Carne da talk show. Riflessioni sulle rappresentazioni sociali dell’insegnante
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
In ordine di tempo, la crisi pandemica è l’ultima fra le tante occasioni perdute dalla scuola per vedere rappresentata in termini minimamente verosimili la complessità dei suoi problemi strutturali, materiali e culturali.
Parte della responsabilità di questa situazione, che lascia inalterati e in alcuni casi potenzia gli storici stereotipi sulla nostra professione e su chi la esercita, è sicuramente da ascrivere alle scelte dei media; in tempo di pandemia, soprattutto della televisione, che ossessivamente si occupa di spendere fiumi di parole sui temi che ritiene più appetibili per gli spettatori, determinando un forte orientamento nello sguardo dell’opinione pubblica: un modo di guardare alla scuola e a chi ci lavora, di percepirne le scelte e gli atteggiamenti. E, quindi, di valutare l’importanza dell’istituzione e la moralità di chi insegna.
Senza pretese di completezza, vorrei in queste brevi note evidenziare alcuni elementi fondamentali di questa tecnica di rappresentazione sociale, sottolineando come si tratti di precise scelte di messa in scena, attraverso le quali si argomenta una tesi sulla scuola, nutrendo l’opinione pubblica con polpette avvelenate.
Rapporto di minoranza
Maddalena Loy, Davide Tutino, Arianna Fioravanti, Roberta Salimbeni: le tre colleghe e il collega qui ricordati hanno avuto un ruolo importante nei palinsesti televisivi e informativi degli ultimi mesi. I loro interventi si possono facilmente reperire in rete (in particolare, su Youtube), ma premetto che non mi occuperò affatto né delle loro scelte né del contenuto, più o meno condivisibile, delle loro argomentazioni.
Considero invece interessante che siano diventati personaggi televisivi, ospiti ricorrenti di molte storie sulla scuola raccontate da conduttrici e conduttori famosi e popolari, come Myrta Merlino, Concita Di Gregorio, Corrado Formigli, Massimo Giletti.
La scelta di rendere queste persone personaggi, infatti, denuncia la volontà dei comunicatori televisivi di non raccontare la normalità della scuola, un’istituzione – è bene ricordarlo – in cui circa il 95 % del corpo docente è vaccinato, il 3% non può vaccinarsi, e dunque la quota di persone che obiettano e disobbediscono alle norme (etiche o legislative) è assolutamente residuale. La premessa dei racconti di scuola ai quali assistiamo è, quindi, che si tratta di “rapporti di minoranza”. Perché?
Il classico riferimento al criterio di “notiziabilità” per cui fa notizia l’uomo che morde il cane, non il cane che morde l’uomo, sembra piuttosto debole per spiegare questa scelta. Da una parte, infatti, non si vede perché la quasi totalità degli insegnanti e delle insegnanti ligi alle regole e rispettosi di norme che spesso non condividono dovrebbe fare notizia meno di chi non le rispetta. Dall’altra, e soprattutto, lo stesso criterio non viene osservato quando si raccontano storie di altri “servitori dello Stato”. Per esempio, il numero di esponenti delle forze dell’ordine apertamente inadempienti rispetto a un supposto obbligo morale (e poi, all’obbligo di legge) di vaccinarsi è di gran lunga superiore a quello degli insegnanti, e tuttavia non esiste nessuna campagna di informazione che dia costantemente voce a chi dice di no. Non è dissimile la situazione per sanitari e medici, categoria alla quale anzi è dedicata una retorica di eroismo e sacrificio che mette in ombra – giustamente – l’esistenza di nutrite frange di disobbedienti.
Le storie di scuola, e di insegnanti, sono dunque soggette ad un criterio di distopia informativa, al cui interno è normale solo la stranezza, l’anticonformismo, l’opposizione a tutti i costi. Questa rappresentazione, naturalmente, ha un prezzo in termini di immagine pubblica di chi insegna. Un prezzo che pagano tutte le persone di scuola, non solo i personaggi che i media hanno scelto per rappresentarle.
In una pagina stupenda di “Metafora e vita quotidiana”, George Lakoff e Mark Johnson discutono una metafora fortemente radicata nel pensiero occidentale: quella che lega intimamente la discussione alla guerra, e concepisce l’atto di discutere con qualcun altro a quello di combattere un nemico. Sottolineano che metafore di questa portata, radicate nell’immaginario e nel cuore delle persone che vivono in un determinato contesto culturale, non influenzano solo il loro modo di pensare alle cose, ma di vivere le cose. Di questa concezione bellica del dialogo e del confronto, i talk show costituiscono una perfetta traduzione in immagini, a partire dall’abitudine di “schierare le truppe”, contrapponendo fisicamente le persone che si contrapporranno per le loro idee; in particolare, l’irriducibile natura guerresca dei confronti televisivi si manifesta nella sostanziale intolleranza alle opinioni altrui e nel tentativo disperato di “vincere”, a qualsiasi costo, svilendo e mortificando la razionalità della comunicazione e il rispetto per le persone.
I personaggi di insegnanti descritti in precedenza sono interpreti perfetti di questo copione, prima di tutto in quanto portatori di una radicale alterità rispetto alla maggior parte dei loro interlocutori. Nel gioco delle parti, all’insegnante spetta il ruolo del cattivo posto di fronte al buono (di volta in volta, chi conduce lo show, l’immancabile virologa o virologo, il politico di turno). Minoranza in senso quantitativo, l’insegnante ospite lo è anche in senso qualitativo: al suo discorso, infatti, sono normalmente negate le condizioni minime di decenza per costruire un’argomentazione (tempo, sequenzialità delle frasi, opportunità di condurre a termine il ragionamento). Al contrario, il confronto si esaurisce in frammenti, mezze frasi, abbozzi, quando non scade apertamente in rissosa maleducazione e nella derisione dell’ospite. Ne consegue un effetto di straniamento, per cui i personaggi delle insegnanti e degli insegnanti sembrano appartenere ad una categoria stramba, incoerente, incapace di discutere.
Naturalmente, sorge spontanea la domanda sulle ragioni in base alle quali persone che ambiscono a trasmettere un messaggio difficile e non conforme all’opinione comune accettino di lasciarsi trasformare in una parodia di se stessi e della loro categoria professionale. Ѐ difficile infatti immaginare che non siano consapevoli della potente azione dei meccanismi comunicativi di genere, e della distorsione cui le loro parole saranno sottoposte.
Resta, tuttavia, l’effetto di fronte allo spettatore: l’insegnante è nemico della verità.
Il cannocchiale rovesciato
Da questa forma di straniamento e incomunicabilità, nasce un effetto di “strabismo culturale” rispetto alla realtà della scuola, come se la si osservasse attraverso un cannocchiale rovesciato. Acquista così una posizione preminente e centrale quello che nella realtà delle scuole costituisce invece un problema assolutamente relativo: per esempio, il rifiuto di principio del Green Pass; o, come spiegato in precedenza, del vaccino. A questo effetto- strabismo danno un loro robusto contributo le voci di commentatori più o meno autorevoli, che concentrano la loro attenzione sulle mancanze di chi insegna (Galimberti docet).
Scompare così dall’orizzonte del dibattito pubblico la concreta realtà delle scuole, nelle quali in questi anni è effettivamente in corso un confronto serrato su temi delicati e controversi. Inutilmente, però, si cercherebbe, nei numerosi interventi dei docenti-personaggi della commedia scolastica nei talk show, come nelle rumorose dichiarazioni dei loro antagonisti, traccia di questi temi: il dibattito sulla tecnologia nell’insegnamento e l’opposizione fra innovatori e tradizionalisti; la discussione sul rapporto fra l’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo di competenze; il confronto sulle competenze non cognitive; l’ipotesi di accorciare il corso degli studi superiori. Sembra dunque che questi argomenti non siano considerati interessanti per chi vive fuori dalla scuola, come del resto non è considerato interessante approfondire lo studio delle classi pollaio o della miserabile condizione dei trasporti, che tanto ha contribuito alla diffusione del contagio.
La scelta di rovesciare il cannocchiale, ingigantendo particolari secondari e perdendo completamente di vista lo scenario complessivo risponde ai canoni del genere e alla logica che lo presiede: la complessità è e deve rimanere estranea ad un contesto di fruizione rapida e di risposta immediata, in termini di schieramento non di ragionamento; buoni e cattivi devono essere riconoscibili e soggetti a un giudizio “morale” istantaneo, senza dilemmi etici di sorta.
Se invece il cannocchiale dovesse essere rimesso nella sua giusta posizione, si correrebbe il rischio di suggerire all’opinione pubblica che le risposte non sono semplici, e che le responsabilità per i problemi della scuola sono a carico di chi governa non meno che di chi insegna.
In questi tempi di idillio fra giornalisti e potere, un’evidenza scomoda.
Meglio, molto meglio, novax contro sìvax. Con il coretto dei virologi.
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