
Cominciamo dalla fine
LN riprende oggi le proprie pubblicazioni. Ricominciamo dalla scuola. Un augurio di buon anno scolastico a tutti i colleghi e colleghe, lettrici e lettori.
Ricominciamo dalle cronache dell’ultima prova d’esame nella secondaria dello scorso anno, finalmente tornato normale, piuttosto ripetitive nelle parole di tante colleghe e colleghi.
Nella secondaria superiore, racconti di colloqui simili a lunghi monologhi della candidata o del candidato di turno, ispirati dall’obiettivo di collegare il maggior numero di discipline (se possibile, tutte) a partire da un documento, testo o materiale di lavoro per forza di cose generico e aperto. Presidenti, portavoce degli ispettori ministeriali, impegnati a preservare la dimensione autonoma della prova da possibili interferenze dei commissari, cioè a dissuadere i docenti dal porre domande, allontanando lo spettro dell’interrogazione. Un’impressione di forte ripetitività, con un deciso vantaggio concesso alle persone che sostenevano la prova sfruttando l’esperienza dei primi a passare (oltre ai consueti repertori di collegamenti in rete, aggiornati di giorno in giorno, era infatti evidente lo sforzo di individuare argomenti duttili e adattabili a diversi contesti disciplinari). Colloqui simili a lunghi monologhi, con sistematica eliminazione delle domande, hanno caratterizzato anche gli esami di non poche commissioni della secondaria di primo grado, dove pure gli alunni si muovono in partenza su un percorso già strutturato, entro le cui coordinate un atteggiamento dialogico da parte della commissione dovrebbe risultare quanto meno scontato. Incidentalmente poi, nella secondaria di primo grado, il tanto decantato esame finalmente tornato normale ha cancellato le prove scritte di lingua, senza che i docenti ne abbiano compreso il motivo e lo scopo, specie alla luce del fatto che l’Invalsi ha invece continuato a compiere le sue misurazioni anche sulla lingua inglese.
Anche a causa di questa riduzione del colloquio alla sola voce dello studente, si è prodotta una valutazione collegiale nella forma ma non nella sostanza, caratterizzata dalle dinamiche tipiche di una commissione di soli docenti interni e da una prova trasversale cui la scuola non prepara.
Ebbene, ci sembra che quest’esperienza, e in generale l’evoluzione che la prova orale sta seguendo negli ultimi anni (iniziata ben prima della didattica d’emergenza) suggeriscano il percorso di una riflessione importante su alcuni aspetti culturali, didattici e relazionali della comunità scolastica. Cercheremo di dare il nostro contributo alla riflessione, a partire dall’esigenza di ricostruire un linguaggio comune per capirci davvero, sia quando parliamo fra noi del nostro mestiere sia quando ne offriamo un’immagine pubblica.
Trovare un accordo semantico
Ci sembra innanzitutto necessario tornare a riempire di significato le parole del discorso pubblico: la lettura in chiave di monologo di momenti come il colloquio (in modo diverso, la stessa interrogazione) rappresenta infatti un tradimento storico e culturale, Sotto il profilo semantico, occulta la radice profonda di molte delle parole fondamentali di cui ci serviamo quando parliamo di insegnamento/ apprendimento e di educazione: colloquio, confronto, condivisione, collegialità, interrogazione, interpretazione. Parole, tutte, che acquistano spessore e concretezza in una dimensione di incontro e di dialogo. Sotto il profilo culturale, immaginare il divieto di interrogazione come garanzia di espressione autentica e piena del giovane, mentre la presenza di domande implicherebbe un impedimento al libero fluire della soggettività, risponde a un’idea di scuola come divisione, separatezza, competizione. Promuove cioè l’individualismo, invece della corresponsabilità e dell’ascolto che caratterizzano un percorso condiviso di scambio intellettuale.
Restituire senso alla soggettività
Nel corso degli anni, soprattutto l’ambito della soggettività è diventato un campo minato, disseminato di fraintendimenti e ambiguità che condizionano spesso il dibattito pubblico. Chiariamo allora che la “soggettività” alla quale ci riferiamo è costruita insieme dall’adulto/ docente e dal giovane/ studente, in un reciproco lavoro di ascolto e messa in discussione. Non concordiamo con la convinzione diffusa che la soggettività sia impressionismo individuale, faziosità, ostinazione nel sostenere le proprie idee perché sono proprie, non perché sono sensate. Quest’ultimo atteggiamento, dominante in ambiti cruciali della comunicazione, come ad esempio il dibattito politico e la realtà televisiva dei cosiddetti talk show, svuota di senso le parole e trasforma il dialogo in finzione. Pensiamo di dover lavorare perché la scuola ne resti immune. Per questo, al centro della nostra riflessione sulla soggettività vorremmo porre il concetto e la pratica dell’alterità, della consapevolezza critica, del confronto con chi propone un altro sguardo sul mondo. Per contrastare la tendenza alla conformità e al rifiuto della diversità, che caratterizza molti ambiti della vita sociale a partire dalla realtà dei social network, la pratica del dissenso ragionato e la frequentazione delle differenze costituisce infatti una risorsa educativa fondamentale e trova nello studio della letteratura un solido presidio e una risorsa straordinaria.
Esplorare l’interdisciplinarità
Lo stesso fertile lavoro di ascolto e confronto è alla base, secondo noi, della costruzione di un sapere autentico e profondo, sulla storia, sul mondo che ci circonda, su sé stessi. In questo senso la parola “collegare”, centrale nella retorica dell’esame orale degli ultimi anni e più in generale nel dibattito sull’innovazione educativa, andrebbe sottoposta a una profonda revisione per ottenerne una lettura condivisa. Seguendo la moda tecnologica e mediatica dell’ultimo decennio, infatti, l’operazione di collegare scivola sempre più verso un’accezione vicina a quella dei codici digitali, e si traduce nell’italoinglese “linkare”: istituire collegamenti superficiali fra cose e concetti anche lontanissimi fra loro, utilizzando parole-chiave per scoprire legami magari curiosi e sorprendenti ma culturalmente deboli o immotivati. In breve: Leopardi e il vulcanesimo (ma anche le fasi lunari), Zeno e la bomba atomica, Montale e le formule chimiche, Ungaretti e i minatori. Se la “filosofia” dell’esame dovesse essere ancora quella del collegamento ad ogni costo, ci sembra evidente che questo comporterebbe conseguenze negative sull’epistemologia di ciascuna disciplina (inducendo al riduzionismo e alla semplificazione) e sul dialogo fra i saperi (rappresentandolo in forma involontariamente ironica e umoristica). Ѐ chiaro che la nostra idea non è restaurare un disciplinarismo nozionistico, ma certamente riteniamo necessario lottare contro la banalizzazione dell’incontro fra materie e problemi.
Da dove cominciare?
More solito, l’inizio dell’anno è segnato da incertezze e fragilità: la fine della didattica d’emergenza; il quasi certo cambio alla guida del Ministero dell’Istruzione e di conseguenza nell’indirizzo delle politiche scolastiche; l’archiviazione di qualsiasi serio progetto per ridurre il numero di studenti per classe, perché il problema delle classi-pollaio è scomparso dai radar insieme alla pandemia. Tuttavia, quelli che abbiamo cercato di indicare in modo approssimativo ci sembrano aspetti su cui lavorare, qualunque siano il contesto educativo in cui la scuola opererà e la forza politica che governerà il Paese e l’istruzione.
Per questo motivo, continueremo a discutere in modo appassionato con la comunità di lettrici e lettori sui temi ineludibili cui ci troveremo di fronte quando entreremo in aula: la costruzione della capacità di comprendere e di un sapere critico, il valore dell’alterità e della differenza nella costruzione di una relazione fra le generazioni e del patrimonio culturale di ciascuno, la ricerca di un dialogo non banale fra linguaggi e discipline di studio.
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