“Autonomia differenziata: il liberismo si fa stato”. Intervista a Giorgio Cremaschi
Intervista a cura di Katia Trombetta
Giorgio Cremaschi, in primo luogo, come è motivata sul piano della politica culturale l’autonomia differenziata che si annuncia in materia di istruzione?
«In nessun modo. L’autonomia differenziata non si comprende e non si motiva evidentemente sul piano culturale, nel senso che non è un progetto che abbia assunto come elemento propulsivo dell’azione istituzionale una qualche riflessione sui temi dell’educazione e della formazione. L’autonomia differenziata rappresenta semplicemente uno degli atti conclusivi della devastazione neoliberista della società italiana, che porta alle estreme conseguenze un percorso avviato circa trent’anni fa. Credo pertanto che qualsiasi reazione alla regionalizzazione della scuola ― ma prima ancora qualsiasi seria considerazione in tal senso ― vada posta guardando ai provvedimenti che si annunciano per quello che veramente sono, vale a dire fronteggiando anche l’insieme degli elementi che contribuiscono a delineare il quadro in cui questo processo si inserisce ed elaborando delle piattaforme che pongano in primo luogo delle grandi discriminanti».
Qual è questo quadro e quali sono le tappe che hanno scandito la sua costituzione?
«Il quadro di riferimento è quello che ha portato progressivamente negli ultimi trent’anni in Italia il liberismo letteralmente a farsi stato. I passaggi fondamentali sono stati tre. Il primo è stato di natura puramente economica: l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht, con le conseguenti politiche di austerità, i tagli alla spesa pubblica, i vincoli di bilancio. Il secondo passo è stato compiuto sul piano costituzionale, con la riforma del Titolo V voluta dal Pd e l’istituzione del cosiddetto sistema della legislazione concorrente, per cui si è passati dal regionalismo, concetto vitale presente nella nostra costituzione, a una sorta di federalismo in salsa leghista in cui non si comprendeva più quali effettivamente fossero i poteri e le funzioni delle regioni e quali le esclusività dello stato. L’ultimo passaggio è stato quello istituzionale che, in qualche modo, ha ricompreso i precedenti punti: la modifica dell’articolo 81, con cui si è costituzionalizzato il pareggio di bilancio, e la modifica degli articoli 118 e seguenti, con la quale sono stati ingabbiati dentro i vincoli dell’austerità anche i bilanci dei comuni e delle regioni. L’attuazione dell’autonomia differenziata in materia di istruzione non rappresenta altro che il compimento di un processo già pienamente realizzato in materia di sanità. Evidentemente, all’interno di questa gabbia economico-sociale che schiaccia tutti, si preparano le condizioni per una vera e propria guerra civile sul piano sociale».
Tuttavia, dopo Veneto e Lombardia che hanno fatto da apripista, anche alcune regioni più deboli hanno dichiarato di voler avviare il processo di regionalizzazione dell’istruzione, e questo a prescindere dal colore politico delle amministrazioni locali. Perché?
«Perché il liberismo non è più un elemento di distinzione tra i grandi schieramenti politici. Nella geografia politica attuale non rappresenta in alcun modo una discriminante politica e culturale: le principali forze in campo esprimono semplicemente due diverse declinazioni della stessa visione economica. Da un lato abbiamo una destra fascistoide di stampo leghista, dall’altro lato abbiamo una destra liberale e liberista rappresentata dal Pd. Il movimento Cinque Stelle ha rinunciato a una sua autonomia nel nome del governo.
Ci possono essere al limite delle distinzioni sul piano dei diritti civili, ma sul piano economico queste forze sono portatrici della stessa visione ordoliberista. Vale la pena ricordare che l’ordoliberismo non è il liberismo classico del laissez faire e che già nella teorizzazione di Von Hayek l’idea di fondo è quella di realizzare un sistema di controllo tale che porti a modificare gli assetti istituzionali, con l’obiettivo di garantire il massimo dello sviluppo del mercato con il minimo della solidarietà sociale, secondo un modello federalista europeo per cui in alto si pone un potere economico autoritario e in basso si collocano le autonomie ragionali, in balia del mercato. Per tornare quindi al merito della domanda, io trovo scandalosa la sottovalutazione delle scelte di fondo che sono state compiute nel recente passato come di quelle che si stanno compiendo ora. Dal mio punto di vista chi guida una regione o un’amministrazione locale e non considera questi aspetti o è un imbecille masochista, o forse è in malafede».
Eppure la propaganda politica, paradossalmente, cerca di far leva proprio su alcuni concetti che, oltre ad avere una ricaduta concreta, esprimono anche una qualche risonanza sul piano ideale: la visione in base alla quale, ad esempio, l’autonomia differenziata garantirebbe il principio di autodeterminazione dei territori.
«Questo è un tema ulteriore e in effetti non è semplice agire su questo piano. Ora, se i fatti contassero veramente qualcosa non saremmo a questo punto. Oggi siamo immersi in un contesto di continua produzione di ideologia di mercato, costantemente replicata e perfino ufficializzata. Più che i fatti conta la percezione che se ne ricava e il fatto in sé, al limite, può anche non esistere. La politica ― una certa politica ufficiale ― si costruisce sostanzialmente sulla negazione o cancellazione di determinati fatti e sull’elaborazione di narrazioni alternative. Dopo di che però i fatti esistono, ma in questo dominio del pensiero unico tornano a esistere solamente nel momento in cui ci cadono addosso. Oggi sul terreno reazionario-liberista siamo di fronte a una visione consolidata per cui i diritti sarebbero un insieme di lacci e laccioli da far saltare perché tutti possano tornare a essere veramente competitivi, secondo uno schema argomentativo che nasce negli anni Ottanta, ai tempi dell’abolizione della scala mobile. Allora si diceva che se si fosse tolta la scala mobile i salari, una volta liberati da questa cappa che costringeva ad aumenti obbligatori, sarebbero cresciuti. La realtà è stata drammaticamente un’altra. Quindi, se i fatti contassero davvero, sarebbe già sufficiente questo per affermare che il liberismo è una truffa. Eppure così non è e la prova dei fatti sembra non bastare mai. Dall’altro lato, tuttavia, è vero anche che oggi la narrazione unicamente aziendalistica con la crisi non è sufficiente sul piano del consenso, per cui si cerca di riproporre il liberismo su base territoriale: è chiaro che se si chiedesse semplicemente di rinunciare al contratto collettivo nazionale perché così tutti avrebbero la possibilità di vedere crescere i propri salari, nessuno probabilmente ci crederebbe più. Ma se si chiede di rinunciare al contratto collettivo perché i veneti o i piemontesi saranno più ricchi, ecco, qualcuno a questo è ancora disposto a credere».
Ma la Lega, partito di governo, come riesce a prendere contemporaneamente voti al Nord, attraverso questi argomenti, e voti al Sud?
«La Lega è sempre stata un partito liberista, padronale e di mercato, non è mai stato il partito del popolo sovrano. Tuttavia è vero, al Nord chiede voti ancora sulla base di quelli che possiamo definire interessi territoriali, mentre al Sud, proprio a coloro che saranno più penalizzati dall’autonomia differenziata, chiede sostanzialmente un voto reazionario. Questa è sì un’evidente contraddizione, ma fino a quando non si troverà di fronte un’opposizione alternativa che rilanci sostanzialmente sul tema dello stato sociale, su questa contraddizione la Lega può tranquillamente continuare a vivere».
Ha fatto riferimento in più passaggi alla possibilità della destrutturazione del contratto collettivo degli insegnati. Si tratta di un rischio concreto per la categoria?
«Assolutamente sì. Soprattutto non si tratta di un rischio ma della realtà. La distruzione dei contratti è un processo liberista di fondo. Per capire bene di cosa stiamo parlando consiglio sempre la rilettura della lettera Draghi-Trichet al governo italiano del 2011, nella quale è ben delineato il programma che oggi si sta concretizzando. C’è un esplicito passaggio in cui, tra gli altri interventi richiesti, si invita testualmente l’allora governo Berlusconi a “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva”, per andare verso una retribuzione legata al mercato e al territorio. Personalmente ritengo che la spinta alla regionalizzazione dei contratti sarà fortissima. Del resto basta solo prendere in considerazione l’ultimo accordo firmato da Cgil, Cisl e Uil che ha portato ad aumenti irrisori, quasi nulli, per la categoria. È chiaro se non si chiedono più soldi per tutti in sede di contrattazione collettiva e si lascia morire la paga nazionale, questo crea lo spazio per il concretizzarsi dei processi di cui stiamo parlando: la paga diventa sempre più legata alla contrattazione territoriale e quindi sempre più aleatoria. Si rischia di andare concretamente verso una situazione in cui non solo gli insegnanti lombardi saranno pagati di più di quelli campani, ma tra quelli lombardi ci saranno coloro che verranno pagati come manager e quelli che verranno pagati come personale ausiliario, mentre a discutere di programmi saranno gli assessori regionali».
Come si fronteggiano queste tendenze destrutturanti? In apertura ha parlato della necessità di porre grandi discriminanti…
«Intanto non bisogna considerare questo processo come inevitabile, bisogna puntare a rovesciarlo giocando su tutte le sue contraddizioni. Serve una grande mobilitazione sociale, che leghi la ribellione all’autonomia differenziata ad altre questioni che si stanno ponendo con forza, come ad esempio quella ambientale, nell’ottica della tutela e dello sviluppo in mano pubblica dei grandi beni comuni del paese. Molto dipenderà da quanto il popolo del Sud sarà in grado di respingere la destra reazionaria di Salvini. All’interno della scuola una battaglia di questo respiro più che altrove può diventare una battaglia di carattere formativo e culturale, se capace di sostenere consapevolmente una visione della scuola libera dal mercato. Finora, già con l’autonomia scolastica, la scuola è stata al contrario letteralmente buttata nel mercato e da esso soggiogata. Ma va detto con decisione che non si può pensare di combattere l’autonomia differenziata senza contrastare anche gli altri elementi che compongono il quadro, a partire dalle due controriforme costituzionali volute dai governi di centro-sinistra, vale a dire tutti quei sostegni che provengono dall’accettazione da parte dello stato italiano del modello liberista su cui è fondata l’Unione Europea. In altre parole, non si può combattere l’autonomia differenziata se non si combattono anche gli attuali trattati europei».
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