Pier Paolo Pasolini nel cinema (e dintorni). Materiali di lavoro
Angelus novus
Pier Paolo Pasolini, anche in virtù di un caso che nel tempo è diventato uno dei misteri nazionali più dibattuti e inquietanti, è probabilmente il poeta italiano che più è stato rappresentato nel cinema, soprattutto negli ultimi trent’anni. Negli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, c’era stato soltanto un tentativo, peraltro poco visto, di un docufilm cupo, notturno, di Pasquale Misuraca, Angelus novus (1987), presentato a Cannes alla Semaine de la critique, in cui venivano rievocati gli ultimi giorni della vita di Pasolini e, attraverso una ripresa con camera-car, veniva ripercorsa la Roma notturna, fatiscente, barocca, e venivano letti alcuni brani del grande poeta e scrittore. “Il titolo viene da uno scritto di Walter Benjamin su un dipinto di Paul Klee; una citazione, alla quale l’autore fa riferimento, sembra prefigurare il ruolo intellettuale e morale, di osservatore e provocatore, assunto da Pasolini negli ultimi anni. Si parla di un angelo che guarda al passato ma è sospinto verso il futuro; il passato è fatto di rovine, e la tempesta che lo sospinge verso il futuro è, secondo Benjamin, il progresso” (Paolo D’Agostini, La Repubblica, 8 maggio 1987). Misuraca non vi accoglie la tesi del complotto ma crede a una morte casuale, data da “un gruppo di giovani privi di cultura e di senso, giovani che compiono atti gratuiti; che lo incontrano per caso e lo uccidono per gioco”.
Dopo Petrolio
La pubblicazione, nel 1992, del romanzo postumo Petrolio, riaccende i riflettori sul caso Pasolini e sottrae il poeta a un momentaneo oscuramento. È lo stesso Misuraca a produrre con Rai3, nel 1994, un documentario ricco e articolato, Le ceneri di Pasolini. Aperto da immagini quasi psichedeliche di un’aggressione di gruppo all’auto dello scrittore, il film attraversa la vita del poeta con foto e materiale delle teche RAI e si chiude con uno dei finali più belli del cinema pasoliniano e non solo, quella “straziante bellezza meravigliosa del creato” dell’episodio Che cosa sono le nuvole? dal film Capriccio all’italiana (1968). E non è certo casuale che sia l’impegno civile di un regista comeMarco Tullio Giordana, venti anni dopo la morte del poeta bolognese, a riaprire la ferita di quella notte del 1975 rievocando, in Pasolini, un delitto italiano, il processo contro il presunto assassino Pino Pelosi. Basandosi sulla biografia di Enzo Siciliano e supportato da sceneggiatori collaudati come Stefano Rulli e Sandro Petraglia che si servono puntualmente delle carte processuali, Giordana riporta in piena luce il caso, toccando con mano il peso dell’assenza intellettuale e morale di Pasolini e insinuando l’ipotesi di un complotto politico. Il suo film denuncia le indagini approssimative e lacunose condotte nell’immediatezza del fatto; utilizzando immagini di repertorio riapre una lacerazione che non sarà più suturata con l’indifferenza: da quel momento e nei successivi vent’anni il cinema si occuperà del caso Pasolini attraverso una consistente produzione di documentari e film di finzione. Questi ultimi, a cavallo dei due secoli, sono quelli più interessanti, forse più personali, e li gira Aurelio Grimaldi. Il primo, del ’96, è Nerolio, e dà un’immagine di Pasolini assolutamente scomoda e raggelante. Lo scrittore, interpretato da Marco Cavicchioli, è rappresentato negli ultimi mesi di vita, feroce, violento di una violenza morale, quasi nichilista, arrogante con tutta la cultura italiana (“I libri non servono a un cazzo! Sono scritti da degli idioti per altri idioti”); ne esce un ritratto aspro, lontanissimo dall’agiografia, rifiutato alla Mostra di Venezia e molto criticato dalla cerchia degli amici del poeta. Nella parte relativa all’omicidio non c’è nessuna accoglienza della tesi del complotto, anzi il film mostra come lo scrittore provochi Pelosi sfidandolo, quasi avvalorando l’ipotesi di un “suicidio” per delega.
Il senso del progetto Grimaldi
Ma Aurelio Grimaldi è in realtà un devoto di Pasolini, e compie non un’opera di risarcimento, ma un’opera d’illustrazione più completa del personaggio con il film successivo, decisamente lirico, anche questo in bianco e nero. Con Un mondo d’amore (2002), Grimaldi rievoca la cacciata dall’Eden friulano di Pasolini, allontanato dalla scuola italiana e dal Partito Comunista per indegnità morale dopo il noto episodio di Ramuscello. La fuga a Roma con la madre viene narrata in una lunga sequenza molto bella, dove Grimaldi ricostruisce i volti di un’Italia che non c’è più, quell’Italia del dopoguerra tanto amata dal poeta e regista. Grimaldi, tra l’altro, recupera come inserto un prezioso documentario di Valerio Zurlini, La stazione, realizzando un vero e proprio omaggio all’eros pasoliniano. Il dittico di Grimaldi, aldilà di ogni considerazione artistica, ha una sua ragion d’essere in quella trasformazione morale e sentimentale che segna il passaggio da La meglio gioventù (1954) a Nuova forma de La meglio gioventù (1974): Pasolini, riscrivendo alcune poesie casarsesi e facendone una sorta di “palinodìa” (Siciliano), sancisce la scomparsa interiore del “mondo d’amore” giovanile, consegnandosi alla disperazione degli ultimi anni. Le due opere di Aurelio Grimaldi, in una specie di percorso cronologico a ritroso, sembrano adattarsi perfettamente a questo schema.
I documentari
Quanto ai documentari, nel 2000 Andrea D’Ambrosio realizza un prezioso collage di testimonianze friulane nel suo Nel paese di temporali e primule. Pier Paolo Pasolini e la sua terra, recentemente pubblicato in home video, mentre quello di Laura Betti del 2001, Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno, è opera devota con immagini di repertorio che riepilogano i temi ormai noti, il conflitto tra sviluppo e progresso, l’omologazione culturale, lo spirito preistorico delle borgate romane, il cinema come lingua della realtà. Nel 2005 Mario Sesti e Matteo Cerami si servono della voce fuori campo di Toni Servillo per leggere brani tratti da poesie, saggi e interviste di Pasolini mentre scorrono immagini di repertorio di un’Italia scomparsa, o di un’intervista-dialogo tra Ninetto Davoli e lo scrittore dall’affettuoso taglio pedagogico. Il documentario s’intitola La voce di Pasolini ed è un accurato lavoro di missaggio audiovisuale che recupera frammenti di un film rimasto incompiuto, Porno-Teo-Kolossal, che il regista avrebbe dovuto girare nel 1976 dopo anni di sofferta gestazione. Nello stesso anno, prodotto da Rai Trade, esce anche Via Pasolini di Igor Skofic,nel qualeil consueto contributo di interviste e parole viene alternato al percorso stradale che da Roma conduce al luogo di morte dell’idroscalo di Ostia.Molto interessante è senz’altro il primo dei due film di montaggio di Giuseppe Bertolucci, Pasolini prossimo nostro (2006), perché recupera scene girate dal giornalista Gideon Bachmann e foto di scena da Salò scattate dalla moglie di Bachmann, Deborah Beer. E’ un ritratto toccante, a tratti disperato, degli ultimi mesi di vita di Pasolini, una sorta di testamento-intervista in cui il poeta parla dei temi a lui cari nella fase rappresentata da Nerolio di Grimaldi: i giovani destinati dal consumismo a una triste omologazione, con i padri che non hanno più valori da trasmettere.
Il secondo film – del 2008 – è La rabbia di Pasolini che ricostruisce, con le voci dello stesso Bertolucci e del poeta Valerio Magrelli, la versione integrale de “La rabbia”, il film di montaggio assemblato per volontà produttiva da Pasolini (la sinistra) e da Giovanni Guareschi (la destra). Bertolucci recupera un materiale della durata di circa sedici minuti che Pasolini fu costretto a eliminare per l’equilibrio complessivo delle due prospettive opposte. Interessante, quale momento incisivo della parte reintegrata, è il recupero di un bel discorso profetico di Pasolini sulla televisione, definita “assassina dell’anima”.
Il Pasolini di Abel Ferrara
Nel 2014, su sceneggiatura di Maurizio Braucci, Abel Ferrara gira il suo Pasolini, raccontando le ultime ore del regista, interpretato da Willem Dafoe. Il film è lodevolmente lontano da ogni celebrazione retorica, ma risente di una frammentazione narrativa perché sceglie di tradurre in immagini alcune pagine di Petrolio nella parte iniziale e del progetto del Porno-Teo-Kolossal in quella finale. Questi inserti non sono particolarmente efficaci e coesi, ma l’omicidio di Pasolini viene rappresentato in modo plausibile come effetto di un pestaggio omofobo cui non sarebbe estraneo lo stesso Pelosi, forse anche a scopo di rapina. La ricostruzione delle ultime ore di vita è piuttosto accurata, con il ritorno da Stoccolma, la conversazione con Nico Naldini sulla grandezza di Sandro Penna (che avrebbe meritato il Nobel più di Montale), l’ultima intervista rilasciata per La Stampa a Furio Colombo dal titolo “Siamo tutti in pericolo”, la cena con la famiglia di Ninetto Davoli prima dell’incontro con Pelosi.
Verso la tesi del complotto
Due anni prima dell’uscita del film di Ferrara, sulla pista del complotto si era inserito Federico Bruno con la sua opera Pasolini, la verità nascosta, pressoché invisibile perché mai distribuita nelle sale italiane, girata in un bel bianco e nero e interpretata da Alberto Testone, un odontotecnico molto somigliante al poeta. Bruno ricostruisce con filologica attenzione l’ultimo anno di vita di Pasolini, servendosi della nuova testimonianza di Pino Pelosi, ormai propenso a rivelare la dinamica dell’omicidio senza però indicare nomi per non violare i codici ferrei e rischiosi della malavita romana. La direzione presa da Bruno viene confermata e arricchita da David Grieco, che nel 2016 presenta il suo La macchinazione e lo fa interpretare da Massimo Ranieri, che era stato “scartato” proprio da Federico Bruno nel film del 2012. Grieco contestualizza il delitto nella “strategia della tensione”, e accogliendo i nuovi elementi emersi nelle pubblicazioni di quegli anni fa di Pasolini lo scrittore vicino a cogliere la verità di omicidi e stragi degli anni Sessanta e Settanta, individuando nella P2 di Eugenio Cefis e nelle sue interrelazioni con politica, servizi segreti, uomini del Vaticano e della malavita romana (come la banda della Magliana) le responsabilità di una linea di sangue che collega la morte di Enrico Mattei, Mauro De Mauro e altri alle stragi di Milano, Brescia, Bologna fino al massacro di Pasolini. Insomma, un “delitto di stato” mai realmente indagato, un caso pilotato fin dall’inizio verso il “fidanzato” dello scrittore e un omicidio realizzato addirittura di fronte a una “folla” di testimoni ovviamente minacciati e messo in atto da almeno cinque persone, due automobili e una moto. Grieco è assai convincente nel commentare la genesi della sua opera e negli articoli appassionati apparsi sulla testata web “Globalist syndication”; lo è meno, nonostante una interpretazione misurata di Ranieri, nel suo film, che appare spesso didascalico e un po’ schematico nella ricostruzione non solo della complessa macchinazione, ma anche del rapporto tra Susanna Colussi, la madre, e il figlio Pier Paolo, ormai pressoché certo del destino che lo attende.
Una (im)possibile ricerca di verità
Da questa cospicua rassegna di rappresentazioni pasoliniane emerge la forza assoluta di un’assenza prepotente, spesso la volontà di restituire un ritratto umano mite e affettuoso, violento solo nella protesta disperata contro lo Sviluppo divorante sponsorizzato da un Potere cinico e nascosto, ma soprattutto un’ansia di verità che attraversa tutte le ipotesi sul mistero Pasolini, ormai a buon diritto l’ennesimo di quella sciagurata stagione italiana. Tra il Pasolini di Giordana e quello de La macchinazione di Grieco, passando per il più eccentrico e contestato Nerolio di Grimaldi, la tensione alla ricerca civile e giudiziaria della verità si propaga lasciandoci ancora inquieti e inappagati. Del resto Pasolini lo aveva anticipato, profeticamente, nelle parole che Totò/Iago dichiara all’ignaro Ninetto/Otello nel corto Che cosa sono le nuvole?: “La verità non bisogna nominarla perché, appena la nomini, non c’è più”.
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Pier Paolo Pasolini è stato un tipico rappresentante – forse il maggiore – della cultura antimodernista che, sotto vari emblemi e diverse forme, vigoreggia nel nostro paese e che, non per caso, intorno a lui ha costruito un vero e proprio culto, come è dato notare anche nelle tonalità problematiche e contraddittorie che caratterizzano questo articolo. Con le sue radici ben affondate negli anni Cinquanta, ‘età d’oro’ di quel mondo popolare premoderno puro e incorrotto posto ai confini tra le borgate e la campagna, e da lui sempre vagheggiato, lo scrittore friulano elevò a paradigma antropologico e poetico un sogno personale che nasceva dalle sue “buie viscere”, esprimendo, in nome di quel paradigma, una negazione, tanto impietosa quanto disperata e tanto accusatoria quanto nostalgica, di tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, dai moti del Sessantotto, allorquando esaltò i poliziotti “figli del popolo” e denigrò gli studenti “figli di papà”, al ‘doppio potere’ incarnato dal Palazzo, di cui còlse, con simpatetica intuizione, il volto demonìaco e perverso. La sua opera di poeta, di romanziere, di critico e di regista cinematografico, tra le “Ceneri di Gramsci” e la “Religione del mio tempo”, tra “Ragazzi di vita” e una “Vita violenta”, tra la rivista “Officina” e il film “Accattone”, ebbe sempre come oggetto e come soggetto lo stesso mondo di esperienze e di memorie, un ‘tempo perduto’ trasfìgurato miticamente in elegia e in tragedia. Uomo di successo, ‘compagno di strada’ del Partito Revisionista Italiano in cui vedeva, sospinto da un populismo romantico e decadente, una sorta di ‘città di Dio’ operante su questa terra, intellettuale raffinato cui piaceva giocare a pallone con i ragazzini, sempre, come ìndicano i titoli delle sue stesse opere, alla ricerca della Vita, diventò con il suo indimenticabile ‘j’accuse’ al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, lui che ebbe a definire sé stesso “riformista luterano”, la coscienza critica del nostro paese nella prima metà degli anni Settanta. In questo paese che, dopo decenni di pesante arretratezza, di bolsa retorica imperiale e di sostanziale provincialismo, con la liberalizzazione degli scambi, l’avvìo dell’integrazione europea e il ‘boom economico’ cercava una via di sviluppo all’altezza dei tempi e si sforzava di coniugare modernizzazione e modernità, Pasolini assunse la parte del fustigatore dei peccati del mediocre consumismo italico. Se Marx avesse potuto conoscere la polemica pasoliniana contro la “nuova cultura” e contro i tratti criminali e criminogeni della “mutazione antropologica” indotta dal consumismo, avrebbe classificato il suo autore tra gli esponenti del “socialismo feudale”, categoria che annovera nella letteratura del Novecento non pochi esemplari di alto livello: da Eliot a Pound, da Gide a Céline. Riascoltando certe interviste rilasciate da Pasolini, è difficile non avvertire ancora una volta, in quella voce sottile e quasi in falsetto, un colore di morte, l’equivalente fonetico di una vicenda tragica, prodotto di una pianificata confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza. A quasi mezzo secolo di distanza dalla fine che concluse tale vicenda, se esitiamo a comprendere che essere orfani è la condizione per diventare adulti e che la elaborazione di quel lutto non è ancora terminata è anche perché dubitiamo di conoscere la risposta alla domanda che, nella chiusa della lunga poesia sulle “Ceneri di Gramsci”, il testimone, il profeta e, da ultimo, la vittima di quel destino pose a se stesso e a tutti noi: “Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?”.