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diretto da Romano Luperini

Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata: contributo a un dibattito sul clima

Scritto nel 2020 durante il periodo del lockdown a seguito dell’emergenza covid-19, La maledizione della noce moscata di Amitav Ghosh è un’ampia e ispirata ricognizione sulle principali crisi planetarie contemporanee, dalle questioni migratorie al cambiamento climatico, dal traffico di idrocarburi alla finanza, all’impatto globale che le guerre e le spese militari hanno sull’ambiente. Il testo, che riprende anche motivi già presenti ne La grande cecità (qui la recensione comparsa su questo blog), è costruito come una raccolta di cosiddette “parabole per un pianeta in crisi” — così recita il sottotitolo — nel quale l’autore interviene di tanto in tanto in prima persona connettendo il racconto anche a una serie di esperienze personali. Senza perdere di vista né la prospettiva storica — la prima parabola risale al Seicento — né la dimensione globale delle sue riflessioni, l’autore racconta vicende di popoli, persone e territori da un capo all’altro del mondo mostrando, da punti di vista assolutamente inediti, analogie e interconnessioni i cui riflessi di lungo periodo sono ancora pienamente osservabili.

Tuttavia in questo intervento intendo affrontare gli aspetti del testo di Ghosh che consentono di riflettere sulle caratteristiche del confronto massmediatico che si è sviluppato sul cambiamento climatico nel corso dell’estate, aspetti che possono rappresentare un importante contributo all’avanzamento di un dibattito ridotto a parodia. Le peculiarità meteorologiche anche di questa stagione estiva hanno fatto sì che non siano mancati quotidianamente nei telegiornali titoli e servizi in relazione all’argomento con il consueto codazzo di (pseudo)trasmissioni di approfondimento in cui le posizioni degli interlocutori chiamati ad hoc hanno finito per radicalizzarsi nei due poli contrapposti del negazionismo e dell’allarmismo. O meglio, questo è lo schema aprioristicamente proposto dal mainstream, sul quale si dirottano poi, a volte senza difficoltà, altre forzando artatamente le opinioni, i singoli interventi, a restituire il solito quadro confuso in cui alla fine è vero tutto e il contrario di tutto.

Scienza, fantascienza, storia: cambiare la narrazione

Tra le innumerevoli citazioni di testi che compaiono nel libro di Ghosh e che spaziano dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storiografia, sono emblematici i richiami a due opere di fantascienza cui l’autore rimanda più volte per esemplificare i termini essenziali della sua riflessione, dibattuti in alcuni capitoli cruciali nei quali si sofferma a definire il concetto di terraformazione, che egli applica all’imperialismo coloniale europeo, in contrapposizione alle concezioni vitalistiche della natura delle popolazioni soggiogate. Il testo a cui fa riferimento Ghosh a proposito della terraformazione è La guerra dei mondi di H. G. Wells. Come noto il libro, ambientato all’inizio del Novecento, racconta l’invasione della Terra da parte di mostruose intelligenze aliene, superiori e ostili, provenienti da Marte, con l’obiettivo di colonizzare e asservire il pianeta. Nel progetto di invasione gli esseri umani non devono essere soltanto annientati ma utilizzati come fonte di nutrimento per i marziani, come Wells descrive con formidabile realismo nella sequenza narrativa in cui il protagonista osserva dal suo nascondiglio le manovre degli invasori. E è ricorrente nel testo di Wells il richiamo agli insetti per alludere al punto di vista alieno sull’uomo: «Si rendevano conto che, di fronte a loro, c’erano milioni di persone efficienti, disciplinate e in grado di collaborare? Oppure interpretavano […] il nostro [degli umani] pervicace assedio al loro accampamento, come la carica impetuosa e unanime di un alveare che è stato disturbato?». Secondo Ghosh il romanzo di Wells si fonda proprio sul concetto di terraformazione, vale a dire l’invasione di un pianeta con l’intenzione di modificarlo a proprio uso e consumo. Ghosh mette in evidenza come Wells rovesci il punto di vista coloniale (come del resto si evince dalle prime pagine del romanzo) proiettando sull’impero britannico (la storia è ambientata a Londra e dintorni) quello che gli inglesi (e non solo) facevano in giro per il mondo ai danni di altri popoli: «spazzarli via, impadronirsi dei loro territori, e adeguarli alle proprie necessità». Ghosh fa anche riferimento al fatto che Wells si sia effettivamente ispirato allo sterminio delle popolazioni della Tanzania. È poi a un altro autore di fantascienza, Jack Williamson, che solitamente si attribuisce la coniazione vera e propria del termine “terraforming”, successivamente passato alla scienza ma nella sola accezione per così dire “planetaria”, riferito appunto al modellamento di un pianeta extraterrestre al fine di sostenere la vita. Ghosh riprende il termine e lo applica al rimodellamento dei territori avvenuto durante il periodo coloniale. La terraformazione però non va intesa come un intervento che modifica esclusivamente gli aspetti di superficie di un territorio ma come l’insieme di «conflitti biopolitici […] che prevedevano massicce alterazioni biologiche ed ecologiche» con conseguenze drammatiche sulle popolazioni. Questi conflitti erano centrali nel progetto coloniale e erano sostenuti dall’idea del «mondo-come-risorsa, in cui i paesaggi (o i pianeti) vengono considerati fabbriche e la “Natura” è vista come soggiogata e a basso costo» proprio come la Terra per i marziani di Wells. Sono copiosi gli esempi portati dall’autore, come il caso emblematico dello sterminio delle mandrie di bisonti nelle Grandi Pianure americane, che costituivano la principale fonte di cibo delle popolazioni indigene: il massacro fu deciso quando l’esercito degli Stati Uniti si rese conto che non sarebbe riuscito ad avere la meglio attraverso battaglie convenzionali.

Il secondo testo che Ghosh richiama più volte è Solaris, capolavoro di Stanislaw Lem. Il libro, già recensito su questo blog, racconta la storia di un gruppo di astronauti in una base sul pianeta Solaris, che si presenta come un gigantesco organismo vivente costituito di plasma. Quando gli scienziati decidono di sottoporre il pianeta a una serie di radiazioni, Solaris inizia a reagire in modo bizzarro e perturbante materializzando, nella forma di entità realmente viventi, il pensiero più inconfessabile degli astronauti. Nel caso dello psicologo protagonista del racconto si tratta della copia della moglie, che si è suicidata a causa sua. Ghosh usa l’idea geniale al centro del racconto di Lem per rappresentare il concetto di intenzionalità che le culture vitalistiche attribuiscono alle entità non umane. L’intenzionalità del nostro pianeta a suo avviso è particolarmente evidente nel manifestarsi dei cambiamenti climatici che «non sono che la risposta della Terra a quattro secoli di terraformazione, durante i quali il progetto, nella veste neoliberale, è stato universalmente adottato dalle élite globali». Emblematico a tale proposito quanto accaduto in Brasile con il presidente Bolsonaro. Annullando le tutele precedentemente stabilite a protezione della foresta amazzonica, Bolsonaro ha cercato di attuare in sostanza una «replica tardiva» di quanto avvenuto con il colonialismo del Cinquecento e del Seicento. L’obiettivo era quello di sostituire ampie porzioni di foresta pluviale con allevamenti, miniere e piantagioni. Ma Ghosh avverte che la perdita di vegetazione nella foresta amazzonica determinerà il degradarsi a boscaglia e savana di ulteriori ampie porzioni di territorio, con «conseguenze catastrofiche per il pianeta». L’autore sottolinea inoltre come siano i territori più ricchi e terraformati del mondo a essere quelli più vulnerabili al cambiamento climatico e porta esempi di gravi disastri che vanno da Miami a Mumbai, da Huston a Phoenix, citando anche il caso dell’Italia in cui gli eventi estremi a partire dal 1999 hanno iniziato a aumentare rispetto a altri paesi come la Spagna. Alla terraformazione, come detto, Ghosh contrappone la visione delle popolazioni indigene del passato e del presente, le quali attribuiscono intenzioni e finanche pensieri agli animali e alle altre entità naturali, dai vulcani ai fiumi, alle foreste. Credenze che oggi perfino molti studi scientifici confermano. Secondo Ghosh noi non siamo in grado di apprezzare l’intenzionalità delle entità non umane perché alcune di esse (gli alberi ad esempio) si esprimono su una scala temporale infinitamente più ampia rispetto a quella umana e anche perché il nostro paradigma interpretativo si fonda su una concezione meccanicistica della natura, come risorsa inerte da sfruttare. Dal punto di vista dell’autore quindi una reale presa di coscienza rispetto all’urgenza degli interventi necessari in riferimento al cambiamento climatico non può che passare proprio attraverso l’assunzione di una prospettiva radicalmente diversa da quella della terraformazione, e cioè la prospettiva delle popolazioni che con la Terra hanno sempre avuto relazioni fortemente significative, abbracciando quella che chiama una «politica vitalistica», in grado di raccontare la storia del pianeta tenendo conto anche del ruolo degli attori non umani. Compito insieme «estetico e politico».

Il pericolo dell’ecofascismo

Assumere la prospettiva di una politica «vitalistica», o anche «sciamanica», come la definisce l’autore, è realmente possibile, e desiderabile? — si chiede. Posto che il pensiero razionale finisce per derubricare come superstizione qualsiasi attribuzione di intenzionalità a entità non umane, Ghosh affronta il tema del pensiero ecologico di estrema destra che sembra trarre origine proprio da idee mistiche. L’autore cita la ricerca di Janet Biehl e Peter Staudenmaier sull’ecofascismo in Germania e mette in evidenza che in questo paese «la visione esclusivista dell’ambiente si basa sull’idea di un legame mistico fra i popoli di sangue germanico e il suolo delle terre che abitano», per cui l’ecologismo di destra è sempre stato connesso a un «virulento nazionalismo xenofobo». La coniazione stessa del termine “ecologia” si deve allo zoologo tedesco Ernst Haeckel, fautore dell’eugenetica razziale, il quale stabilendo un’immediata correlazione tra il pensiero ecologico e il darwinismo sociale promosse appunto l’applicazione diretta di categorie biologiche alla vita sociale. Nella sua rassegna Ghosh richiama il movimento pseudoambientalista dei Wandervogel, confluito nel movimento nazista, e le abitudini e credenze dello stesso Hitler — rigida alimentazione vegetariana, mistica della natura, e così via — per poi mostrare come il pensiero ambientalista tedesco così connotato abbia trovato terreno fertile nel suprematismo bianco nordamericano. Una storia che a suo avviso «ha plasmato l’ethos di alcune delle più venerande organizzazioni ecologiste americane» trasmettendo la sua visione anti-indigena a molte associazioni ecologiste di tutto il mondo. Eppure secondo Ghosh, contrariamente a quanto potrebbe sembrare da una lettura superficiale del fenomeno, «molti dei concetti chiave dell’ecofascismo vengono dalla scienza» e dal pensiero razionale, e infatti nella citata ricerca di Biehl e Staudenmaier i personaggi chiave erano tutti scienziati: «A ben guardare — scrive Ghosh — risulta evidente che il pensiero ecofascista deriva non (o non solo) dal “misticismo”, ma anche da varie forme di “scientismo”, come il darwinismo sociale, l’eugenetica, lo sterminazionismo […]». La requisitoria dell’autore non vale come invito a diffidare della scienza, proprio come il saldarsi del misticismo con una politica esclusoria di destra non deve portare a liquidare tutti quei movimenti che hanno fede nella sacralità e vitalità della Terra. Serve però a tenere alta la guardia rispetto a equivoci, mistificazioni e strumentalizzazioni, come mostra la recente storia del fondamentalismo indù, che è riuscito a avere il controllo su alcuni importanti movimenti ambientalisti sorti in India proprio «mescolando al linguaggio dell’attivismo verde le idee delle caste superiori sull’alimentazione, la purezza e gli spazi sacri». In questa prospettiva per Ghosh occorre diffidare di ogni forma elitaria di ecologismo, specie se esso è promosso da partiti politici, e dare credito invece all’«ambientalismo di sussistenza» (l’espressione è ripresa da Ramachandra Guha), praticato cioè da popolazioni e persone che hanno un rapporto diretto con il proprio ambiente.

Gli scienziati non hanno l’esclusiva sul clima

Chiunque abbia anche minimamente seguito il dibattito italiano dell’estate appena trascorsa avrà notato che uno degli argomenti ricorrenti di coloro che sono scettici rispetto al cambiamento climatico (scetticismo che proviene tanto da destra quanto da ambienti radicali di sinistra) è che la comunità scientifica non sarebbe unanime nell’attribuire gli sconvolgimenti di cui siamo testimoni a cause antropiche, oltre al mancato riconoscimento dell’eccezionalità dei fenomeni in questione. Anche rispetto a questi argomenti il testo di Ghosh offre un interessante e inedito punto di vista. Nel capitolo “Una cortina fumogena di numeri”, infatti, l’autore, pur riconoscendo l’importanza degli interventi degli scienziati, mostra le conseguenze negative dovute alla sovrapposizione che egli registra tra il fenomeno e la relativa ricerca. Alcuni metodi di analisi impiegati dai climatologi, come ad esempio «l’uso di modelli per fare proiezioni relative a una data futura» a suo avviso condizionano la percezione che le persone hanno del cambiamento climatico, che viene visto quindi come un fatto nuovo proiettato nel futuro. In realtà Ghosh chiarisce che questa percezione è tipica dei paesi più prosperi poiché coloro che conservano ancora un rapporto stretto con la terra — e che tendenzialmente sono le popolazioni più povere del mondo — da tempo hanno consapevolezza delle trasformazioni in atto e, potremmo dire, della loro storicità. I segni di questi cambiamenti, come detto, sono evidenti per chi con la terra ha un rapporto non mediato dalla tecnologia e conservano traccia a volte nel nome dei luoghi, come notato ad esempio dall’antropologo Keith H. Henry citato nel testo a proposito di un anziano degli apache occidentali, il quale spiegava che in un luogo chiamato “Folto delle canne della freccia” non cresceva più quel tipo di canna. Attraverso un viaggio in Italia dove incontra migranti del Sudest asiatico e attraverso la storia esemplare di Khokon, fuggito a seguito delle tremende inondazioni provocate dalle devastanti piogge nel distretto di Kishoreganj in Balgladesh, Ghosh mostra come la gran parte dei migranti provenienti da questa regione siano in realtà migranti climatici. Tuttavia nella loro autorappresentazione, spiega ancora, non si sentono tali e pur attribuendo un ruolo al cambiamento climatico indicano altri fattori come determinanti nel loro spostamento. Ciò secondo l’autore accade perché questi migranti hanno sperimentato sulla loro pelle l’interconnessione del cambiamento climatico con questioni di giustizia sociale, questioni razziali e sociali, oltre che geopolitiche. Non si tratta cioè di un’astratta proiezione nel futuro. Il testo di Ghosh può offrire quindi un valido contributo al dibattito da due ulteriori punti di vista. In primo luogo nella misura in cui sottrae agli scienziati l’esclusiva sul clima spinge a valorizzare la percezione e l’esperienza delle persone quale evidenza che può corroborare un ragionamento, esistono cioè testimoni del cambiamento climatico a cui dare voce. In secondo luogo, con questo, invita a porre al centro della riflessione il tema più spinoso connesso a ogni dibattito sull’argomento, ovvero quello relativo alla «distribuzione globale del potere».

La maledizione della noce moscata

Come accennato il libro si apre e si chiude con la parabola della noce moscata, la storia del massacro compiuto dagli Olandesi nel 1621 presso le isole Banda, per stabilire il loro monopolio sul traffico della preziosa spezia. Il momento di avvio di quegli eventi è la notte del 21 aprile: mentre è in riunione con i suoi consiglieri nella moschea di Selamon in cui si è acquartierato, il funzionario olandese Martijn Sonck vede cadere una lampada. In modo del tutto irrazionale l’evento viene subito interpretato come il segnale convenuto di un attacco preparato dagli abitanti dell’isola. Di lì la condanna a morte, eseguita dopo la tortura, dei capitribù e successivamente lo sterminio e la deportazione della popolazione. Seguendo un andamento circolare alla fine del libro Ghosh trae le estreme conseguenze interpretative di questi fatti, dopo aver disseminato il racconto di continui rimandi allo sterminio delle Banda. L’autore mette in evidenza come il concetto di cospirazione, nell’epoca in cui in Europa si scatenava la caccia alle streghe, allora fosse strettamente connesso anche a entità non umane e come «la natura fosse vista come un regno di disordine essenzialmente femminile» da conquistare e soggiogare. In questa prospettiva quindi gli apparenti eccessi scatenati dalla caduta della lampada la notte del 21 aprile troverebbero una loro giustificazione, rappresenterebbero cioè l’implicito riconoscimento della vitalità dell’ambiente nella misura in cui gli olandesi «temevano che le forze invisibili di quel territorio gli si rivolgessero contro […]. Da ciò l’urgenza di terraformare l’ambiente, privare la terra delle sue forze invisibili», quelle forze alle quali allora come oggi secondo Gosh, al contrario, occorre dare voce se si vuole evitare la catastrofe che si preannuncia, dato che la maggior parte dell’umanità vive «come un tempo vivevano i colonialisti, considerando la terra un’entità inerte che esiste innanzitutto per essere sfruttata e depredata con l’aiuto della tecnologia e della scienza». Nel libro quindi la storia delle isole Banda è al tempo stesso significativa di per sé e emblema della necessità del cambio di paradigma che Ghosh costantemente sostiene. Un cambiamento rivoluzionario che, come si è tentato di mostrare, presupporrebbe in primo luogo un sostanziale stravolgimento dell’orizzonte culturale delle élite mondiali, della politica, degli stessi movimenti ambientalisti, dei singoli individui, dei mass media. Una prospettiva cui, a oggi, sarebbe inaudito dare spazio in qualsiasi talk show occidentale. E ciò forse può contribuire a dare la misura dell’enormità dell’emergenza nella quale ci troviamo.

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