“Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista” di Roberto Ciccarelli
Restiamo sulle frontiere di ciò che siamo per divenire altrimenti da una vita capitalista.
L’apocalisse capitalista è sotto i nostri occhi. E non è un’iperbole. Ha i connotati mostruosi e materiali dell’emergenza climatica che ci attanaglia con inquinamento, siccità, desertificazione, aria irrespirabile, carestie, malattie mortali, disastri ambientali; dell’emergenza sanitaria che ci travolge con sindemie inarrestabili; dell’emergenza bellica che tracima violenta e senza argini in innumerevoli luoghi del mondo. Ha le fattezze mostruose dello sfruttamento intensivo della terra, degli animali, degli esseri umani, del fracking, delle trivellazioni, delle frantumazioni, dell’estrazione costante e senza tregua dai corpi e dalla natura di tutto ciò che può essere messo a valore anche a costo della sua – e della nostra – stessa distruzione. E ha le forme mostruose dell’ostinata negazione radicale di ogni diritto per chi nasce nei luoghi dannati della terra e della progressiva erosione sostanziale dei diritti per chi, stoltamente, credeva di averli conquistati per sempre.
L’apocalisse capitalista non è la catastrofe prossima ventura, non è il meteorite gigantesco che sta per distruggere la terra mentre i padroni del mondo si preparano a colonizzare Pandora. L’apocalisse capitalista è la condizione di crisi reale e quotidiana in cui viviamo, il sistema politico e sociale in cui globalmente agiamo, annaspando tra disuguaglianze, iniquità, ingiustizie, predazioni e istinti di sopravvivenza “che rendono praticabili le condizioni di vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi ad una vita parossistica e servile” (p. 9).
E allora, cosa resta da fare? Vivere passivamente la catastrofe come i protagonisti di un romanzo distopico che percorrono strade desolate con un carrello della spesa pieno di stracci sporchi aspettando la definitiva estinzione? No; o almeno, non ancora. Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, in questo libro prova ad attraversare, esplorare, rovesciare e oltrepassare questa condizione apocalittica – riformulandone la percezione e proponendocene una diversa narrazione – offrendoci così un’insperata via di fuga: nelle sue pagine dense di riferimenti multidisciplinari (dalla filosofia all’antropologia, dalla politica all’economia, dalla sociologia alla psicologia e alla letteratura), approfonditi nel suo lungo percorso di studi sui gangli del capitalismo, ripercorre gli snodi fondamentali dell’evoluzione di questo sistema di produzione e della condizione umana che esso produce fino alla sua attualità, per formulare un’ipotesi di liberazione della nostra vita, a partire dalla negazione decisa dell’ineluttabilità di una condizione storica e psichica in cui “there is no alternative”.
Il passo importante da compiere è rifiutare la “concezione terroristica della storia” (p. 53), che lega tutta una serie di correnti di pensiero – variamente declinate sul tema dell’estinzione attraverso il filo rosso della fine del mondo – il cui esito comune sono immobilismo politico e paralisi esistenziale. Questa concezione, infatti, implica, “una visione della società impermeabile a qualsiasi trasformazione” (p. 53) in cui, come in una profezia che si autoavvera, “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” (p. 288) ed è il frutto di una naturalizzazione e destoricizzazione di fondo di tutte quelle scelte, invero esclusivamente umane, che producono uno stato di cose presenti che si invera come immodificabile. È il frutto avvelenato di un’ideologia – quella capitalistica, l’unica sopravvissuta all’esaurimento delle grandi narrazioni novecentesche – e di un sistema – quello neoliberale, incardinatosi attraverso la rivoluzione passiva che è stato in grado di esercitare nel tempo – che mentre ci spinge verso la distruzione, ci convince che non c’è alcun modo per impedirla. E che sulla paura della fine e sull’insicurezza che essa genera riduce progressivamente il perimetro delle nostre libertà, incrementa il nostro nichilismo, aggrava il nostro status di sopravvissuti a noi stessi senza risoluzione dei mali che ci affliggono, in una condizione bloccata che impedisce ogni tentativo catartico.
Come aprire il varco ad una vita liberata, dunque? Come trasformare questa dimensione di alienante assoggettamento inerziale al sempre uguale nella forza prorompente di una soggettivazione trasformativa possibile e nuova? Ciccarelli coniuga l’interpretazione spinozista della potenza e delle passioni del soggetto con quella marxiana della capacità liberatrice della sua forza lavoro e ci invita a ridisegnare l’immagine di noi stessi come individui capaci di spezzare la catena della sopravvivenza e di aprirci alle possibilità di una sopravvenienza sempre in divenire, “nell’esercizio attivo di una convivenza con gli Altri” (p. 305) e con l’altro, inteso come qualunque altro mondo o entità possibile.
“La leva da usare per innescare una liberazione” – ci suggerisce – “non è l’angoscia per l’annientamento, né la resistenza a un dominio senza scampo, ma la pratica di una potenza attraverso le facoltà e le capacità della forza lavoro dentro i rapporti sociali che la sfruttano e la valorizzano. Qualcuno direbbe che manca il sol dell’avvenire che guida la marcia nell’oscurità. Noi invece diciamo che abbiamo una conoscenza confusa e frammentaria delle idee e dei mezzi attraverso i quali si esprime una potenza in atto. Partire dalla forza lavoro permette di maturare la conoscenza delle cause che la determinano e considerare la vita come la sintesi degli affetti e delle idee, delle azioni e delle relazioni in cui si aprono impreviste congiunzioni moltiplicatrici” (p. 15).
Ed è quasi poeticamente, e non solo filosoficamente e politicamente, che egli – nelle ultime pagine di un libro che non conclude ancora il suo lungo percorso di conoscenza e coscienza esistenziale e politica – indica la via da esplorare, insieme, in una condizione “postuma” che può essere davvero rigeneratrice e liberatrice:
Facciamo esperienza di una vita liberata nella sopravvenienza in cui si riconosce una potenza condivisa sia da coloro che aspirano alla reinvenzione del mondo, sia da coloro che ritengono di vivere nel tempo in cui questo mondo è finito. Noi comprendiamo all’indietro e viviamo in avanti. A chi si delizia o si dispera con il nichilismo del tempo postumo, a chi ha una nostalgia per gli eventi non avvenuti e a chi cerca di anticiparli alla luce di quanto è già accaduto: in questa postumità possiamo fare l’esperienza di un’alterazione permanente che avviene prima, durante e dopo. La liberazione parte dallo stupore di chi si libera dall’idea di un fallimento in cui si troverebbe l’umanità. Grande può essere la scoperta di una potenza liberata (p. 307).
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L’apocalisse è una rivelazione e l’apocalisse capitalista è la rivelazione dell’essenza mostruosa del capitalismo, che si riassume nella triade “sfruttamento-guerra-inquinamento”. Il lavoro teorico e politico di chi non rinuncia a pensare un’alternativa di sistema e di civiltà deve quindi incentrarsi sul tema della liberazione. E a questo proposito Marx ha sempre fortemente insistito su un concetto assiale: quello secondo cui “il tempo è il campo dello sviluppo umano” (cfr. “Salario, prezzo e profitto”) e le scoperte più interessanti contenute nel I libro del “Capitale” sono, in tal senso, l’analisi del plusvalore e l’opposizione fondamentale tra lavoro concreto e lavoro astratto. Da queste premesse deriva la legge più generale di sviluppo della personalità, che è la legge della corrispondenza necessaria tra il livello delle capacità e la struttura dell’impiego del tempo (di ciò, nelle fasi più alte di sviluppo del socialismo realizzato, si è cercato di tenere conto, sino al punto che la riduzione dell’orario di lavoro e l’autodeterminazione dei ritmi di lavoro erano diventate, nel rapporto competitivo con l’organizzazione dell’economia e della società nei paesi imperialisti, una importante risorsa culturale e formativa, ma anche un freno agli incrementi della produttività). A questo punto, è legittimo porre la domanda cruciale: che fare? Per quanto mi riguarda, affermo che il percorso di Lenin, fondato sul nesso tra teoria e prassi e, nella fattispecie, sul nesso tra scienza e strategia, strategia e tattica, filosofia e politica, è un percorso che conserva un significato oggettivamente esemplare (i marxisti-leninisti non sono forse le uniche forze che hanno sconfitto il capitalismo e i suoi malefici rampolli: la guerra imperialistica e il fascismo?). Pertanto, il compito dei marxisti-leninisti è oggi quello di lavorare, muovendo dagli apparati in cui operano (scuola, stampa, sindacati ecc.), per riconnettere il marxismo al movimento operaio e viceversa, radicandosi nelle tre grandi tendenze del processo storico individuate dai fondatori del socialismo scientifico e pienamente confermate dallo sviluppo reale dei rapporti di produzione, di scambio, di circolazione e di consumo delle merci: la riduzione del lavoro necessario (resa possibile dalla informatizzazione dei processi produttivi), “il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura” (Marx, “Grundrisse”, trad. it., La Nuova Italia, vol. II, p. 112), la formazione di un’umanità integrata (resa possibile dalla costituzione di un mercato mondiale: processo, questo, che procede necessariamente in modo disuguale e tutt’altro che lineare). Sennonché, contrariamente a quanto sostengono i pavidi, gli stanchi, i rassegnati e i cinici, è sempre “il sol dell’avvenire che guida la marcia nell’oscurità” e la sua potenza illuminatrice e stimolatrice, sia in estensione sia in profondità, è tutt’altro che esaurita.