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diretto da Romano Luperini

A insegnare si impara (insegnando) -la Scuola secondaria di primo grado palestra di formazione

Ho iniziato a insegnare nel 2002: la scuola secondaria di primo grado doveva essere un momento di passaggio, una sorta di pausa veloce verso quella del secondo grado.

Ci sono rimasta vent’anni e ho decisamente imparato più di quello che ho insegnato: questo articolo è un tentativo di fare il punto su come l’aver lavorato in questo ordine abbia modellato il mio modo di essere docente. Continuo a pensare che ogni insegnante dovrebbe spendere un periodo, quantomeno di osservazione e riflessione, in qualsiasi ordine di scuola ed evitare la tentazione di definirlo come “quello che viene prima a cui dare la colpa originaria”. Questo non è un articolo scientifico, non è un testo argomentativo con dati, tesi e confutazione, si tratta di semplici riflessioni a partire dall’esperienza vissuta.

L’anello debole

In cima agli stereotipi sulla scuola secondaria di primo grado che mi fanno arrabbiare c’è da sempre “l’anello debole della catena”, variante metaforica di: un ordine di scuola che non è mai stato compiuto, un ordine di scuola in cui non si impara e non si insegna, un ordine di scuola non ancorato alla primaria e non in continuità con gli istituti superiori (questa è del ministro della pubblica istruzione, Bianchi). Con Rapporto scuola media 2021 della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, confrontando i dati raccolti con quelli del rapporto del 2011, ha messo in luce la criticità degli apprendimenti degli alunni e la percezione negativa che questi ultimi hanno della scuola. Se lo dicono anche i numeri, cosa mai potrò affermare d’altro io? L’Invalsi ogni anno afferma di fotografare la realtà partendo dai suoi dati, i giornali ne fanno titoloni, sui social partono i botta e risposta, si affastellano le critiche cui fanno da contraltare le difese, poi a settembre ci si ritrova con i problemi di sempre, ma anche con le possibilità di sempre. E io a lavorare guardando quello che c’è e non quello che manca l’ho imparato qui: certo anche a condannare, criticare e a battermi per cambiare le cose. Non credo che la scuola secondaria di primo grado sia l’anello debole, certo è l’anello che forse più di tutti ha a che fare con l’esplosione della complessità. Noi che a scuola ci siamo sappiamo che aiuterebbero classi meno numerose, scuole aperte al pomeriggio, una vera sinergia col territorio (vuol dire prevenzione, politiche educative, alleanze con le famiglie, figure professionali come educatori, pedagogisti e psicologi integrati nel team scolastico), arte, musica, teatro, sport inseriti curriculum,  la possibilità per i ragazzi e le ragazze di sperimentare attività diverse. Tutti questi elementi potrebbero migliorare la situazione, ma non sarebbero sufficienti senza ciò che davvero può fare la differenza: la relazione che ciascuna scuola vuole e può instaurare con i suoi studenti. È necessario partire e perseverare da qui, sospendere per un attimo l’idea di trovarsi in mezzo tra un ordine di scuola compatto e virtuoso (la primaria) e un altro in cui i curricoli sono diversificati: l’idea insomma che la scuola secondaria di primo grado abbia come missione principale preparare all’ordine successivo. Non che non si tratti di un obiettivo da raggiungere, ma al di sopra ci dovrebbe essere la formazione integrale della persona e del cittadino, a partire dalle esigenze culturali e formative degli alunni e delle alunne, come si trova scritto in molti PTOF: ma in concreto? Perché noi stiamo nel reale, che è complesso, multiforme e esige risposte e azioni.

Abitare la complessità

La scuola secondaria di primo grado è l’ultimo momento scolastico in cui ragazzi con storie, competenze, passioni diverse si trovano nella stessa classe, studiando le stesse cose. E non lo fanno più da bambini, sono ormai preadolescenti, gli esseri che fanno la muta, che cambiano non solo le forme del loro corpo, ma anche della loro mente; la scuola secondaria di primo grado è lì in mezzo a questo tsunami: tre anni diversissimi tra loro, con ragazzi che paiono nuovi ogni giorno.

Un conto è osservare, descrivere e sfiorare la complessità, un altro esserne parte: le decisioni si prendono nel qui ed ora, sapendo che spesso non si sceglie il meglio ma ciò che è più opportuno e soprattutto che non c’è mai una soluzione che vada sempre bene per tutto.

Eppure è proprio la diversità a importi domande fondamentali: a chi sto insegnando? Cosa sto insegnando? Perché scelgo di insegnare e questo? Sono le risposte che ci diamo a spingerci poi a progettare il modo con cui offrire a tutti la possibilità di imparare a imparare, di comprendere e selezionare testi, di diventare lettori, di sperimentarsi come scrittori, solo per restare nelle discipline umanistiche.

In concreto: i ragazzi non leggono, hanno un immaginario diverso dal nostro, apprendono in modo reticolare, hanno più familiarità con testi destrutturati, con le immagini, la sintassi semplice e franta, faticano a studiare, sono in difficoltà con la grammatica. Tutto vero, o parzialmente vero, possiamo dircelo ma è fondamentale superare la lamentatio temporis acti e mettere le mani in pasta. Dall’affrontare concretamente questo scenario sono nati i laboratori di lettura e scrittura, la biblioteca di classe, la ricerca di una sperimentazione didattica come il reading and writing workshop che sto portando avanti con gli italian writing teacher.

Passione, fiducia e ottimismo

Non si può insegnare senza ottimismo, senza la caparbia ostinazione che tutti possano imparare; per me il docente serve anche a questo, a crear occasioni di apprendimento, a incarnare la fiducia nella possibilità di imparare, ad arricchire di senso l’esperienza della conoscenza: altrimenti se si trattasse solo di riportare il sapere, basterebbe la memoria di un PC, che anzi conserva mille e mille volte meglio di un uomo. L’insegnante è un essere appassionato per natura: della sua materia, della scuola e degli studenti, ne riconosce i punti di forza e le debolezze, lotta per cambiare, prova a costruire insieme agli altri la realtà che ha in mente. So che pare retorica stucchevole, ma ho toccato con mano quanto conti l’ostinazione dell’insegnante: non si apprende a salti, si apprende per gradi.

Nella secondaria di primo grado ho imparato a dedicare tempo, a muovermi passo passo a comporre e scomporre gli apprendimenti.

Concretezza e umiltà

Una mattina Thomas dava veramente di matto e io me ne sono uscita con la frase che nessun adulto dovrebbe dire mai a un ragazzo: “Ma Thomas, con tutto quello che ho fatto per te!”.

“Ma chi cazzo te l’ha chiesto!” mi ha urlato in faccia a due centimetri di distanza.

Aveva ragione lui. È stato quel momento che mi ha fatto passare oltre il famigerato “io ti salverò” che tanti danni fa nella scuola.

I ragazzi non ci chiedono di essere missionari, di essere loro devoti per poi rinfacciare gli sforzi fatti: ci chiedono di essere coerenti, di fornire loro limiti e strumenti. La giusta distanza, insomma.

In questi anni mi sono trovata di fronte a situazioni complesse rispetto alle quali sono stata impotente, ho solo potuto cercare sinergie con altri servizi, denunciare situazioni, cercare di contenere e accogliere.

Con concretezza e umiltà ho capito che l’esserci, il continuare a ostinarsi nell’insegnare a chi apparentemente rifiuta di imparare, il portare loro argomenti complessi e sfidanti significa mostrare ad alcuni ragazzi che esistono adulti diversi da quelli con cui fino ad allora hanno avuto a che fare. Adulti che hanno di loro una visione positiva, che credono in loro, che non li ritengono casi ormai persi, che ci provano comunque.

Io non so se questo può cambiare le cose, so è una forma d’amore e che senza amore non si può insegnare.

Volere e potere

Se vuoi, puoi! Quante volte ce lo siamo detti? Questa esaltazione della volontà come strumento massimo per ottenere il risultato è uno slogan, buono per vendere, forse. Niente di più.

In primis non è semplice capire cosa vuoi, a dodici anni come a trenta: l’orientamento dovrebbe avere come fine aiutare a riconoscere, a sviluppare le proprie attitudini, capacità e competenze e infine a provare a capire ciò che in quel momento vuoi e puoi.  Ho imparato a insegnare a “volere”: ragionare, cioè, per obiettivi, mostrare ai miei studenti quale percorso avrebbero dovuto intraprendere per raggiungerli. Dal momento che volere studiare non significa automaticamente saperlo fare, nella secondaria di primo grado ciò ha per me significato pormi il problema di insegnare a studiare: insegnare ad ascoltare in modo attivo e generare domande di qualità, selezionare le informazioni (imparare a evidenziare, selezionare gerarchizzare), ricomporle in modo visuale (parole chiave, mappe concettuali, organizzatori grafici, schemi, mappe visuali) e da lì trasformare questi testi misti in un discorso orale. Quando iniziai a insegnare tendevo ad aspettarmi che i ragazzi solo ascoltandomi avrebbero appreso e sarebbero stati in grado di leggere un testo e di ripeterlo: non funziona così, almeno nella preadolescenza. Grazie a questo supposto limite (che in realtà è una caratteristica propria dell’essere in formazione, mangiare è operazione biologica e naturale, studiare e ripetere no) ho studiato, progettato come fare e ho iniziato sempre di più a lavorare su come si può imparare a studiare. Grazie a questo lavoro, quando piano piano introduco lezioni dialogate, mi rendo conto che ora sanno come studiare, certo poi non è detto che lo facciano. Ma a questo punto sì che posso dire “se vuoi, puoi”. Se non mi fossi scontrata con la complessità, forse non mi sarei mai posta il problema.

Il ritmo, gli strumenti, il processo

Ciascun insegnante sa quanto sia importante il ritmo per tenere desta l’attenzione, per riuscire a bilanciare spiegazione, ricostruzione, domande e rielaborazione personale; per dare spazio a ciascuno, per progettare un percorso. Il ritmo è una questione di tempo e di spazio, ma anche di prossemica: muoversi, fermarsi, scegliere di dare feedback individuali, di gruppo, di classe, può fare la differenza.

Ma il ritmo è anche questione di persone: cambia e cresce con l’età dei ragazzi. Lo stesso si può dire degli strumenti, nessuno strumento è neutro, vanno calibrati, meditato e adattati al contesto, sono un mezzo non un fine, eppure senza una pluralità di strumenti, frecce nella faretra, difficilmente si arriverà al bersaglio, che non è una performance o un prodotto, bensì il processo. Se non avessi imparato a osservare e valutare gli sforzi, i miglioramenti, il percorso di ciascuno e di classe, la paginetta corretta di Mashed, scritta dopo tre anni tutta da solo, sarebbe rimasta per me sempre un testo elementare di poco conto. Invece quel testo è figlio di un percorso ben preciso al cui inizio c’erano due righe sgrammaticate, seguite da tanto lavoro di lettura, di accompagnamento, di lezioni di scrittura. Solo osservando questo percorso è possibile leggere quella paginetta per quello che è: un obiettivo pienamente raggiunto dal quale partire, sul quale costruire un nuovo progetto di apprendimento.

Ecco, la scuola secondaria di primo grado è piena di storie di questo tipo, di possibilità di questo tipo: ho imparato davvero a lavorare e osservare il percorso e a mettere in secondo piano la performance.

Ci vuole un villaggio

Afferma un proverbio africano: per fare un bambino ci vuole un villaggio, credo che si possa dire lo stesso di un insegnante. Non siamo da soli a scuola, lo sappiamo tutti: insegniamo in un sistema e dobbiamo lavorare anche per mantenerlo armonico, il che significa mediare, accettare e discutere le idee con gli altri, chiarirsi sulla personale visione di scuola e trovare un punto di incontro. Quando vivi nella complessità la puoi affrontare solo se non generi altre com, ma costruisci un team di docenti compatto e disposto a mettersi in discussione e questo ha a che fare con la relazione che ciascuna scuola vuole instaurare. Nella mia esperienza significa: sostenerci tra colleghi, passare ore a ragionare insieme ridurre ai minimi termini il mantra “mi chiudo in classe e faccio come voglio”, affrontare le questioni e le situazioni, proporre azioni e monitorarle, trovare un punto d’incontro e non schiacciare gli altri con il proprio supposto sapere, essere aperti al mettersi in discussione. E accettare che il cambiamento possa anche muoversi goccia a goccia: se stai bene a scuola, farai bene scuola.

In venti anni di scuola secondaria di primo grado in una scuola di frontiera ho sperimentato e imparato che per costruire un’idea di scuola sono fondamentali le riunioni e i momenti programmati, ma anche la macchinetta del caffè, le uscite, gli spettacoli e gli eventi costruiti insieme, gli aperitivi e le pizze, ma soprattutto lo sforzo di uscire dal proprio orizzonte e considerare gli altri sempre risorse. Per stare insieme si deve fare la fatica di stare insieme.

Per concludere

Ho lasciato volutamente in fondo quello che è stato l’insegnamento più grande, che esprimerò di nuovo con un proverbio: da soli si va più veloci ma solo insieme si riesce ad andare lontano. L’inclusione insomma, che non significa soltanto misure compensative, certificazioni, strategie, significa renderla invisibile, perché prassi quotidiana, azione comune, opportunità per tutti. In concreto: la possibilità di avere persone che apprendono in modo diverso è un’occasione per sperimentare l’altro e noi stessi e per mettere alla prova la nostra capacità. Noi insegnanti abbiamo bisogno di sentirci bravi e non lo siamo tanto per quante occorrenze conosciamo della Commedia, lo siamo per quanto riusciamo a portare tutti a imparare, per gli strumenti che forniamo, per il nostro non arrenderci, per la capacità di apparecchiare la tavola della conoscenza per tutti, per mostrare la nostra passione e il nostro rigore.

Io ringrazio gli studenti che ho incontrato grazie ai quali ho conosciuto la cultura turca, ucraina, cinese, marocchina e pachistana, la CAA (comunicazione alternativa aumentativa), i disturbi dell’attenzione, lo spettro autistico, la schizofrenia, la plusdotazione, la sindrome down, i disturbi specifici di apprendimento e tutte quelle situazioni che mi hanno messo in crisi e imposto di uscire dalla comfort zone. Hanno reso me un’insegnante migliore, una persona migliore.

Questo è lo zaino enorme che porterò con me dalla scuola secondaria di primo grado, la mia terra di mezzo, quella da cui vengono gli Hobbit che sono poi quelli che distruggono Sauron, certo insieme a tutti gli altri.

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