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diretto da Romano Luperini

Parlare degli Scritti garibaldini di Ippolito Nievo, pubblicati a cura di Maurizio Bertolotti nell’edizione nazionale delle opere (Padova, Marsilio, 2019), significa guardare a questo importante autore della letteratura risorgimentale da una prospettiva certamente laterale, ma, forse proprio per questo, interessante. Laterale innanzi tutto perché i testi in questione sono scritti per lo più amministrativi, di servizio – per così dire – benché nati da un’esplicita esigenza politica, ma interessante perché essi costituiscono una sorta di testamento ideologico; interessante, inoltre e soprattutto, perché invitano a ritornare – e magari rivedere – su un tema chiave della letteratura ottocentesca: il rapporto fra immaginazione e realtà, storia e romanzo, azione e scrittura.

Il discrimine del 1859

La raccolta riunisce il diario, i resoconti e gli appunti con cui, fra il maggio del 1860 e il marzo 1861, il viceintendente Nievo, in accordo con Giovanni Acerbi, intendente della spedizione dei Mille, si proponeva di difendere l’operato di un’organizzazione militare sui generis perché tesa a coinvolgere, in modo inedito nel panorama italiano, le masse contadine: nel 1859 la decisione di Cavour di consentire la nascita del corpo dei Cacciatori delle Alpi, un reparto militare sotto il comando di Garibaldi e autonomo rispetto all’esercito regolare piemontese, aveva dato la possibilità di partecipare alla guerra d’indipendenza a quanti, per ragioni diverse (politiche, ideologiche, sociali), non avrebbero potuto entrare nei ranghi militari. L’ingresso nei Cacciatori delle Alpi e la partecipazione all’impresa dei Mille segna, come sottolinea l’introduzione ai testi, un discrimine nell’«evoluzione delle opinioni politiche» di Nievo:  

Si può infatti supporre che la familiarità di Nievo con il problema dei rapporti tra classi popolari e guerra rivoluzionaria lo predisponesse a concepire l’ipotesi di una via militare, se così si può dire, al coinvolgimento delle classi popolari nel movimento nazionale. Ad accendere in Nievo la scintilla di una nuova speranza furono tuttavia con ogni probabilità i discorsi che Garibaldi pronunciò sul tema della Nazione Armata negli ultimi mesi del 1859. (p. 20)

Una prospettiva, quella della «via militare al coinvolgimento delle classi popolari» innescata dal contatto con Garibaldi e evidenziata dalla scelta di contrapporre l’esercito garibaldino di volontari all’esercito regolare. Gli scritti del Nievo vice-intendente hanno, così, l’intento non tanto di giustificare il proprio operato e quello dei compagni di fronte alle accuse dei cavouriani, come avviene nelle pagine di Acerbi, quanto di esaltare i valori di un’amministrazione fondata sulla previdenza, l’onestà e l’equa ripartizione dei carichi e proporre un modello di integrazione sociale che possa rendere cittadini quanti fino a quel momento erano rimasti esclusi:

noi sofrimmo assai […] ma il tozzo del pane cotidiano non mancò a nessuno. Sì agli estremi avamposti che alle riserve, ed alle squadriglie paesane le più sbandate, la pagnotta e la proverbiale razione di caciocavallo furono puntualmente distribuite, e nel momento della pugna furono veduti soldati, scorte e distributori unirsi tutti insieme nel correre incontro al nemico.

 L’esercito di Garibaldi è presentato quale «spazio politico», luogo in cui progettare e rendere possibile la partecipazione delle classi popolari alla rivoluzione nazionale e alla vita del nuovo stato, in quello che Bertolotti sottolinea come «un passo avanti da parte di Nievo nell’elaborazione del problema» (p. 15). Una prospettiva che svela gli aspetti mistificatori della burocrazia sconfitta dall’«onestà di tutti» e dalla «pazienza meravigliosa de’ soldati» a cui è dovuto l’ottimo risultato contabile ottenuto «ad onta delle molteplici spese e de’ pochi introiti». Per questa ragione Nievo dichiara di avere accompagnato il «libro di Cassa», che come intendente era tenuto a consegnare, con «note che non sono già ripetizioni di somme, e di riporti, ma giustificazioni ragionate del nostro operato» (p. 175), e formula una riflessione davvero profetica per noi, immersi in una burocratizzazione crescente:

 l’onestà oltrecché essere il sentimento più vivo, e naturale delle anime che sentono il dovere de’ grandi sacrifizi, è anche il primo fondamento di ogni capacità amministrativa; non è per nulla il monopolio di mestieranti, e di conservatori ad ogni costo, dove essa per vivere abbisogna del Codice Criminale e delle Croci e degli avanzamenti in prospettiva. Il nostro Resoconto potrebbe esprimere quello che non esprimevano mai i Bilanci delle Amministrazioni ufficiali – con poco ho fatto molto.

Non sono, in altre parole, gli ambienti ufficiali delle rigide formule amministrative e delle medaglie al merito (le “Croci”) largamente distribuite in occasione della guerra di Crimea a garantire l’onestà, così come non è possibile «rinchiudere nelle aule governative tutta l’attività politica della Nazione». Se chiaro è il riferimento storico all’Esercito meridionale e alla spedizione dei Mille in opposizione alla via “diplomatica”, il senso delle affermazioni di Nievo è più ampio e lo si coglie nelle scelte formali, nella retorica del Resoconto.

Il ritorno all’epos: la “gloria del cencio”

L’interesse di questi testi non si limita agli aspetti ideologico-politici: altrettanto interessanti sono, infatti, le implicazioni stilistiche dell’adesione alla prospettiva garibaldina, visibili in particolare in quello più significativo, il Resoconto amministrativo del luglio 1860.    

Quando tutta l’Italia porgendo l’orecchio prima all’eroica disfida della Gancia poi alle bestemmie ed a’ gemiti di Carini, precorreva coi suoi voti la magnanima impresa cui ci condusse il vincitor di Varese e della quale egli fu volontà, forza e corona, nessuno faceva inchiesta de’ mezzi che erano in poter suo, per muover guerra disperata a quella ch’era rimasta fino a ieri la prima potenza militare d’Italia. Sembrava che nell’Opinione de’ popoli egli solo, come l’Angelo della liberazione, dovesse accorrere sull’ali de’ venti a liberar la Sicilia. (pp. 157-158)

Così si apre il Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia, con l’ingresso in scena di un vero e proprio eroe: la presenza di Garibaldi, dall’epiteto (il vincitor di Varese) alla mitizzazione che lo rende, nell’opinione dei popoli, un essere soprannaturale (“Angelo della liberazione”), trasforma una scrittura contabile in un racconto epico. Una trasformazione di cui Nievo è consapevole e che dichiara esplicitamente nelle pagine conclusive alle quali è consegnato il ricordo di due compagni caduti in battaglia:

E qui mi sia lecito consacrare una riga alla memoria di due carissimi giovani miei ufficiali, ed amici, i quali il mattino del 30 maggio, mentre in mia presenza animavano la gente alla costruzione della barricata di Santa Caterina, bersagliata continuamente dalle palle, e dalla mitraglia nemica, giacquero vittime del loro coraggio, e del loro amore per la patria. Enrico Richiedei di Brescia, antico cacciatore delle Alpi, ferito gravemente a Varese, Enrico Uziel di Venezia, giovinetto di 16 anni sfuggito alla sorveglianza de’ suoi per accorrere alla impresa di Sicilia, dopo esserci stati compagni nelle varie fatiche e nei molteplici pericoli della Campagna, dopo aver pugnato nelle prime file a Calatafimi, ed a Palermo, giacquero insieme estinti dall’ultima palla di cannone che lanciarono le artiglierie napolitane, ed ora dormono insieme l’eterno sonno nella Chiesa dello Spasimo; ricordo dolce insieme, ed amaro a’ colleghi superstiti, cagione di lagrime alle famiglie lontane, vanto novello d’Italia, e nuovo esempio di valore a’ suoi figli. (pp. 177-178)

Per la fine eroica dei due amici, morti insieme, novelli Eurialo e Niso, la mattina del 30 maggio sotto gli ultimi colpi dell’artiglieria borbonica, Nievo sceglie toni e modelli che si allontanano radicalmente dal realismo e che contrastano con la prospettiva e la funzione di un “resoconto” saldando la celebrazione dell’eroe Garibaldi alla retorica nazionalista che ha reso difficile leggere gli autori del Risorgimento dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale. Una saldatura che se evidenzia, come ben sottolinea il curatore, i limiti della riflessione politica dei protagonisti anche democratici del processo unitario, non deve, però, impedire di cogliere un altro aspetto dell’epica dal basso che caratterizza l’intera scrittura del Resoconto.

Nella descrizione del bivacco di Rampagallo la trasfigurazione mitica di Garibaldi, «in mezzo ai soldati che ride e s’intrattiene con tutti del miglior umore del mondo», celebra uno spazio di condivisione reso possibile dal superamento delle gerarchie rigide, tipiche dell’esercito regolare e le tinte dell’epos tratteggiano la possibilità di una società egualitaria, l’utopia di un potere, se non diffuso, vicino a ciascuno nell’immagine del generale che divide il pasto con i soldati. Così la pagina sulle requisizioni di scarpe o quella che descrive l’orgoglio con cui, trovate ad Alcamo un buon numero di camicie, «la colonna poteva già sfilare cenciosa sì, che era la sua gloria, ma non già affatto nuda» concorrono a costruire la leggenda dell’esercito garibaldino e sembrano suggerire che solo riconoscendo cittadinanza all’immaginazione, recuperando la dimensione utopica dell’agire umano, possiamo creare spazi di incontro fra individui diversi e irriducibili.

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