“Cuori in piena”. Alessio Torino torna a Pieve Lanterna
Mio padre mi aveva proibito di andare a tuffarmi alle Caldare perché l’anno prima, sul finire dell’estate, un mio coetaneo ci era annegato.
Non era stata una decisione facile per lui. Diceva di averci rimuginato fino all’alba. Il mattino dopo essere arrivati da Roma alla casa della nonna di Pieve Lanterna, si era seduto di fronte a me mentre facevo colazione.
«Sai che non ti ho mai dato ordini» aveva detto, «nemmeno quando eri bambino».
Avevo capito che stava per dirmi qualcosa di importante, o meglio di grosso. Avevo la bellezza di dodici anni nel 1987, e mio padre mi comunicava che non ero più un bambino. E se anche quelle parole erano soltanto una premessa, la frase sarebbe potuta finire lì, tanto pesava.
«Ci ho pensato tutta la notte» aggiunse.
Lo guardai stupito, e per un attimo sperai che si riferisse al cambio di letto e di materasso. Ma sapevo già che non si trattava di questo.
(Alessio Torino, Cuori in piena, Mondadori 2023, p.7).
Stand by me – Ricordo di un’estate
È possibile che, leggendo Cuori in piena [1], a qualcuno torni in mente questo film del 1986 (ma ambientato nel 1959), e anche il racconto di Stephen King (Il corpo, 1982) cui il film si ispira, e anche molti altri film, e racconti, e romanzi di formazione che abbiano per protagonisti adolescenti in un’estate-chiave della vita – in cima a tutti L’isola di Arturo (1957) e Il buio oltre la siepe (1960). La vicenda – in effetti – mutatis mutandis sembra ripercorrere alcuni topoi frequenti nelle narrazioni del genere. C’è un ragazzino che ha «nel 1987 la bellezza di dodici anni», Corsi: i compagni lo chiamano così, per cognome, questo «bambino saccentello» (p. 11); come fosse un Derossi. Corsi va a trascorrere le prime settimane di agosto a casa della nonna, a Pieve Lanterna, sull’Appennino marchigiano: suo padre Seba (Sebastiano) è andato via dal paese da anni, ha studiato e lavora a Roma, e in paese – dove pure ama tornare, dove non manca un’estate di condurre il figlio – è guardato dai suoi amici di un tempo con la stima e la stizza di chi c’è rimasto a fare la solita vita; né molto più alta è la considerazione che Seba ha di loro:
«Hai presente» disse «quei chiodi che rimangono nelle vecchie tavole di legno?»
«Sì»
«Cosa succede a quei chiodi?»
«Non lo so. Stanno lì.»
«Ecco, appunto. Stanno lì. E?»
«Boh. Si arrugginiscono»
«Ecco. Così i miei amici. Saranno sempre i miei amici, gli vorrò sempre bene, ma sono diventati come quei vecchi chiodi. Tutta ruggine» (p.107)
E tuttavia Giorgio Angradi e Achille Spada, i figli dei vecchi chiodi arrugginiti, sono i compagni ai quali, anche quell’estate, «Corsi il Giovane» (p.139) si unisce con slancio; meno uno, Andrea Gori, che è morto annegando dopo un tuffo nel fiume Burano in piena, e suo padre Arcangelo – un tipo strano, che tutto il paese da sempre chiama Arcacciolo – sembra impazzito per il dolore.
«Teppista!» disse il padre di Giorgio quando mi vide. Mi chiamava sempre così.
«Ba’» disse Giorgio, «gli ho raccontato di Andrea Gori.»
«Quel coglione.»
I due amici risero, quella risata che sa di sottomissione complice, la risata che scatta (…) quando restare in silenzio costa troppa fatica. Eravamo tutti dello stesso branco ed eravamo al cospetto del maschio alfa, Angradi. Immaginavo che nessuno dei presenti avesse alcun rapporto di parentela con Andrea Gori. In teoria nemmeno mio padre ce l’aveva, ma lui, appena messo piede a Lanterna, si era precipitato al cimitero. Mi sentii in dovere di fare la sua parte. Ma tutto il coraggio che racimolai mi fece dire soltanto: «C’era stata la piena» (p.18)
Seba non è solo andato al cimitero – quel cimitero che «il paese si permette ancora l’umanità di tenere sempre aperto» (p.319); è stato anche a trovare Arcangelo. Ma soprattutto ha chiesto al figlio un giuramento solenne: non andrà a tuffarsi alle Caldare. Se non avesse giurato, sarebbe stato riportato a Roma. E Corsi il Giovane ha giurato: come si fa a dire di no a un padre che ti chiede di giurare su di sé, a un padre che è «quanto di più lontano da ogni forma di superstizione» (p.9), che si è sempre rivolto a te «con una forma di fiducia perenne» (p.11)? E però: quanto pesa quel giuramento a un ragazzo di dodici anni? Pesa tanto, tantissimo, perché quel tuffo è per lui rituale euforico di ogni estate, distintivo identitario, segno di appartenenza al branco e ai luoghi. Ma non solo: quel tuffo, proprio in quella estate, diventa audace impresa da offrirsi come garanzia di virilità agli sguardi carezzevoli e maliziosi di Federica e Céline, «le Benelux» (le giovanissime nipoti dei minatori emigrati in Belgio, in visita ai parenti) contese, in un torneo dalle regole sconosciute, con rivali inarrivabili – Brat, il giostraio zingaro e spregiudicato, che gira in motorino, mentre Corsi e i suoi perennemente in bici; Mariano, «il personaggio di cui tutti avevano più paura, ragazzini e non solo» (p.35), maglietta metal sotto la camicia a quadri, berretto al contrario, occhiali da sole pure di notte.
Il «Grand Hotel Tetano» («un palazzo in costruzione che era stato abbandonato nel bel mezzo dei lavori dopo il fallimento della ditta edile», «un pugno in un occhio per il decoro storico-urbanistico di Pieve Lanterna», pp.15-16), sostituto prosaico della casa sugli alberi, diventa il quartier generale dei tre amici: qui si nascondono giornaletti pornografici e bottiglie di vodka alla pesca, qui si pianificano le giornate, qui si immaginano strategie di conquista – del drappo colorato del calcinculo (la giostra più emozionante del luna park) come delle Benelux; qui si portano le due ragazze, per una iniziazione sessuale che è «sciame di elettricità da sotto la pianta dei piedi» (p.209); qui – infine – o alla Cava rossa o alla cascata di Teria o al ponte romano o al chiosco di Giotto o al forno della Ines o sul monte Corno o al supermarket della vicina Cagli, come sulle caselle del gioco dell’oca, si snoda la caccia all’uomo, al capro espiatorio delle frustrazioni e della paure inespresse di un’intera comunità, perché – e in questo Seba Corsi concorda in modo sconcertante con i vecchi chiodi arrugginiti – «Qualche volta, nella vita, non abbiamo scelta tra essere vittime o carnefici» (p.312). Arcangelo Gori è vittima da sempre, specie dopo che la perdita del figlio sembra aver dato il colpo di grazia al suo equilibrio precario; al punto da essere sospettato di aver avvelenato, con una polpetta mista a metaldeide, Asha, il cane di Giorgio – per rabbia, per invidia, per vendetta, per pura follia. Corsi il Giovane ascolta tutto, osserva tutti; e comprime le domande in un «silenzio che preme da dentro» (p.17), finché quel silenzio esplode, come, nella notte di ferragosto, l’urlo disumano di Arcangelo, smascherando senza infingimenti la paura di crescere e di restare soli:
Perché, anche se non eravamo più bambini, ci eravamo appena casualmente tenuti la mano in questo mondo dove la paura è così grande che anche a scendere, scendere e scendere, non si tocca mai il fondale (p.262)
When the night has come/ And the land is dark/ And the moon is the only light we’ll see/ No, I won’t be afraid/ No, I won’t be afraid/ Just as long as you stand/ Stand by me. “Non avrò paura finché tu starai con me”. Ma questo soltanto finché Corsi non riuscirà a prendere – da solo – le sue decisioni (seguire Arcangelo sul monte Corno, a dar da mangiare alle aquile, come scendere dall’auto del padre che lo riporta in anticipo a Roma), «nell’unico modo in cui a volte si prendono le decisioni importanti: senza pensarci» (p.253).
Né Bottini né Scout; e nemmeno Arturo
Della vicenda, Corsi il Giovane è il protagonista e un Corsi non più giovanissimo la voce narrante; come Enrico Bottini lo è di Cuore, Scout Finch del Buio oltre la siepe, Arturo Gerace della sua Isola. Ma Corsi non somiglia a nessuno di loro. Li ricorda – anche lui ha un padre “ingombrante” («l’illuminista Sebastiano Corsi», p.230), anche dal suo racconto la madre è sostanzialmente assente; e anche qui l’infanzia è spazzata via da un trauma e l’adolescenza è limbo fuori dal quale non v’è eliso, terreno di prova del sé. Ma nuova e diversa è la postura del narratore: nessun narcisismo retrospettivo, nessun compiacimento sentimentale, nessun intento didascalico, nessuna concessione alle tentazioni mistificatorie della memoria. La memoria di Corsi è prima di tutto onesta: Pieve Lanterna non è l’eden, ma un paese in cui «chiacchiere e maldicenze convivevano con le tragedie» (p.243); e se dai ricordi riemergono situazioni, luoghi, oggetti segnati dal sigillo eternamente significante delle fiabe (le prove di iniziazione; il bosco-rifugio del lupo-Arcacciolo; la rosa, merzede di Céline al giovane Corsi; l’anello che lui le regala…), la memoria li oggettiva, li disciplina, li riconduce senza acredine alla ragione, adulta, ferma e malinconica. È questa la postura che genera il mito: non il rimpianto né la nostalgia. “Sappiamo – scrive Cesare Pavese nella Avvertenza ai Dialoghi con Leucò – che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai”. Ed è così, fissando le ammoniti raccolte da Arcangelo Gori come i pasticcetti alle more della nonna, i vecchi libri di scuola del babbo come lo zucchero filato del luna park, fissando soprattutto i suoi compagni di avventure e i loro genitori (più che descritti: ritratti) e se stesso, nell’atto di osservarli, è così che Corsi, non più giovane, recupera la morale di quei giorni, come fosse l’ ‘o μύθος δελοι οτι delle favole antiche, profondamente radicata nelle parole di Arcangelo Gori:
«In ogni singola ammonite (…) c’è qualcosa della loro storia. Dal fondo del Devoniano fino al Cretaceo. (…) È la loro storia. E in questa storia si legge quello che dobbiamo fare tutti. Vivere le nostre ere con una qualche disciplina. E poi estinguerci.» (…)
C’era qualcosa da cui non si poteva fuggire. (…) E io lo sapevo. Qualcosa che assomigliava a quel pezzo di meteorite che aveva centrato la Terra. Arcangelo Gori ne era stato colpito e aveva dato a me un po’ di quell’onda d’urto. Mi sentii enormemente più forte di Giorgio e di Achille Spada, estraneo al terrore stampato sulle loro facce. Adesso ero io il meteorite, che stava andando verso di loro, anche se ero soltanto Corsi il Giovane, con tre lattine di Coca-Cola strette nel cerchio delle mani. (pp.192-193)
Poesia scritta sul retro di una lista della spesa
(Mio padre) Aveva lasciato detto a mia madre soltanto due cose sulla propria morte. Due cose opposte. La prima era che voleva essere cremato. La seconda che le ceneri tornassero a Pieve Lanterna. Mi sembrano cose opposte perché la prima mi parla del Nulla, del De rerum natura di Lucrezio, dell’anima che è fatta di atomi e che muore con il corpo, e di tutti quei pensieri associati da sempre a lui. La seconda invece assomiglia a una specie di poesia, una poesia breve, scritta sul retro di una lista della spesa, o su un post-it, ma pur sempre una poesia. (p.316)
Il ritorno di Corsi da adulto a Pieve Lanterna, per seppellire Seba, ricuce definitivamente lo strappo doloroso di quella estate, quando dal padre si era «sentito lontano» (p.312) scoprendone il volto nascosto di antico carnefice, bullo nel branco. E quel ritorno innesca il racconto, che è tutto, interamente, una lunga poesia scritta sul retro di una lista della spesa in una lingua rotonda, piena, che, senza cedere al ricatto della materia – aderenza spietata alle cose –, ignora cinismo e sciatteria, e delle parole cerca il senso riposto e misura il peso, e sa dire la «paura terrena» come la «paura universale» (p.223). Torino imprime alla sintassi lo stesso andamento del fiume lungo il quale scorre la sua storia: lento e segretamente impetuoso.
[1] Il primo romanzo di Alessio Torino ambientato a Pieve Lanterna è Tetano, Minimum Fax 2012; ora negli Oscar Mondadori
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