 4 del mattino mi sveglio. Pensando // all’uomo che / a settembre se n’è andato. / Il suo nome era Law. // Nello specchio del bagno la mia faccia /mostra bianche striature. / Mi sciacquo il viso e torno a letto / Domani andrò da mia madre»). In She, l’inizio della progressiva assimilazione con la scrittrice inglese («She lives on a moor in the north. / She lives alone. /Spring opens like a blade there. / I travel all day on trains and bring a lot of books – / some for my mother, some for me / including The collected Works Of Emily Brontë. / This is my favourite author. // Also my main fear, which I mean to confront. / Whenever I visit my mother / I feel I am turning into Emily Brontë, // my lonely life around me like a moor, / my ungainly body stumping over the mud flats with a look trasformation / that dies when I come in the kitchen door. / What meati s it, Emily, we need?» (Lei: «Vive al nord in una brughiera. / Vive sola. / Lì la primavera si apre come una lama. / Viaggio tutto il giorno in treno, con un mucchio di libri – / alcuni per mia madre, altri per me, / incluse Tutte le poesie di Emily Brontë. / È il mio autore prediletto. // E la mia più grande paura, mi ci voglio confrontare. / Ogni volta che vado da mia madre / mi sembra di diventare Emily Brontë, // intorno a me la vita solitaria come una brughiera / il mio corpo sgraziato vacilla sulle distese di fango in apparente trasformazione / e appena varco la porta della cucina muore. / Che carne ci serve, Emily?»). Immerso in una «atmosfera di vetro», tra «coltivazioni di ghiaccio» che «si trasformano in fango», sotto «cumuli di sole azzurro pallido», l’io lirico osserva «le barriere del tempo spezzarsi» in schegge, e si spinge in una dimensione remota, giungendo a continue precipitazioni e altrettante risalite.
Il saggio, infatti, è una lenta immersione nel basso, nell’animalità degli istinti, nelle pulsioni più profonde perché, come afferma Carson, sulla scia di Saffo, in Eros il dolceamaro (Eros the Bittersweet è del 1986, in Italia è uscito, nel 2021 per Utopia), «se seguiamo la traiettoria dell’eros, lo scopriamo a tracciare costantemente questo stesso percorso: si muove dall’amante all’amato, per poi rimbalzare verso l’amante stesso, fino all’abisso che ha dentro, e che prima era rimasto inosservato» (p. 47). Il soggetto della poesia è, dunque, «quell’abisso», proiettato sullo schermo della realtà, «in una sorta di stereoscopia», che sconcia la reazione della mente desiderante, sciogliendole le membra, allentandone la «vergogna», il «pudore» («αίδώς»): «[…] He stood in my living room and spoke // without looking at me. Not enough spin on it, / he said of our five years of love. / Inside my chest I felt my heart snap into two piaces // which floated apart. By now I was so cold / it was like burning. I put out my hand / to touch his. He moved back. // I don’t want to be sexual with you, he said. Everything gets crazy. / But now he was looking at me. / Yes, I said as I began to remove my clothes. // Everything gets crazy. When nude / I turned my back because he likes the back. / He moved onto me. // Everything I know about love and its necessities / I learned in that one moment / when I found myself // thrusting my little burning red backside like a baboon / at a man who no longer cherished me. / There is no area of my mind // not appalled by this action, no part of my body / that could have done otherwise. […]» («Law rimase in soggiorno e parlò // senza guardarmi. Non c’è abbastanza tensione, / ha detto dei nostri cinque anni d’amore. / Dentro il petto ho sentito il cuore spaccarsi in due // pezzi alla deriva. Ormai avevo così freddo / che mi sentivo bruciare. Allungai la mano / per toccare la sua. Si tirò insietro. / Basta sesso tra di noi, disse. Tutto diventa folle. / Ma ora mi stava guardando. / Sì, dissi mentre iniziai a togliermi i vestiti. // Tutto diventa folle. Una volta nuda / mi voltai di spalle perché a lui piace la schiena. / Si mosse su di me. // Tutto quello che so dell’amore e delle sue necessità / l’ho imparato nel momento in cui mi sono ritrovata // a offrire il mio piccolo fondoschiena rosso come un babbuino / a un uomo che aveva smesso di amarmi. / Non c’era parte della mia mente // che non fosse inorridita da quel gesto, nessuna parte del mio corpo / che avrebbe potuto comportarsi diversamente […]», pp. 41-43).
I Nudi
L’abisso offre, però, un significato più vero di quello svelato dal degradante e traumatico evento erotico, uno sguardo più ampio che lampeggia in un gioco di immagini e possibilità al di là del reale; ed ecco, quindi, che la lacerazione dell’abbandono si concretizza in visioni aspre e scintillanti, «ecfrasi della propria anima squadrata» («barlumi della mia anima messa a nudo»), che interrompono, a tratti, la narrazione. Carson le chiama «Nudi»: «Nude # 1. Woman alone on the hill. / She stands into the wind. // It is a hard slanting from the north. / Long flaps and shreds of flesh rip off the woman’s body and lift / and blow away on the wind, leaving /an exposed column of nerve and blood and muscle / calling mutely through lipless mouth. / It pains me to record this, // I am not a melodramatic person. / But soul is “hewn in a wild workshop” / as Charlotte Brontë says of Wulthering Heights. […]» (Nudo n.1. Donna sola su una collina. / Sta in piedi nel vento. // È un vento violento che soffia da nord. / Lunghi lembi e brandelli di carne si strappano dal corpo della donna e si sollevano / e volano via nel vento, lasciando // esposta una colonna di nervi, sangue e muscoli / che continua a chiamare muta attraverso una bocca senza labbra. / Mi addolora documentare tutto questo, // non sono una persona melodrammatica. / Ma l’anima è “intagliata in un’officina selvaggia” / come dice Charlotte Brontë in Cime tempestose […]», pp. 36-37). Il dolore è, dunque, una folgorazione che provoca nell’amante una visione estatica, un innalzamento mentale, una fuoriuscita da se stesso, che non si traduce, però, in assenza o smarrimento, in perdita della coscienza, ma nell’acuta consapevolezza del mondo fisico e del corpo, il suo e quello di tutti («Non era il mio corpo, non era il corpo di una donna, era il corpo di tutti noi»). E il linguaggio diviene «un’unità sintetica e in tensione che mette in scena la realtà di cui parla» (così Carson su Simonide di Ceo, in Economia dell’imperduto, tradotto e pubblicato in Italia nel 2020, il testo originale è del 1999), e va oltre, offrendone una prospettiva dall’alto, radiale, in plongée; le parole, organismi viventi, fissano lucidamente ed eternamente le azioni e i pensieri al di fuori del flusso del tempo, in un movimento vivo e cangiante, ma anche duro e freddo, brutale: «Nude #2. Woman caught in a cage of thorns. / Big glistening brown brown thorns with black stains on them / where she twists this way and that way // unable to stand upright. / Nude #3. Woman with a single great thorn implanted in her forehead. / She grips it in both hands // endeavouring to wrench it out. / Nude #4. Woman on a blasted landscape / backlit in red like Hieronymus Bosch. // Covering her head and upper body is a hellish contraption / like the top half of a crab. / With arms crossed as if pulling off a sweater // she works hard at dislodging the crab. […], p. 59 (Nudo n. 2. Donna prigioniera in una gabbia di spine. Grandi luccicanti spine marroni con macchie nere / dove la donna si torce in ogni direzione // incapace di stare in piedi. Nudo n. 3. Donna con un’unica grande spina conficcata nella fronte. / Lei la stringe con entrambe le mani // sforzandosi di estrarla / Nudo n. 4. Donna in un paesaggio devastato / retroilluminato in rosso come in Hieronymus Bosch. // A ricoprire la sua testa e la parte superiore del corpo è un marchingegno infernale / come la metà superiore di un granchio. […], p. 59).
«La poesia è un uomo in fiamme che la attraversa correndo»
Nella scrittura di Carson si addensa irrefrenabile, insomma, una intensa tensione esistenziale, una fascinazione per l’oltranza che non trova mai, fortunatamente, consolatorie cadenze in cui pacificarsi, la carica vitale rimane sempre intatta, nonostante l’ampia costellazione di erratiche macerie emotive. L’azione verbale permette alla nostra percezione di saltare o passare dal reale al possibile, senza perderne di vista la differenza, in un movimento costante che è tenero e amaro al tempo stesso, un «complicato meccanismo d’amore e di sofferenza» per dirla con Duchamp, artista amato da Carson cui dedica un bellissimo riferimento in The Beauty of the Husband: a Fictional Essay in 29 tangos, del 2001 (pubblicato in Italia da La Tartaruga, nel 2022, con il titolo La bellezza del marito, Un saggio romanzato in 29 tanghi, tradotto da Chiara Spaziani), un altro libro molto interessante sul desiderio, sulla sua seduzione e sul tormento che ne deriva.
Vince, insomma, capacità di resistere all’ ostinata creazione di errori, di reagire agli eventi, al senso di colpa, alle istanze autopunitive, e di continuare a «inciampare» e a «viaggiare», senza alcuna pretesa di ambizione conoscitiva, accettando che il mondo (e gli uomini) è un insieme di antitesi e che è necessario adattarsi ad una convivenza precaria con l’inconoscibile e con le sue parvenze sociali («Viaggiare presenta i suoi inaspettati vantaggi […], ma anche quel senso del limite che c’è nell’alienazione che costituisce l’inizio del pensare. Non si pensa finchè non si inciampa in qualcosa, e viaggiare ci fa sempre inciampare. Quel che dico ha un qualche senso? Vorrei poter dire qualcosa di filosofico, ad esempio che la vita è una strada e che tutti noi la stiamo percorrendo, ma la verità è che non credo a nulla di simile. In realtà non c’è alcuna destinazione ad attenderci, nessun posto dove andare. […] Si è sempre nel mezzo»). Anne Carson sembra collocarsi sul rovescio della poesia, che nasce, sempre, dall’analisi spietata del vivere, e si misura con le scorie dell’esistenza («È dal basso che viene la seduzione della forza», XIV tango, in La bellezza del marito). È questa l’unica possibilità di delineare un senso e un destino, di raggiungere la «bellezza»: farsi largo nella «trama potabile della vita» («Dire Bellezza è Verità e basta. / Piuttosto che divorarla. / Piuttosto che volerla divorare. Questo fu il mio primo puro pensiero. […] La vita prevede dei rischi. L’amore è uno. Rischi terrificanti. / Ray avrebbe detto / Ama il destino che chiama, chiamo il destino che amo / In una sera di giugno. / Ecco il mio consiglio, / tenetevela stretta. // Tenetevela stretta la bellezza.
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