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diretto da Romano Luperini

Una catastrofe per l’istruzione pubblica: dalla scuola dello Stato alla scuola delle Regioni

L’autonomia differenziata: «attuazione» o decostruzione del testo costituzionale?

Il 2 febbraio scorso, con l’approvazione in Consiglio dei ministri, è iniziato il percorso del Disegno di legge finalizzato ad attuare l’«articolo 116, terzo comma, della Costituzione» secondo principi di «decentramento amministrativo», «sussidiarietà e differenziazione» (art. 1). I dieci articoli di cui è composto il testo delineano quale sarà (o dovrebbe essere) la nuova Italia regionalizzata, già esistente in potenza ormai da oltre vent’anni, in virtù della riforma del Titolo V della Costituzione, e ora pronta a essere concretizzata nella realtà di venti regioni, di fatto, a statuto speciale.

Secondo gli estensori del testo «l’autonomia differenziata può rappresentare una svolta rispetto ai vincoli che attualmente impediscono il pieno soddisfacimento dei diritti a livello territoriale e la valorizzazione delle potenzialità proprie delle autonomie territoriali»: in nessuno modo, ci si affretta a precisare nella Relazione illustrativa, «si vuole dividere il Paese, né favorire regioni che già viaggiano a velocità diversa rispetto alle aree più deboli dell’Italia» (RL, p. 1). Tuttavia le direttrici scelte per la realizzazione dell’autonomia differenziata pongono, ab origine, questioni controverse.

La prima, ovvero «il procedimento di determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (RL, p. 2), è un nodo essenziale che rischia di scardinare i principi di coesione e uguaglianza sociale su cui è fondata la nostra Repubblica. Soprattutto perché le clausole finanziarie del DDL stabiliscono che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (art. 8, c. 1): stante questo principio, sarà molto difficile garantire le misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, come stabilito dall’articolo 9, tanto più che i LEP, soprattutto nell’ambito di diritti fondamentali quali la sanità e l’istruzione, si configurano come obiettivi minimi e non preludono a un miglioramento dei servizi di base in regioni già svantaggiate.

La seconda, di carattere metodologico, riguarda la «strada del disegno di legge di attuazione», che, si legge nella Relazione, consentirebbe «un più ordinato e coordinato processo» attuativo e «un più ampio coinvolgimento delle Camere» (p. 2). Tuttavia, nonostante si insista molto sul suo ruolo attivo e determinante nella realizzazione dell’autonomia differenziata, è lecito nutrire più di qualche dubbio sulla effettiva funzione del Parlamento, visto che la parte sostanziale delle procedure di approvazione, così come viene delineata nell’articolo 2, è affidata all’intesa tra Governo e Regioni.

La rilevanza, davvero capitale per il futuro della società italiana, di un tema come quello dell’autonomia differenziata, che combina anche linguisticamente elementi assai problematici in un Paese storicamente affetto da frammentazione politico-territoriale e da profonde disuguaglianze geografico-sociali, ha aperto un dibattito il cui schema appare già significativamente delineato. Il mondo produttivo rappresentato da Confindustria ha subito dato pieno sostegno all’azione di governo in un incontro svoltosi il 22 febbraio tra il Consiglio delle Rappresentanze Regionali e il ministro Calderoli, confermando, come riportato dall’ANSA, «la volontà di una fattiva collaborazione». Al polo opposto, il mondo delle organizzazioni dei lavoratori esprime la propria radicale contrarietà a un progetto che mina alle fondamenta i valori repubblicani di solidarietà e uguaglianza su cui si basa l’esistenza stessa dei diritti sociali e civili. La UIL ha preso posizione anche nello specifico del settore dell’istruzione e, durante i recenti Stati generali sulla scuola del Trentino Alto Adige, ha sottolineato i pesanti limiti che l’autonomia differenziata impone alla libertà di insegnamento1. La CGIL si era mossa in anticipo, organizzando già il 20 gennaio un convegno sul tema: gli interventi di giuristi del calibro di Gaetano Azzariti e Giovanni Maria Flick hanno messo in guardia sulla pericolosa combinazione di autonomia differenziata e presidenzialismo, denunciando i rischi di manomissione e, in sostanza, di decostruzione della nostra Costituzione insiti in un’operazione del genere.

In effetti, proprio la questione costituzionale si pone come il nucleo centrale del problema. Se la Costituzione è un sistema complesso di valori e norme che si tengono reciprocamente, modificare un elemento, per di più essenziale, del sistema equivale a trasformare il senso e i significati di tutto l’insieme, e anche delle istituzioni fondamentali che consentono la coesione dei valori e l’uguaglianza dei diritti che il sistema-Costituzione prevede. A cominciare proprio dalla scuola, che ha avuto il compito storico di costruire e garantire, anzitutto sul piano linguistico-culturale, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica. Quali potrebbero essere gli effetti dell’autonomia differenziata sulla scuola della Costituzione?

La scuola delle Regioni, ovvero del neoliberismo sociale

In realtà, se adeguatamente contestualizzata, l’autonomia differenziata è leggibile come il culmine di un processo storico iniziato più di venticinque anni fa con la Legge 15 marzo 1997 n. 59, la quale, introducendo «l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi», ha avviato un inarrestabile percorso di «riorganizzazione dell’intero sistema formativo» (art. 21), il cui fine ultimo è appunto la nascita della scuola delle Regioni (e, al loro interno, dei centri e delle periferie in un pulviscolo di scuole territorializzate). È infatti questo l’obiettivo della Carta di Genova, atto programmatico della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, presentato già nel 2021 nell’ambito del Convegno Nazionale sulla Riforma dell’Orientamento.

Nel documento, attorno al cardine dell’orientamento concepito come «un processo complesso che concorre allo sviluppo della comunità» (CG, p. 1) e funzionale a garantire il successo formativo e contrastare il fenomeno dei NEET, viene disegnato un nuovo sistema di istruzione nel quale sono le imprese, e non gli istituti scolastici, a essere considerate «un luogo privilegiato di apprendimento e di orientamento»: ciò che conta, insomma, è la realtà lavorativa, che si sovrappone alla realtà educativa e, in base ai «fabbisogni professionali delle imprese», orienta i giovani «alla scelta del percorso formativo più idoneo»; in tale contesto, la vocazione e gli interessi di ognuno devono essere compatibili con «il ruolo del tessuto produttivo locale e del capitale sociale» che, nella volontà delle Regioni, diventerà il fulcro del processo formativo (CG, p. 2).

Stabiliti questi principi, ne consegue che alla didattica, e quindi ai docenti che la realizzano, le Regioni assegnano compiti specifici ben diversi da quelli attuali: tra gli altri, rendere sistematico e generalizzato l’«istituto dei piani formativi individualizzati», superare «l’identità tra classe demografica e aula» e (naturalmente) introdurre «modalità didattiche innovative che in parte superino le lezioni frontali», incentivando così una non meglio precisata partecipazione attiva degli studenti (CG, p. 3). Il documento predispone anche le modalità per raggiungere questi obiettivi. Con l’argomento, sottilmente demagogico, di soddisfare le legittime aspirazioni e «necessità del singolo» studente si prescrive la ricetta della «flessibilità nella progettazione», che ha lo scopo dichiarato di garantire «una maggiore differenziazione dell’offerta formativa dei territori» e di «favorire lo sviluppo di competenze spendibili nel mercato del lavoro» (CG, p. 3).

Lo strumento operativo di questa impostazione radicalmente funzionalista sono i moduli di orientamento, anticipati nella Carta di Genova e già in attuazione con l’ultima Legge di Bilancio (29 dicembre 2022, n. 197). L’articolo 555 stabilisce infatti l’«estensione dei percorsi di orientamento scolastico, con moduli curricolari anche superiori alle 30 ore per le classi terze, quarte e quinte del Triennio e nel primo Biennio della scuola secondaria superiore e nelle classi della scuola secondaria inferiore con moduli di 30 ore, curricolari o extracurricolari», che sanciscono un ulteriore scardinamento dei curricula disciplinari immettendo, per forza di legge e senza alcun dibattito pubblico, attività di orientamento che cominciano addirittura dalla scuola primaria. Oltre a ciò, le Regioni intendono istituire la «nuova figura di orientatore», soggetto giuridico non ben definito ma di cui tutte le istituzioni scolastiche «dovranno dotarsi» e che rientrerà nella Riforma del reclutamento dell’organico. Una figura che andrà a ingrossare il corpo sempre in crescita del middle management delle scuole italiane, la cui istituzionalizzazione è di fatto lo strumento per introdurre il profilo contrattuale del docente-burocrate e creare ulteriori fratture nella già poco coesa classe docente. Il nuovo docente-orientatore avrà inoltre il compito di sviluppare la «didattica orientativa», saldandola (era facile immaginarlo) alla didattica per competenze, l’altro grimaldello economicistico già messo a sistema negli istituti professionali.

Insomma, la scuola delle Regioni così come emerge dalla Carta di Genova si fonda su principi di soverchiante orientamento al mercato del lavoro, supportato dalla nuova “metodologia” della didattica orientativa, e di forte individualizzazione dei processi di insegnamento e apprendimento, oltre che di privatizzazione della scuola democratica, in perfetta coerenza con il paradigma neoliberista che, come segnala anche la costituzionalista Alessandra Algostino2, si nasconde subdolamente dietro le spinte centrifughe e anticostituzionali dell’autonomia differenziata.

Il testo della Carta di Genova conferma esplicitamente che la regionalizzazione della scuola non è altro che un aggiramento del paradigma costituzionale per consentire al processo di edificazione della nuova scuola neoliberista di completarsi. Il cardine valoriale della scuola delle Regioni non è infatti la Costituzione ma il «catalogo di conoscenze, abilità, competenze e best practice internazionali relative a professioni specifiche», ovvero le World skills competition che riflettono la «visione condivisa a livello globale» delle conoscenze e abilità richieste «per poter mantenere un alto livello di competitività» (CG, p. 7). Un sistema di istruzione, quindi, in cui la competizione – altro dogma neoliberista – è l’apice del processo formativo, in un cortocircuito ideologico tra pretesa valorizzazione dei territori e loro effettivo assoggettamento all’economia globalista.

La profondità della trasformazione in atto è tale da impedire una esaustiva valutazione di tutte le conseguenze che la regionalizzazione comporterebbe per la scuola pubblica italiana, già «letteralmente buttata nel mercato e da esso soggiogata» nel corso degli ultimi due decenni: per cui, come aveva già correttamente interpretato qualche tempo fa, proprio in questo spazio, Giorgio Cremaschi, l’autonomia differenziata consisterebbe in «uno degli atti conclusivi della devastazione neoliberista della società italiana»3.

In una scuola sottratta al perimetro costituzionale e definitivamente inserita nella cornice del neoliberismo sociale sarebbe infatti difficile individuare i LEP per l’istruzione, unico (e assai esile) baluardo di uno Stato sociale determinato a livello nazionale, così come risulterebbe arduo, se non impossibile, garantire la libertà di insegnamento, schiacciata tra didattica orientativa e per competenze, o eludere gli interessi regionalistici che inevitabilmente vincolerebbero le procedure di reclutamento e formazione dei docenti oltre che, inevitabilmente, la scelta degli stessi contenuti didattici. Infine, l’istituzionalizzazione di “valori” quali l’individualismo e la competitività, trapiantati dall’ambito economico a quello pedagogico, già di per sé complesso, avrebbe senza dubbio ricadute negative generalizzate sulla formazione culturale e sullo stesso benessere sociale e psicologico delle nuove generazioni. Stanno lì a testimoniarlo anche le durissime denunce di studenti e studentesse delle nostre Università4, dove si celebrano ormai da tempo merito e competizione senza neanche preoccuparsi più di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (Cost., art. 3) che limitano i valori di libertà ed eguaglianza alla base dell’istruzione democratica.

Per una scuola della Costituzione

È possibile contrastare il processo di trasformazione regionalistica e neoliberista e proteggere il nostro sistema di istruzione come fondamento dello Stato sociale? Una prima forma di contrasto e protezione è di natura giuridica e risiede anzitutto negli articoli della Costituzione, in particolare l’articolo 119 che prevede la valorizzazione delle regioni più deboli, ovvero il Mezzogiorno e le Isole5 cui si aggiungono gli articoli 2 e 3, che impongono doveri di solidarietà politica, economico-sociale e di pari opportunità, e l’articolo 5 che dispone il principio di coesione («una e indivisibile») quale cornice identitaria della Repubblica, messa in serio pericolo dai fenomeni di disgregazione e frammentazione che l’autonomia differenziata innescherebbe. Né sarebbe costituzionalmente tollerabile che i principi fondamentali del nostro ordinamento fossero disattesi dalle norme di funzionamento demandate ai singoli territori nell’esercizio del diritto all’istruzione.

È chiaro che anche la libera azione sindacale (di nuovo, garantita dalla Costituzione) può giocare un ruolo decisivo nella partita della regionalizzazione scolastica, se è in grado di comprendere la reale posta in gioco, che va ben al di là della reintroduzione delle “gabbie salariali”, in ogni caso inaccettabile perché, tra le altre cose, utilizza «il differenziale nel costo della vita (di mercato) come criterio per definire i compensi»6. Il fatto è che a essere ormai a rischio di estinzione è l’idea stessa di una scuola pubblica e democratica, e cioè fondata, negli scopi e nei metodi, sull’uguaglianza dei diritti e sulla libertà di insegnare e imparare, fattori universali di autentica pluralità culturale. Saldare in un unico fronte costituzionale sindacati e opinione pubblica, mobilitando scuole e università ma anche le associazioni di docenti e genitori e le organizzazioni studentesche, è forse il modo migliore per cominciare a definire una nuova strategia di sviluppo collettivo della conoscenza, che solo una scuola della Costituzione può garantire.

1 Sul problema specifico cfr. R. Puleo, L’autonomia differenziata e la pressione sulla libertà di insegnamento.

2 A. Algostino, Perché il “disegno di legge Calderoli” è un progetto contro la Costituzione.

3 “Autonomia differenziata: il liberismo si fa stato”. Intervista a Giorgio Cremaschi a cura di Katia Trombetta.

4 Si veda, ad esempio, il discorso della studentessa Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova.

5 In particolare, sui differenziali territoriali negli apprendimenti scolastici, si legga il Rapporto annuale 2022 elaborato dall’ISTAT in cui si osserva «l’ampliamento di alcune delle disuguaglianze, con regioni del Mezzogiorno che si sono allontanate dal resto del Paese, anche per effetto delle più forti difficoltà da parte di scuole e famiglie ad adeguarsi ai cambiamenti richiesti, soprattutto in contesti socio-economici particolarmente difficili» (p. 257).

6 C. Saraceno, Il peso delle parole, “la Repubblica”, 27 gennaio 2023, p. 32.

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