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diretto da Romano Luperini

Rituali, simboli e accasamento a scuola

Alzarsi in piedi

In una delle scene iniziali del film Class enemy di Rok Bicek, ambientato in una scuola superiore slovena, il supplente di tedesco che ha uno stile comunicativo antitetico a quello della collega di ruolo, molto empatica e quasi materna, chiede alla classe perché bisogna alzarsi in piedi quando entra l’insegnante. Nessuno lo sa con certezza. È un gesto ormai automatico e si presuppone che sia un segno di rispetto nei confronti del docente.  Il Prof. Zupan, così si chiama il supplente, spiega agli studenti che in realtà si tratta di un rituale. Sono i rituali, dice, a renderci differenti dagli animali e a ricordarci che siamo esseri umani.  Gli studenti ascoltano in un silenzio scettico e carico di risentimento perché sono ancora fedeli alla loro insegnante e non sono pronti ad accogliere la prima lezione di quello che avvertono come un intruso.

Quando è uscito il film, dieci anni fa, pur percependo la forza di quell’affermazione, non avevo sperimentato quanto la ritualità fosse potente all’interno del percorso didattico. Alla fine di quest’anno scolastico, però, ho ripensato a tutti i rituali che mi avevano accompagnato fino a giugno. Quelli “celebrati” dentro e fuori la classe, quelli che caratterizzavano il mio tragitto in bicicletta fino a scuola, quelli che riguardavano il quartiere in cui si trova l’Istituto. Mi sono resa conto che, mettendoli in fila come le perle di una collana, ottenevo qualcosa che dava un significato profondo al mio anno di lavoro. Non si trattava di sentimentalismo ma di qualcosa di più solenne e meno mobile, che non poteva essere modificato dagli eventi o dagli umori della giornata, qualcosa che progressivamente aveva creato un’adesione emotiva ed emozionale al luogo in cui mi recavo ogni mattina.

È ciò che Byung-Chul Han definisce come tecniche simboliche dell’accasamento. Nel saggio: La scomparsa dei riti. Una topologia del presente (Ed. Nottetempo) dice che i riti «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa». Quei rituali, in effetti, avevano dato plasticità al mio andare-e-stare-a-scuola e molto probabilmente, lo stavo capendo solo alla fine, gli avevano dato un senso. Alzarsi in piedi per salutare il docente, forse, non aveva niente a che fare con la pratica polverosa che ogni anno ci fa discutere sulla sua necessità e da cui vogliamo prendere le distanze perché conserva ancora quel sapore littorio che faticosamente l’apparato scolastico tenta di scrollarsi di dosso.

Alzarsi in piedi, ora, mi sembrava il primo gesto simbolico di un rituale, la tessera hospitalis con cui ospite e ospitato siglavano il loro legame, qualcosa che aveva il potere trasformativo di cambiare lo spazio dell’aula scolastica per farlo diventare altro. Un luogo che tutti i partecipanti potevano riconoscere e potevano abitare finché il rito fosse durato. Finalmente capivo l’insofferenza del Prof. Zupan, perché nessun rito può compiersi se la comunità non condivide il segreto del simbolo che porta all’Einhausung, l’accasamento hegeliano.

Appuntamenti fissi

Una volta compresa l’importanza della ritualità all’interno, e non solo, della lezione, ho iniziato un’analisi à rebours dell’anno scolastico e ho scoperto con una certa sorpresa che, senza una precisa volontà, avevo creato con gli studenti una serie di appuntamenti fissi. È qualcosa che fanno tutti gli insegnanti così com’è altrettanto comune sparigliare le carte della programmazione e decidere, in extrema ratio, di saltare quell’appuntamento settimanale o mensile perché si è indietro col programma o perché mancano dei voti prima degli scrutini. Quello di cui non mi ero mai accorta era il legame che quest’impegno fisso aveva creato con gli studenti.

Quando ho dimenticato che il mercoledì pomeriggio era il giorno dedicato alla lettura oppure che il lunedì mattina era quello in cui scoprivamo insieme l’etimologia di una parola nuova, sono stati loro, i ragazzi a ricordarmelo e non perché fossero degli alibi perfetti per non seguire la lezione. Una volta, uno di loro che odiava leggere ad alta voce ha voluto confessarmi che era proprio il giorno in cui avremmo dovuto iniziare il nuovo capitolo del romanzo. Quando gli ho chiesto come mai me lo avesse ricordato, visto che per lui non era un appuntamento piacevole, mi ha detto: “perché oggi è mercoledì e mercoledì si legge”. Il tono con cui me lo aveva comunicato era diverso dal solito; tradiva, infatti, una chiara tenerezza nei confronti di quel rituale. E non solo, dentro c’era anche un sottile ma evidente biasimo per la mia distrazione. Non avevo rispettato un patto e nella mia dimenticanza c’era la sciatteria di chi non sta dando valore al symbolon. Le pratiche rituali, dice sempre Byung-Chul Han, fanno sì che ci rapportiamo con gentilezza non solo con le altre persone, ma anche con le cose.

Dopo settimane di insistenze, anche gli studenti più recalcitranti avevano acquistato o preso in biblioteca il libro che avevamo scelto. Per molto tempo avevano preferito leggerlo da fotografie scaricate sul telefono, non si era ancora compiuto l’accasamento. Molti di loro, ne sono certa, non lo avevano preso per una sincera conversione al cartaceo ma perché erano stanchi di sentire le mie lamentele. Eppure, nonostante le differenti motivazioni, la cura che ha iniziato a diffondersi in classe si è tradotta in segnalibri per non sciupare le pagine, in candidati volontari alla lettura e in parole che poi sono state citate nei compiti in classe.

Dice il filosofo coreano, citando Peter Handke che «Tramite la messa i preti imparano a trattare bene le cose: a tenere con delicatezza il calice e l’ostia, la lenta pulizia dei recipienti, lo sfogliare il libro; e l’esito di questo bel trattamento con le cose è una contentezza che mette le ali al cuore». Forse questi riti scolastici stavano dando ai miei studenti un piacere molto simile a quello descritto da Handke che loro non riuscivano ancora a decodificare ma che potevo finalmente utilizzare perché se le cose, nel rito, non vengono consumate ma usate, anche la lezione, pur risultando effimera, poteva essere reiterata e avrebbe tratto la sua forza proprio dalla ripetizione. Imparare a memoria, ci ricorda Byung-Chul Han, in francese si dice apprendre par cœur e quindi ciò che si ripete riesce naturalmente ad arrivare al cuore.

Riconoscere il simbolo

Tuttavia, passando in rassegna gli appuntamenti fissi che, consapevolmente o meno, avevo creato con le classi durante l’anno, si scopriva che non sempre la ripetizione e lo schema ritualizzato di quegli incontri aveva prodotto un attaccamento degli studenti rispetto a ciò che stavamo facendo. Cos’è che non aveva funzionato?

Era eclatante il caso di una classe del biennio in cui, con tutti i docenti, avevamo svolto per Educazione Civica lavori accurati, letto romanzi e saggi e approfondito con video e uscite didattiche il periodo storico della Seconda Guerra Mondiale e in particolar modo della Shoah. Alla fine dell’anno, però, alcuni studenti avevano deciso di imbrattare un manifesto informativo sulla raccolta differenziata con simboli che si riferivano proprio a quegli eventi. Quando abbiamo chiesto agli autori dei disegni che significato avessero quei simboli, ci hanno dato risposte inesatte; uno di loro ha confessato candidamente di non averne idea ma sapeva che “non si dovevano fare” e questo, probabilmente, aveva conferito ai simboli un’attraente carica eversiva. Ci siamo confrontati a lungo con i membri del Consiglio di Classe per capire dove avessimo fallito e ci siamo chiesti se il problema fossero stati i contenuti troppo complessi per una classe del biennio o la modalità con cui erano stati trasmessi.

A distanza di tempo si potrebbe rintracciare il problema soprattutto nel mancato riconoscimento del simbolo che non significa ignorare in generale il suo significato ma, come dice Gadamer ne L’attualità del bello, «il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro». Perché «il riconoscere vede il permanente nel fuggevole». Se avessimo ritualizzato tutte quelle lezioni sulla Shoah e ci fossimo dedicati a incoraggiare l’accasamento rispetto a quelle immagini e a quel lessico, allora, i simboli non sarebbero stati dei segni svuotati di qualsiasi valore permanente ma sarebbero diventati significanti con un loro significato. Così come il libro, faticosamente conquistato, poi è risultato essere l’elemento imprescindibile per partecipare al rituale della lettura, anche i simboli si sarebbero incarnati perché una rosa è una rosa, è una rosa e quando la si tiene fra le mani diventa altro ancora.

Il senso d’inadeguatezza che sta travolgendo la scuola ha le radici in questa recente e inarrestabile proliferazione di impegni supplementari legati a nuove mansioni dei docenti, prove comuni, prove trasversali e scadenze burocratiche di vario genere. Un involucro vuoto e ingombrante che corrode ciò che rimane della lezione in classe, per cui non sempre riusciamo a distinguere un lavoro eccellente da uno che ha avuto un reale peso per gli studenti. Le nostre lezioni sembrano doversi difendere continuamente da questo enorme corredo di “extra” che a ben vedere, sembra voglia dirci che ora è la lezione stessa l’elemento facoltativo.

Costruire e proteggere un tempo e uno spazio che possano accogliere il rituale e il simbolo richiede attenzione e molto impegno. Significa concentrare ogni energia in quello che si sta facendo e non è possibile farlo se non si “sacralizzano” quel tempo e quello spazio rendendoli inviolabili, conferendogli, quindi, il valore che gli studenti devono riconoscergli. Abbiamo a che fare con una generazione che si sta progressivamente allontanando dalla percezione simbolica a favore di una percezione seriale, il binge watching, ovvero il guardare una serie senza soste significa deritualizzare la visione. Preferire il film su una piattaforma piuttosto che andarlo a vedere al cinema rivela una perdita di significato dell’esperienza immersiva e collettiva della sala. Pensare che l’oggetto, come il libro durante la lettura, possa essere sostituito con un suo simulacro perché “tanto è uguale”, denuncia la stessa incapacità di conferirgli un valore.

La soluzione, pertanto, dovrebbe essere un ritorno al passato, un ritorno ai riti? Chiaramente no. Lo sguardo dei ragazzi incarna lo spirito del tempo in cui viviamo e non c’è nessuna colpa in questo. Quello che però è importante e quanto mai necessario in questo momento di generale deragliamento educativo – in cui le vicende orribili del mese scorso, ci hanno fatto domandare, come in un grande Consiglio di Classe, dove avessimo sbagliato e forse fallito con questi ragazzi che non sembrano avere più rispetto per l’altro e per il corpo dell’altro – è iniziare una seria e comune indagine per un’educazione ai sentimenti che possa passare attraverso tutto quello che contribuisce a creare un ancoraggio emotivo alle cose e quindi alle persone. Nonostante l’invadenza della tecnologia che domina la nostra vita, forse, non siamo così diversi dagli indiani Pueblo, quelli di cui ci parla Aby Warburg ne Il rituale del serpente.«I Pueblo si trovano a metà strada tra magia e logos, e lo strumento con cui si orientano è il simbolo. Tra il raccoglitore primordiale e l’uomo che pensa si trova l’uomo che istituisce connessioni simboliche». Questo asservimento al nuovo, a metodologie sempre diverse, lezioni ogni volta modificate per non annoiare ci hanno, forse, distratto da ciò che invece lega realmente noi e gli studenti alla scuola: la ripetizione, la ritualità e i suoi simboli e il sentimento deflagrante e rivoluzionario che insieme producono, la tenerezza. L’unico capace di modificare lo sguardo che abbiamo sul mondo e su chi lo abita.

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