Il romanzo come risposta alla catastrofe: una lettura de “La grande cecità” di Amitav Ghosh
È la struttura della società borghese che impedisce di dare credito a scenari da cataclisma.
(A. Ghosh, La grande cecità, p. 67)
Perché è difficile tradurre il cambiamento climatico in narrazione?
Se lo chiede l’antropologo e scrittore indiano Amitav Ghosh nel suo saggio di grande impatto uscito nel 2016 dal titolo The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable, tradotto in italiano nel 2017 da Anna Nadotti e Norman Gobetti con il titolo La grande Cecità: Il cambiamento climatico e l’impensabile e pubblicato da Neri Pozza.
Partendo dalla premessa che la regolarità della vita borghese impedisce di considerare credibili scenari apocalittici, Ghosh affronta una questione che è centrale nella sopravvivenza della forma romanzo nel mondo contemporaneo. A questa domanda fornisce una doppia risposta, ampiamente documentata con metodo da antropologo, citando casi concreti in cui disastri climatici hanno reso palesi dinamiche colonialiste, ad esempio, i casi di Piddington e di Port Canning nel Golfo del Bengala nel 1864, o l’evento climatico avvenuto il 5 aprile del 1815 sul monte Tambora a Bali, cioè la maggiore eruzione vulcanica mai registrata nella storia, che causò alterazioni climatiche e carestie fra Europa e Cina, tanto che il 1816 viene chiamato “l’anno senza estate” (p. 76).
Ghosh si chiede in generale perché le espressioni culturali del capitalismo non affrontino il cambiamento climatico. Secondo lo scrittore indiano esiste un pregiudizio per cui è il narratore di bassa lega che ricorre nei suoi romanzi a situazioni improbabili. Questa improbabilità dell’evento, per quanto ampiamente sconfessata dai fenomeni che Ghosh analizza con il supporto di fonti attendibili, rende lo sfondo narrativo catastrofico risibile agli occhi del lettore tipico della forma romanzo. La risposta che propone riguarda, infatti, soprattutto lo stile di vita di chi legge romanzi, molto lontano dall’ipotesi che l’ambiente in cui vive venga sconvolto da catastrofi.
Il romanzo, afferma Ghosh, si caratterizza per una descrizione dettagliata della vita quotidiana, e a supporto di questa affermazione cita Franco Moretti, che nella sua opera Il romanzo parlava di “riempitivi” (p. 24 e n. 14 p. 97). Secondo Ghosh gli esseri umani sono incapaci di prepararsi agli eventi improbabili: questo è uno schema che si è affermato con la fiducia nella regolarità della vita borghese. Tuttavia, gli esempi di eventi di rottura con la regolarità che cita sono numerosi, fra i quali compare anche il terremoto de L’Aquila. Seppure gli eventi climatici sono – o forse è meglio dire erano – dotati un altro grado di improbabilità, essi appartengono a una categoria che Timothy Morton ha definito “iperoggetti”: “Non è forse vero – scrive Morton citato da Ghosh – che una pioggia fuori dall’ordinario, un inusitato ciclone, una chiazza di petrolio sul mare hanno su di noi un effetto spaesante?” (p. 37 e n. 42 p. 99). Lo spaesamento causato dalla stranezza degli eventi climatici che stanno avvenendo intorno a noi ci porta a riconoscere la prossimità di interlocutori non-umani. Nell’ultimo decennio, rileva Ghosh, l’interesse accademico per tematiche come il non-umano ha portato all’ammissione che “nel mondo esistono entità, come le foreste, pienamente capaci di inserirsi nei nostri processi di pensiero” (p. 38). Gli elementi che segnalano il cambiamento climatico sono spaesanti, sono creature anomale, che non hanno nulla di umano o di rapportabile con l’umano. In questa categoria rientrano gli eventi catastrofici che esulano da qualsiasi strategia di contenimento e dall’ottimismo della scienza che è in grado di prevedere e arginare i disastri naturali. È necessario allora trovare un altro modo di immaginare gli eventi pensabili della nostra era.
Spostare l’iperoggetto dallo sfondo
Ghosh si chiede che ruolo abbia la politica nella salvaguardia del pianeta: serve per prendere decisioni necessarie alla sopravvivenza collettiva e alla tutela dei cittadini, eppure sono ben poche le istituzioni capaci di ritirarsi da siti vulnerabili. Questa debolezza della politica davanti all’urgenza della questione climatica lascia aperta la possibilità che siano necessari oggi nuovi modi per immaginare e quindi modificare il futuro. L’immaginazione letteraria è stata ispirata ovunque nel mondo dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana. La creazione di mondi nel romanzo passa attraverso la creazione dello scenario, in cui il lettore si immerge, finché gli sembra reale e ne diventa parte, tuttavia le connessioni dello scenario col mondo esterno devono stare sullo sfondo del romanzo, come accadeva ad esempio per i sistemi imperiali nel romanzo dell’800. Gli scenari dei romanzi non sono decontestualizzabili, poiché il mondo del romanzo impone limiti di tempo e spazio, cioè è un mondo concluso, che funziona per esclusioni. A titolo di esempio Ghosh cita l’unica opera di finzione mai pubblicata da Adwaita Mallabarman, poeta ed editor bengalese, morto giovane di tubercolosi. Nel suo romanzo A River Called Titash, uscito postumo nel 1956, Mallabarman ricostruisce l’ambiente fluviale di un corso d’acqua minore del Bengala, cioè ricrea lo scenario di un ecosistema autonomo attraverso numerose esclusioni, sottraendosi quindi alla scrittura in prosa tipica bengalese in cui si evocano mondi posti al di fuori dello spazio e del tempo e che appartengono all’universo mitico della cultura induista. Con la sua operazione Mallabarman introduce il romanzo moderno in un mondo a cui esso non appartiene, cioè trasporta l’ambientazione realista definita da uno spazio e un tempo in una cultura in cui la narrazione era affidata all’epica. I mondi evocati nei romanzi diventano reali in virtù della propria fine e specificità, ma gli iperoggetti come definiti da Morton sono soggetti narrativi rischiosi, poiché aderiscono in modo permanente alle nostre vite ma impediscono di pensare in termini realistici, nei modi in cui si muove il romanzo.
Il cambiamento climatico è un iperoggetto, in quanto il suo pensiero fa svanire la discontinuità data dai confini di un luogo, dallo spazio circoscritto in cui prendono forma le vicende narrate nei romanzi. L’iperoggetto definisce invece una continuità di esperienza che travalica i confini e le nazioni. Ghosh si chiede cosa sia un luogo, se non una fitta rete di sostegno reciproco fra l’ambiente e i suoi abitanti, come la foresta di mangrovie di Papua Nuova Guinea, che tuttavia nel 2007 fu distrutta da l’innalzamento del livello del mare e l’invasione dell’acqua costrinse a evacuare gli abitanti dei villaggi, rompendo il legame fra l’uomo e il suo ecosistema. Dopo quel disastro è ancora possibile definire quello “un luogo”? Qualche paragrafo più avanti porta un esempio che come quello del terremoto che devastò L’Aquila, ci tocca molto da vicino, cioè la città di Venezia: “Oggi si può forse parlare di Venezia senza menzionare l’acqua alta, quando la laguna deborda sommergendo calli e cortili?” (p. 72) E la presenza di migranti climatici bengalesi nel capoluogo veneto rende la nostra idea di Venezia ancora più straniante, ancora più iperoggetto, perché gli stessi fenomeni climatici che portano migliaia di persone a spostarsi dai loro luoghi originari in quanto si è spezzata la rete di sostegno reciproco fra l’uomo e il suo ecosistema, li spingono ad allontanarsi anche dal luogo di immigrazione e di nuovo radicamento, in una catena di fenomeni climatici che non conosce alcun vincolo di tempo e luogo, e rende un luogo turistico europeo in nulla dissimile da un villaggio marino altro, lontano. Questo annullamento del luogo rende sempre più difficile concepire l’ambientazione del romanzo come circoscritta e l’attuazione di tutti quei dispositivi narrativi che facilitano il processo di identificazione, da sempre alla radice del successo della forma romanzo.
Mancavano nel 2016, anno in cui esce La grande cecità, forme di resistenza politica alla questione ambientale, che è questione politica in quanto richiede un intervento urgente da parte dei governi. Questo intervento, nonostante le numerose e continue sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e delle organizzazioni non governative, rimane inattuato per ragioni economiche. Una possibile forma di resistenza si può trovare dunque nelle narrazioni, e in particolare nella reintroduzione nel romanzo di eventi da esso tradizionalmente espulsi, le forze di impensabile portata che creano legami profondissimi e che finora, quando presenti, sono rimasti a titolo di sfondo. Pensiamo ad esempio allo scenario post-apocalittico presente in uno dei romanzi che ha segnato maggiormente la climate fiction fino a oggi, cioè La strada di Cormac McCarthy, in cui si allude all’evento catastrofico ma rimane innominato, non è mai esplicitato, descritto. Le conseguenze dell’evento catastrofico costituiscono lo scenario del romanzo (la foresta coperta di cenere, la strada deserta, l’assenza di cibo), ma l’evento non è il suo centro, il protagonista del romanzo, né la storia si premura in alcun modo di definirlo, di raccontarlo. La linea di ricerca inaugurata da Ghosh ha un senso in quanto cerca di evidenziare la necessità di identificare, nella ipertrofica produzione narrativa mondiale odierna, romanzi che abbiano come protagonista la catastrofe in sé in quanto iperoggetto.
Limiti ambientali e limiti del romanzo
La letteratura ha avuto un ruolo importante nella rimozione della consapevolezza di forze nascoste ovunque intorno a noi, ma qual è il posto del non-umano nel romanzo moderno, si chiede Ghosh? Nella sua stessa opera, egli ricerca un rapporto fra la tradizione induista e gli animali non umani come elemento centrale e ineludibile della narrazione, quindi in quanto autore di romanzi si pone il problema della scarsa rilevanza data nel panorama critico a opere di immaginazione che pongano al centro la relazione fra umano e non-umano inteso anche come iperoggetto. Di solito ciò accade nel fantasy e nella fantascienza, dunque in sottogeneri del romanzo considerati paraletteratura. Eppure, quando apparve Frankestein di Mary Shelley nel 1816, non venne “affatto considerato estraneo alla letteratura tradizionale, solo più tardi lo si sarebbe ritenuto il primo grande romanzo di fantascienza” (p. 77). Ghosh cita anche la poesia L’oscurità di Byron, sempre del 1816, “impregnata di quella che oggi definiremmo “disperazione climatica” causata dall’‘anno senza estate’ (p. 77).
Ci sono, in effetti, molti scrittori impegnati per l’ambiente, e Ghosh ne cita alcuni che sono fra i più noti romanzieri al mondo: Ballard, Atwood, Vonnegut, Lessing, McCarthy, McEwan, Boyle, e la lista potrebbe continuare. Si tratta tuttavia di scrittori che vengono nella percezione comune inseriti nella fantascienza. Nel caso di Lessing il suo interesse per la fantascienza la portò a essere esclusa dalla rosa di candidati al premio Nobel che ottenne solo nel 2007. Come già osservato da Niccolò Scaffai nel suo saggio Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa (Carocci, 2017), sono molti gli scrittori importanti hanno già assunto la prospettiva ecologica come chiave di lettura della realtà. Commentando La grande cecità di Ghosh, Scaffai afferma che la critica letteraria non può relegare il romanzo a sfondo ecologico a sottogenere di consumo e fare distinzioni fra letteratura alta e bassa, o seria e meno seria.
Proprio oggi, quando si è capito che il surriscaldamento globale è un problema collettivo, l’umanità si trova alla mercè del capitalismo. Due sono le date chiave per capire la storia dell’antropocene: il 1769, anno in cui Arkwright brevetta il filatoio meccanico, e il 1784, quando Watt brevetta la locomotiva a vapore, due invenzioni inglesi che danno il via al processo di industrializzazione dell’Occidente rimasto inaccessibile al resto del mondo. Queste tecnologie causano anzi un rallentamento nelle aree colonizzate, perché fu la supremazia militare inglese in Asia a creare le condizioni in cui il capitale occidentale potesse prevalere sui commerci. La conseguente povertà di queste vaste aree è l’effetto di disuguaglianze del sistema economico, in quanto la manodopera è in posizione di svantaggio. Il surriscaldamento globale mette in crisi il sistema di credenze su cui si fonda l’identità culturale dell’Occidente, che deriva dal pensiero illuminista, dalla visione keynesiana per cui gli individui che perseguono il proprio interesse tendono a promuovere l’interesse generale. Esiste una forte polarità fra negazionismo e attivismo, e si vede da come l’apparato di intelligence statunitense crede a tal punto nella realtà del cambiamento climatico da sorvegliare i gruppi ambientalisti. La lista di attivisti, giornalisti e indigeni assassinati per aver difeso il proprio ecosistema è impressionante e cresce di giorno in giorno. Come sottolinea Ghosh, ma come si vede bene dalle statistiche, l’ideologia prevale sulla salvaguardia della vita, idee malthusiane stanno alla radice della conservazione dello status quo economico. Dall’indagine di Ghosh emerge che ancora nel 2015 arte e narrativa ignoravano il cambiamento climatico. Uniche eccezioni individuate dall’antropologo indiano sono l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ del maggio 2015 e il testo dell’Accordo di Parigi, che l’autore analizza sia come documenti sia come testi letterari. Conclude la sua argomentazione rilevando nell’enciclica una natura poetica e narrativa e una urgenza di mobilitare le masse contro i disastri del tardo capitalismo, a differenza del testo dell’Accordo di Parigi che non propone una critica alle pratiche che hanno provocato la situazione attuale. Secondo Ghosh, in base alla natura profondamente letteraria dell’enciclica, la religione ha il potenziale di smuovere le masse e non più la politica, che non ha la lucidità di smantellare un sistema ormai al collasso. La letteratura e le arti sembrano invece refrattarie ad affrontare il tema del cambiamento climatico. Un motivo, secondo Ghosh, potrebbe essere l’idea dell’illimitatezza della libertà umana che impedisce di misurarsi con la realtà del tempo in cui viviamo. Quindi la domanda a cui dovrebbe rispondere il romanzo contemporaneo è quali sono i limiti della libertà umana?
Ma il romanzo contemporaneo è davvero in grado di rispondere a questa domanda? L’idea che l’uomo non abbia limiti gli impedisce di misurarsi con la realtà che è invece molto limitata. Quali sono questi limiti? Innanzitutto, un limite geografico: non esiste più nulla di inesplorato sul pianeta; dovrebbe invece avviarsi il processo opposto ovvero la decolonizzazione degli spazi, e soprattutto l’espulsione dall’immaginario dell’idea che tutto lo spazio a disposizione possa e debba essere occupato dall’uomo. Vi è poi un limite temporale. Secondo gli scienziati è ormai superato il livello massimo di sfruttamento delle risorse del pianeta, ciò significa che è iniziato il conto alla rovescia verso il momento in cui la Terra diverrà un luogo inospitale per la specie umana. Cosa immaginare, quindi, e quali storie raccontare? Entra nel quadro anche l’idea di un crollo narratologico, ovvero la condizione per cui tutti i saperi, inclusi quelli umanistici, non offrono soluzioni ai problemi che si pongono oggi, e quindi è divenuto urgente e necessario inventare saperi nuovi, ovvero narrazioni che guidino la specie verso un ripensamento radicale della sua presenza sul pianeta. Il romanzo come veicolo di interpretazione e modificazione del reale è un esito narrativo strettamente legato all’ambiente intellettuale che lo ha prodotto e di conseguenza ne soffre tutti i limiti. È un prodotto borghese, figlio dell’etica capitalista anche quando rappresenta la classe operaia, perché filtra il racconto attraverso un modello pedagogico che si basa su saperi obsoleti.
Mappare lo sconfinamento
Se da un lato il realismo è un codice che ha dato prova in passato di poter fondare una nuova etica, dall’altro canto il fantastico è uno strumento interpretativo attraverso cui può emergere l’angoscia davanti a ciò che è sconosciuto. Nella storia letteraria dell’occidente realismo e fantastico hanno spesso operato assieme attraverso diversi generi letterari fornendo chiavi di lettura del mondo sempre più accurate. Il romanzo ha esplorato lo sconfinamento dei generi per almeno tre secoli da Swift a oggi, passando per Mary Shelley, Lovecraft, Tolkien, solo per fare gli esempi più noti. Eppure, quando si parla di romanzo si tende a identificare questo strumento espressivo con una classe sociale e a confinarne gli esiti all’interno del discorso sull’uomo e sui suoi limiti. Oggi per poter essere ancora strumento di lettura del mondo, il romanzo deve occuparsi dei limiti dell’uomo dettati non più dalla società, ma dal pianeta che non è più il luogo ospitale e addomesticabile che è sempre stato per l’uomo, e dove è ormai difficile immaginare spazi e ambienti circoscritti, non toccati da fenomeni che non conoscono barriere politiche e culturali. Lo sconfinamento in altri generi diventa quindi inevitabile: la biografia, la divulgazione scientifica, il racconto di viaggio e la fiaba sono generi che permettono di affrontare il grande lavoro di costruzione di significato che fino a oggi abbiamo affidato al romanzo. Il tema del cambiamento climatico ci può fornire una risposta attraverso la grande trasformazione ambientale che il surriscaldamento del pianeta sta causando e le sue immediate conseguenze, la giustizia climatica, ovvero la necessità di porre fine al sistema produttivo basato sullo sviluppo e sulla crescita insostenibile, che ha come conseguenza lo sfruttamento di risorse e persone, i conflitti che ne derivano e dunque il flusso migratorio inarrestabile.
Nonostante il saggio di Ghosh si basi su un lavoro approfondito di ricerca e riporti un apparato di note consistente e informativo, le sue conclusioni sono oggi superate dagli eventi. Ghosh chiude la sua analisi proponendo due testi non letterari come sintomatici di una incapacità della prosa d’arte di farsi interprete di una nuova etica. Da questa riflessione trae l’auspicio che siano le autorità religiose a intervenire in modo risolutorio, guidando le masse laddove le istituzioni politiche non sono più in grado di farlo perché si basano sul principio di autotutela dello stato-nazione, cioè un’idea che coincide con il disciplinamento della popolazione su base ideologica e non sulla salvaguardia della vita, mentre il cambiamento climatico è una realtà che travalica i confini nazionali e riguarda la salvaguardia dell’habitat della specie. “Mi piacerebbe credere che una grande ondata di movimenti laici di protesta in tutto il mondo possa farci uscire dal vicolo cieco e portare a cambiamenti decisivi” (p. 191), sostiene pessimisticamente l’autore, ma non pensa sia possibile poiché l’opinione pubblica si trova in uno stato di impasse.
Nella definizione di iperoggetto di Morton rientra senz’altro la pandemia globale che stiamo sperimentando e che influenza fortemente le nostre vite, sia agendo sui nostri rapporti sociali sia creando condizioni economiche inattese e in quanto tali stranianti. Scuotendo gli equilibri internazionali, la diffusione del coronavirus ha fatto saltare tutte le contraddizioni del sistema produttivo su scala globale e ha aperto una fase di rivolta che sta rovesciando i tavoli. Una conseguenza della crisi epidemica è stata l’emergere in superficie di una corrente carsica attraverso la formazione di movimenti di impatto globale. Extinction Rebellion (XR), fondato a Londra nel maggio del 2018 attraverso un invito all’azione firmato da un centinaio di accademici, ha trovato un forte alleato nei Fridays for Future (FFF), movimento fondato nell’agosto del 2018 su ispirazione degli scioperi dell’ambientalista allora quindicenne Greta Thunberg. A questo contesto di protesta per l’inazione dei governi verso la crisi climatica, si è aggiunto quest’anno il movimento Black Lives Matter (BLM) fondato già nel 2013 come risposta alla mancata condanna dell’omicidio di Trayvon Martin, ma tornato attivo di recente in seguito alla protesta scatenata dall’uccisione di George Floyd. BLM ingloba istanze di giustizia sociale estese a un ampio spettro di soggetti marginalizzati. Le caratteristiche di questo movimento non sono esplicitamente di tipo ambientalista e sono in aperto contrasto con le contraddizioni interne ai precedenti movimenti di liberazione degli afro-discendenti degli Stati Uniti. Tuttavia, nel manifesto di BLM fra i soggetti indicati compaiono gli undocumented, ovvero i sans papiers, migranti per lo più climatici in cerca di opportunità negli Stati Uniti e vittime dell’oppressione razzista di Trump.
Vediamo quindi che rispetto al momento di pubblicazione de La grande cecità la situazione internazionale dei movimenti è fortemente cambiata. A partire dalle proteste sul cambiamento climatico di FFF fino al movimento di protesta globale innescato dall’omicidio di George Floyd e guidato da BLM, la radicalizzazione in corso rende ancora più interessante, se possibile, il saggio di Ghosh, in quanto le questioni che ha posto acquistano ora centralità assoluta. Che ruolo assume il romanzo nel rappresentare tutto ciò che sta accadendo? Si tratta di una forma d’arte che fornisce ancora una piattaforma di autorappresentazione di una classe sociale o può diventare il mezzo espressivo per mobilitare all’azione per la giustizia climatica?
In questo contesto si inserisce la Lettera sulla giustizia e il dibattito aperto, pubblicata su Harper’s Magazine e firmata da centocinquanta intellettuali di area anglofona, che in questi giorni ha acceso un dibattito molto serrato in rete è stata sottoscritta anche da romanzieri (Rowling, Atwood, Amis e molti altri), e pone anche la questione della messa al bando di opere di narrative considerate offensive (qui e qui si trovano analisi della lettera), in un momento in cui la radicalizzazione per i diritti delle minoranze si è acuita a causa della crisi economica innescata dalla pandemia, che ha portato sul lastrico una fetta consistente di cittadini occidentali il cui lavoro dipende dalla filiera produttiva e consumistica globale che caratterizza il tardo antropocene, e in primo luogo le persone non tutelate da dispositivi sociali efficaci, dai sistemi sanitari nazionali al sostegno economico statale.
La domanda è: il romanzo sopravviverà a questo terremoto come mezzo di auto/rappresentazione di corpi umani decolonizzati? La conclusione pessimistica del saggio di Ghosh è stata già smentita dai fatti, ma per arrivare a questo punto è stata necessaria molta violenza e una pandemia, cose niente affatto inimmaginabili nel 2016. Il saggio Spillover di David Quammen (traduzione italiana pubblicata da Adelphi nel 2014) risale al 2012, Questo saggio tornato alla ribalta questa primavera con l’esplosione del Covid-19 in realtà anticipava le premesse che creano le condizioni per la diffusione di una pandemia, premesse che erano già chiare nei primi anni del nuovo millennio.
Quindi l’ipotesi di Ghosh che solo le organizzazioni religiose siano in grado di organizzare le masse è stata smentita dalla nascita e dal rafforzamento di movimenti globali laici che stanno radicalizzando le masse al punto da mettere in atto una cancellazione plateale dei simboli dell’oppressione, attraverso la rimozione di statue e altri emblemi di un potere bianco e colonialista. Tuttavia, abbattere simboli non equivale a cancellare le tracce dell’oppressione colonialista, che rimane a livello documentario anche in artefatti narrativi e sicuramente a livello strutturale nelle norme che regolano i comportamenti degli stati-nazione verso le vittime dello sfruttamento occidentale e del cambiamento climatico. Quale ruolo ha il romanzo nella modificazione dell’immaginario collettivo verso una decolonizzazione della narrazione dominante?
Ghosh auspica che dalla lotta per l’azione efficace contro il riscaldamento globale nasca una generazione capace di uscire dall’isolamento in cui gli esseri umani si sono rinchiusi nell’epoca della loro cecità e che “questa visione trovi espressione in un’arte e una letteratura rinnovate” (p. 193). Tuttavia, pur accogliendo l’auspicio, non è chiaro attraverso quali modalità il romanzo si possa rinnovare. In altre parole, se il saggio di Ghosh si apre con una critica al romanzo come strumento inadeguato a rappresentare il mondo del tardo antropocene, il libro si chiude sostanzialmente dichiarando che la generazione figlia della lotta ambientalista dovrà trovare altri mezzi di autorappresentazione. Sembra che Ghosh auspichi quasi la fine del romanzo, pur essendo lui stesso un romanziere. Nel frattempo, questa generazione figlia delle lotte non inizierà a produrre arte prima di un paio di decenni, un periodo ampio, in cui tutto può accadere e soprattutto durante il quale si continuerà a scrivere e pubblicare romanzi. Come interpretare quindi questa produzione intermedia, che insiste nella rappresentazione del quotidiano attraverso l’uso dei riempitivi morettiani citati da Ghosh, che situa le vicende in spazi e tempi limitati, che confina gli iperoggetti negli scenari, e che quindi è già inficiata in partenza dalla sua inattualità?
Si può azzardare l’ipotesi che il prossimo decennio sarà un’epoca di sperimentalismo lontanissimo dalle avanguardie storiche e più recenti, e ancora di più dal grande romanzo ottocentesco. L’invito di Ghosh è a immaginare il futuro, senza stigmatizzare la produzione narrativa che emerge da questo lavoro sull’immaginario solo perché non conforme con l’aspettativa borghese e senza declassarla a paraletteratura, ma iniziando a considerarla come un lavoro di mappatura degli immaginari e di costruzione di narrazioni adeguate a rappresentare l’uomo decolonizzato in un ambiente modificato in modo irreversibile.
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