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diretto da Romano Luperini

A proposito di Come d’aria di Ada D’Adamo

Un’assegnazione postuma

Quando è stato assegnato il premio Strega 2023 (Elliot, Roma, 2023, pp. 134) a questo libro, che ha scalato la classifica dei libri più venduti (circa150.000 copie), mettendo in crisi, per la tiratura elevata, la piccola casa editrice che ha avuto il coraggio di pubblicarlo, ho pensato ad un’operazione iper politically correct. È stata premiata una donna, morta di cancro prima di sapere di aver vinto il premio (l’assegnazione postuma è accaduta solo altre tre volte: a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel 1956, per Il gattopardo; a Maria Bellonci, nel 1986, per Rinascimento privato; a Maria Teresa Di Lascia, nel 1996, per Passaggio in ombra), che nel libro racconta la sua storia con una figlia gravemente disabile. Invece il libro merita di essere letto.

Una storia autobiografica

È una storia autobiografica raccontata in presa diretta, apparentemente senza filtri letterari, usando i nomi e i cognomi dei protagonisti (l’autrice lo precisa nella nota siglata prima di iniziare il racconto). Fra l’altro il titolo rimanda ad «uno scioglilingua», ad un gioco di parole, di cui si scopre il significato al termine del libro, che lascio alla curiosità del lettore e che racchiude un grande amore. La scelta dell’autobiografismo è ispirata esplicitamente ad Annie Ernaux che, nel giustificare L’evento, il libro in cui racconta del proprio aborto clandestino, scrive: «non ci sono verità inferiori e aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori» (p. 69). Il tipo di autobiografismo di Ada d’Adamo non è, però, del tutto «impersonale», come si dice invece della Ernaux. Ha per forza di cose una marca più privata, anche se il riferimento dell’autrice ad altre madri di disabili è continuo, ma il tema della narrazione è specificamente il rapporto tra Ada e Daria, tra questa madre e questa figlia.
Dal punto di vista del genere il libro è stato definito un memoir e la definizione calza, anche se qui siamo di fronte ad una memoria – per così dire – più ravvicinata. Nel Prologo la scrittrice mette le mani avanti: «Da qualche tempo non ricordo più le cose» (p. 9). È quanto accade a seguito delle terapie a cui viene sottoposta per il cancro. In questo senso il libro è un recupero di memoria. L’incipit vero e proprio, però, lo troviamo nel primo capitolo, Gravità, termine che rimanda alla condizione molto seria in cui versa fin dalla nascita la figlia Daria. Il suo nome, con un gioco di parole, che poi con perfetta circolarità rimanda alla fine del libro, diventa lieve («Sei Daria. Sei D’Aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile» p. 7).
L’operazione letteraria è, dunque, tutta un grande esorcismo, come per Sherazade il racconto vuole esorcizzare la morte e quanto vi è connesso: la malattia, il dolore, la finitudine umana («È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio»).

Una forma letteraria originale

La forma letteraria scelta ha una sua originalità che si fonda su due elementi: tutto il romanzo è scritto con un tu colloquiale in forma di dialogo con la figlia, che per la sua grave disabilità non può rispondere; e poi il racconto non ha una sequenza narrativa lineare, ma viaggia per continue oscillazioni sull’asse temporale come capita seguendo il filo della memoria. L’autrice è alla sua prima prova letteraria, viene dall’esperienza della danza, sulla quale ha scritto molti saggi. Ha, come è ovvio, una grande conoscenza del rapporto e del linguaggio dei corpi, che costellano l’intero romanzo e sono la specifica modalità di questa madre di stare in relazione con questa figlia. La sequenza dei capitoli è progressiva, da Uno a Trenta, intervallata da brevi notazioni in corsivo che scandiscono il tempo e vanno dal 23 aprile 2012 all’8 marzo 2022. Sono notazioni temporali in sequenza quasi estranee alla trama stessa. La storia finisce con l’unico capitolo che, invece di un numero, reca un titolo, Incorporazione (a parte Gravità e Prologo). Quindi Ada d’Adamo si muove con padronanza dei mezzi narrativi, che le derivano dall’esperienza vasta di lettrice, attestata dalla ricca sezione finale di Materiali. L’ultimo capitolo (che lascio ancora una volta alla curiosità del lettore) indica il rischio mortale che ha corso l’autrice, la voce narrante, quello di rendersi una cosa sola fusa, incorporata con la figlia. La perdita della propria identità attraverso l’«incorporazione», che è un meccanismo psicologico più primitivo della stessa introiezione, tutto giocato a livello corporeo, contiene il rischio mortale di perdere se stessi, e d’altronde che Ada e Daria tendono ad essere una cosa sola è più volte ribadito nel corso del romanzo.
La trama è indicativa di questo rischio mortale: Ada per seguire la salute di Daria dimentica se stessa fino a morirne, come spiega nel capitolo Uno: «A novembre 2016 eri ricoverata in ospedale per un nuovo intervento, il terzo allo stomaco. E così avevo saltato la consueta ecografia di controllo al seno» (p.11). È questa dimenticanza di sé che condanna Ada a morire di cancro a 55 anni, alla vigilia della consacrazione dello Strega.

Un’interpretazione psicodinamica

C’è un retroterra psicologico ricostruibile in filigrana. Ada ha un legame privilegiato con la propria famiglia di origine, da cui non si è mai completamente separata, tutta centrata sulla figura del proprio padre («Tuo nonno è stato il centro delle nostre vite … perennemente dibattute tra il pericolo di avvicinarsi troppo, di soffocare, di scottarci, e il rischio di allontanarci uscendo dall’orbita assegnata», p. 116). Questo legame difficile da rompere, che si spezza solo con la morte del padre di Ada, si riflette sul grande amore di Ada, Alfredo, quel «babbo» di Daria, a cui è dedicato il libro («Ad Alfredo, spalle larghe, mani di roccia» è la dedica in esergo»). Si noti l’uso del toscanismo, senza giustificazioni d’origine geografica (l’autrice è di Ortona in Abruzzo), per distinguere i due uomini.
Alfredo fa fatica ad esserci, entra con difficoltà a spezzare il legame di Ada con l’altro uomo (il padre di lei), inoltre lavora lontano, in un’altra città, dove ha avuto un’altra famiglia. La sua assenza determina la scelta dell’aborto da parte della scrittrice, è il primo evento traumatico, datato giugno 2004. D’Adamo ne parla in due capitoli decisivi, i centrali Diciassette e Diciotto (divisi dalla dichiarazione d’amore di una compagna di classe, Cecilia, per Daria), scrive: «Quando, l’anno dopo, sono rimasta incinta di te … ho detto al tuo babbo che io quel figlio me lo sarei tenuto a tutti i costi. La nostra situazione non era molto diversa dall’anno prima, ma ero diversa io. Sapevo che non l’avrei fatto di nuovo» (p. 70). Nel capitolo successivo veniamo a sapere che Daria nel suo concepimento aveva una gemella, una seconda camera gestazionale, che viene abortita spontaneamente («tu eri due» p. 72). A tale vissuto Ada fa risalire la causa prima del suo cancro, nonostante la ragione tenti di allontanare questo pensiero tormentoso («Perché mi sono ammalata di cancro? Forse avevo qualche colpa da espiare. Una colpa grande, la peggiore che si possa immaginare. Una colpa indicibile e quindi mai confessata ad alcuno. Riguarda te, la consegno alle tue piccole mani che accarezzano, alle gocce delle tue pupille, alle tue orecchie capaci di sentire anche un soffio, alle tue labbra costrette a custodire il segreto», p. 73). Ma vi sono anche altri comportamenti che, secondo la scrittrice, possono avere determinato l’origine della malattia («Quando diedi al tuo babbo la notizia che ero incinta di te, lui smise all’improvviso di cercarmi … di nuovo gli avevo permesso di ingannarmi … il sacrificio di tuo fratello, dunque, non era servito a nulla? … Valeva così poco quell’amore sul quale avevo investito così tanto? Perderti a causa di un aborto spontaneo poteva essere un modo per uscire da quel vicolo cieco … in fondo la minaccia d’aborto c’era già», p. 74). Ada tenta di provocarsi un nuovo aborto con una spericolata fuga in motorino tra le buche delle strade di Roma, dibattendosi tra il desiderio di uccidere la figlia in grembo e di salvarla («Ecco quello che ho fatto, il mio peccato inconfessato … so solo che amavo tuo padre al punto che mi risultava insopportabile averlo perduto a causa tua … Avevo invocato l’intervento della malasorte, senza sapere che il bersaglio di quella sorte non potevi essere solo tu, ma saremmo state io e te, insieme per tutta la vita»). Ada è, dunque, responsabile e il romanzo si configura come un’operazione catartica, il tentativo di liberarsi dalle colpe e dai traumi del passato. Infine possiamo rinvenire qui un’altra caratteristica tragica del moderno: le donne cercano negli uomini protezione, soprattutto rispetto ad una maternità sempre più difficile in Occidente (ricordiamo il passo della richiesta di Ada ad Alfredo, a p. 122: «Coprimi», carica di tutta la sua ambivalenza anche erotica), e drammaticamente molto spesso non la trovano. Gli uomini sembrano essere sempre altrove, alienati dalla vita e dalla sua origine.

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