Il sacrificio Invalsi: uso, impatto e percezione delle prove
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Aprile. Come ogni anno da quando è iniziata la somministrazione delle prove Invalsi in formato CTB ad aprile il mondo si ferma, la didattica si sospende. A seconda della dotazione informatica degli istituti le classi possono venire scorporate in due, anche tre gruppi, che iniziano a ruotare di solito nell’unica sala informatica che le scuole hanno a disposizione, quando ce l’hanno, con il risultato che tra la somministrazione di tutte le prove, più le sessioni di recupero, se ne va quasi un mese. L’organizzazione di questa massiva somministrazione, che cade nel bel mezzo del secondo quadrimestre (o pentamestre) e che nel caso della scuola secondaria di primo grado riguarda le classi terze, impatta notevolmente sulle attività didattiche. Se infatti si è costretti a dividere una classe in tre gruppi, per settimane i docenti faranno lezione a delle classi non complete o al contrario classi complete non avranno il docente perché impegnato nella somministrazione delle prove. Certo, la circostanza può essere utilizzata per recuperi e approfondimenti, ma a questa altezza dell’anno scolastico, quando di solito anche i corsi di recupero si sono conclusi, la sottrazione di tempo alla didattica è vissuta dai docenti — e in alcuni casi anche dagli alunni — come una fastidiosa, se non odiosa, perdita di tempo. Uno scippo. In questo momento infatti si tirano le somme di percorsi magari durati anni, si impostano le attività dell’ultimo periodo, ci si inizia a confrontare con l’orizzonte d’attesa della prova d’esame, che per i ragazzi rappresenta un appuntamento delicatissimo. Tutto questo meriterebbe tempi distesi, cura, attenzione. Invece solitamente quando cade la pagina del calendario del mese di marzo inizia poi, con il mese di aprile, una frenetica corsa contro il tempo. A questa situazione già pre-pandemica si è poi sovrapposta quest’anno la frenesia per la ripresa delle uscite didattiche e dei viaggi di istruzione, non appena sono cambiate le regole anti-covid con la fine dello stato di emergenza.
Quando ci si confronta con le modalità di svolgimento delle prove Invalsi si è portati a considerare questo immenso sforzo organizzativo da parte delle scuole come un sacrificio non solo inevitabile ma anche necessario. Ci si deve immolare. Raramente ci si sofferma a riflettere sul fatto che tutti gli aspetti concreti di una attività di testing linguistico, qual è appunto la somministrazione delle prove Invalsi, contribuiscono singolarmente e nel loro insieme a definire il profilo di validità e affidabilità del test stesso.
Intanto, in questa prospettiva, il primo dato di cui tenere conto è connesso a un aspetto fondamentale della validità del test e riguarda il suo uso.
Un test si definisce valido se misura esattamente ciò che si propone di misurare. Se fotografa cioè — come dovrebbe — il livello di competenza in un dato momento, nel modo più accurato possibile. Non fornisce alcuna informazione sul percorso didattico che ha condotto l’alunno al raggiungimento di quel determinato livello di competenza. E nulla dice ad esempio rispetto ai progressi compiuti dall’alunno in un determinato arco di tempo. Questo semplicemente perché la valutazione certificatoria è — o meglio, dovrebbe essere considerata — una disciplina non pedagogica, e quindi da tenere rigorosamente distinta dai processi educativi che avvengono nelle scuole. La confusione tra questi due piani infatti, quello educativo e quello certificatorio, produce distorsioni a più livelli. Il primo è quello che riguarda l’utilizzo delle prove Invalsi per la valutazione degli istituti, tanto che i piani di miglioramento vengono spesso letteralmente incatenati agli esiti dell’Invalsi. Il secondo, in parte conseguenza del primo, è quello di trasformare un adeguato svolgimento della prova Invalsi in un obiettivo didattico, producendo quindi uno svuotamento delle mete educative e attivando una serie di “cattive pratiche”, come le discutibili attività di addestramento, che sono cosa diversa da quella che dovrebbe essere semplicemente la conoscenza del formato della prova. In definitiva, quindi, le prove Invalsi non vengono utilizzate esclusivamente per fare ciò per cui dovrebbero essere progettate (al termine del primo ciclo: testare la comprensione del testo, la competenza lessicale e la conoscenza esplicita della lingua), cosa che rappresenta un pregiudizio alla loro validità e anche alla fondatezza di alcune delle decisioni che sulla base delle rilevazioni possono venire assunte.
Secondo dato, sempre connesso alla validità del test. Si diceva poco sopra dell’immane sforzo organizzativo cui sono chiamati gli istituti per garantire lo svolgimento delle prove Invalsi. Questo sforzo include l’adeguamento dei mezzi, la disponibilità di personale, una pertinente formazione del personale stesso, dal momento che gli insegnanti durante la somministrazione delle prove Invalsi sono presenti nelle aule non come docenti ma come somministratori. Se tutto questo è eccessivamente dispendioso in termini di risorse ed energie investite o in qualche modo carente, ciò pesa su quella che tecnicamente viene definita la praticabilità del test e dovrebbe indurre più di qualche cautela, visto che anche una somministrazione non corretta — se magari il personale non viene adeguatamente formato — può incidere sugli esiti della prova e visto soprattutto che le risorse a disposizione non sembrano essere all’altezza dell’obiettivo, come dimostra già solo il dispendio di tempo.
C’è poi anche un aspetto della validità che è connesso all’impatto concreto che il test ha nella vita delle persone che a quel test sono sottoposte e come esso è percepito dagli studenti, ma anche dalle istituzioni che lo utilizzano, come le scuole. Si tratta della cosiddetta validità “apparente”, vale a dire come appare il test a persone non esperte, «il suo grado di corrispondenza con ciò che si propone di misurare, così come viene percepita da osservatori non esperti»[1]. Intanto rispetto all’impatto del test va certamente rilevato che uno degli aggiustamenti di tiro più significativi in questa direzione (e importante correttivo anche rispetto all’uso di cui si diceva sopra) è stato il fatto che l’esito delle prove Invalsi non concorre più alla definizione delle medie degli alunni in uscita dalle classi terze della secondaria di primo grado. Resta il fatto però che gli alunni percepiscono questa prova, in questo momento dell’anno, come qualcosa di significativamente avulso dai loro percorsi didattici, che genera apprensione e in alcuni casi vere e proprie ansie. Soprattutto, la domanda sottostante dello studente, e più ancora forse degli alunni del primo ciclo di istruzione, è: ma da questa prova emergerà ciò che effettivamente io so e so fare? Si tratta anche in questo caso di aspetti non trascurabili, perché chi si sottopone a un test di certificazione, anche se si tratta di ragazzi — anzi, forse soprattutto nel loro caso perché in definitiva non possono sceglierlo — deve avere netta la percezione che quella misurazione sia eticamente e rigorosamente fondata nelle modalità di rilevazione e nella interpretazione dei dati, soprattutto per le decisioni che da ciò possono concretamente discendere.
Prima ancora di entrare nello specifico delle notevolissime questioni aperte e cruciali che la certificazione Invalsi pone sul piano linguistico, sarebbe quindi necessario sgombrare il campo dalle troppe ambiguità che concernono gli aspetti di concretezza del test, fermo restando il fatto che, come si accennava, è legittimo porsi l’interrogativo sulla opportunità o meno di praticare nella scuola dell’obbligo una valutazione di tipo certificatorio.
La risposta è aperta e non dovrebbe essere scontata.
Riferimenti bibliografici e documenti:
Giuliana Greco Bolli – Maria Grazia Spiti, Misurare e valutare nella certificazione CELI, 2004, Guerra Edizioni, Perugia
Massimo Vedovelli (a cura di) Manuale della certificazione dell’italiano L2, 2010, Carocci, Roma
QUADRO DI RIFERIMENTO DELLE PROVE INVALSI DI ITALIANO
[1] Monica Barni, La valutazione delle competenze linguistico-comunicative in L2, in Massimo Vedovelli (a cura di) Manuale della certificazione dell’italiano L2, 2010, Carocci, Roma.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Ottimo scritto.
L’INVALSI appare come un test certificativo, ma la sua vera funzione è trasformare la scuola. La sua è una funzione politica, spacciata come educativa.
Bel testo, anche molto aperto e aporetico (non un “no” a prescindere). I miei principali dubbi al riguardo sono sulla differenza tra “classi campione” e “classi non campione” e sul fatto se sia utile farle annualmente. In fondo i macro-trend sono analoghi, se non identici; farle una volta ogni – ad esempio- 2 anni potrebbe permettere di risparmiare risorse da usare poi per il potenziamento delle situazioni più difficili nonché di far percepire meglio l’evoluzione (oltre che a far risparmiare un mare di tempo a noi docenti).