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diretto da Romano Luperini

Ancora sulla lezione frontale

Il racconto di una propria esperienza in classe, per intervenire nel discorso pubblico sulla scuola, è sempre un porsi in posizione debole. Lo è perché si assume il rischio della parzialità del proprio particolare per dire dell’universale, perché vanno tenute a bada le insidie dell’individualismo (a partire dalla tentazione dei narcisismi), perché in fondo resterà sempre un’approssimazione dell’esperienza vissuta. Ma per quanto vada dichiarato il limite di tale punto di vista, con la stessa onestà andrebbe detto quanto sia esperienza comune, nel tempo dei grandi proclami e delle grandi semplificazioni, il percepire da chi è dentro la classe l’irrealtà di troppi universali nel discorso pubblico sulla scuola; il verificare, pure nel limite dichiarato della propria esperienza, come la singola ora di lezione, quotidianamente, denunci la distanza spesso siderale tra quanto avviene e quanto avverrebbe, tra ciò che è e ciò che sembrerebbe, tra il discorso pubblico sulla scuola e le mattinate dentro la scuola.

Tra le questioni ad alta capienza simbolica, la lezione frontale resta una di quelle dove tale scollamento pare spesso assoluto. Alcune esperienze di questi primi mesi in classe (ma eccomi già nelle sabbie mobili del referto personale) mi hanno spinto alla condivisione del racconto, per tentare di mettere a fuoco una delle etichette più opache, appiccicate, usate a sproposito nel dibattito pubblico sulla scuola: la lezione frontale.

Affrontarsi

«Adesso mi ascolterete per un po’, una decina di minuti, forse venti. Foglio, penna, io scrivo sulla lavagna ogni tanto, ma ora ascolterete, per poi intervenire voi. Vi introdurrò l’idea di straniamento, di uno russo con il nome strano e poi leggeremo insieme le prime righe di Rosso Malpelo. Datemi fiducia, vedrete che ci riguarderà, si tratta dell’automatismo di certe percezioni. Io parlo e poi voi interverrete, iniziamo».

«Adesso mi ascolterete per un po’, una decina di minuti, forse venti. Foglio, penna, io scrivo sulla lavagna ogni tanto, ma ora ascolterete, per intervenire voi. Vi racconterò dell’incantesimo di Atlante, dell’Ecclesiaste e delle vanità, e poi leggeremo qualche ottava. Datemi fiducia, vedrete che ci riguarderà, si tratta delle illusioni che sono gabbie. Io parlo e poi voi interverrete, iniziamo».

«Adesso mi ascolterete per un po’, una decina di minuti, forse venti. Foglio, penna, io scrivo sulla lavagna ogni tanto, ma ora ascolterete, per poi intervenire voi. Vi dirò del carnevale, di uno che si chiama Bachtin, di che c’entra Cecco Angiolieri e poi leggeremo un sonetto di Dante che non vi aspettereste. Datemi fiducia, vedrete che ci riguarderà, si tratta di avvertire i contrari. Io parlo e poi voi interverrete, iniziamo».

«Adesso mi ascolterete per un po’»: una quinta, una quarta e una terza, tre argomenti avviati naturalmente in tre classi diverse, messi a sistema con la lezione frontale.  Frontale dice della fronte, del guardarsi in faccia, ma dice anche dell’affrontarsi, dello scontrarsi, addirittura militarmente dell’attaccare e del difendere. Già questo scandalizzerebbe, chiuderebbe il discorso, a ragione di un luogo, la scuola, che chiamerebbe alla postura opposta. Eppure, c’è un momento in classe in cui si sta legittimamente di fronte, il docente e la classe si fronteggiano, l’adulto sta di fronte all’adolescente. Questo accade perché il docente apre una nuova porta, dopo essersi chiuso dietro quella della classe, una nuova porta attraverso la quale passano gli studenti che ascoltano, pensano e vedono, che sono traghettati nel nuovo, che sono costretti a muoversi nel nuovo, mentre ascoltano, pensano e vedono, per ritrovarsi poi in relazione, ma sul nuovo. Un frangente, calibrato, organizzato, commisurato al contesto, in cui chiusa la porta della classe il docente dirà «ora ascoltatemi», prenderà un pennarello, si saprà conquistare l’attenzione di chi gli è davanti, metterà a disposizione del sistema classe di cui lui è parte il tempo, lo spazio, l’oggetto della conoscenza che lui solo preliminarmente può introdurre il quel contesto. Perché serve una terra nuova dove muoversi, perché in quella terra nuova, nel primo momento ci si accede realmente solo grazie a chi c’è già stato, s’è preso la briga, da anni, di esplorarla, di capirla, di studiarla a fondo e incessantemente, ed è per questo la scelta più sensata decidere di andare dietro, seguire, fare memoria di un «allor si mosse, e io li tenni dietro», per muovere i primi passi adulti là dentro.

Senza infingimenti

Lo può fare lo studente, lo può fare la classe, loro devono aprire quella porta, si dirà; non è più il tempo dello stare in cattedra, si dirà; ma si annoiano, si dirà. Non è vero, stiamo esattamente e senza infingimenti muovendoci perché loro sappiano aprirla quella porta, perché poi non è la noia che ci spaventa, che anzi è anch’essa una delle esperienze che la scuola dovrebbe sapere rendere adulte. Io dico invece, ribadendo la parzialità dell’osservatorio personale e quindi a fronte dell’esperienza avuta in questi venti anni in istituti professionali, nei tecnici e nei licei, che l’attacco a quel fantasma senza contorni che sarebbe la lezione frontale di cui si parla spesso nel discorso pubblico, sia uno dei grandi equivoci del nostro tempo, perché alla luce di una immaginazione spesso grottesca (il docente che per un’ora, monotono, reciterebbe il manuale), si va a minare l’assunzione della responsabilità educativa, che è la necessità preliminare della consegna del conoscere, del non indietreggiare mai su quel diritto al crescere dovuto alle ragazze e ai ragazzi, per mettere tutti in condizione da adulti di aprire l’ennesima porta.

Ma ciò che per le scienze dette dure, la fisica, la matematica, la chimica, parrebbe naturale – chi potrebbe portare in classe se non il docente e anzitutto frontalmente un teorema, un processo, una reazione – non lo sarebbe per chi conosce il mondo con le parole, con le idee, non lo sarebbe per lo straniamento verghiano, per l’allegoria del palazzo di Atlante, per la controcultura del Duecento.

Difronte, di lato, dietro la classe

A riguardo, nel caso delle discipline umanistiche, e in quello specifico dell’insegnamento della letteratura, non sembrerebbe nemmeno sufficiente ribadire la naturalezza dell’esperienza di ogni giorno, per la quale chiunque sia in classe sa che la frontalità è anzitutto necessaria anche e proprio per mettersi poi di lato agli studenti quando, una volta preso possesso di una terra nuova, avverrà l’incontro sui testi, alunni e docente, in un dialogo fondato e quindi credibile, ma proprio per la responsabilità assunta dal docente di dire, «dobbiamo arrivare insieme laggiù, e lì discutere». Tanto meno sembrerebbe sufficiente dire come proprio in virtù di ciò arrivi anche il momento in cui – ed è veramente uno dei motivi per continuare a rimanere a scuola – raggiunta quella terra, negoziati onestamente e fondatamente i suoi significati sulle conoscenze nuove che la abitano, arriverà anche il momento per il docente di mettersi dietro alla classe, libera a quel punto di farsi comunità intellettuale, interpretante, autonoma, sì, la classe come comunità ermeneutica, anche la mia classe dei meccatronici, del corso informatici, dei liceali di questa mattina.

Parrebbe oggi e invece naturale sancire che, dietro paraventi vuoti di vero contenuto (noia, dogma dell’innovazione, assolutizzazione del principio del piacere), il solo ipotizzare l’assunzione di responsabilità che l’avvio del processo educativo comporta attraverso la lezione frontale, sia resistenza al nuovo, mancanza dell’idea di futuro, abbandono della presa sulle nuove generazioni. Non è così per quanto ci riguarda, e forse oggi è il tempo di ridirlo, come quando si inizia la più bella delle lezioni.

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