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diretto da Romano Luperini

Referendum, amministrative, partiti e … classi

Vorrei fare  – come si diceva un tempo – “la prova del 9”, misurando la lettura presentata nel blog un anno fa il 10.6.2021 (“Classi e partiti, oggi”), con gli altri due “vertici” di osservazione: l’esito dei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai radicali, associati in maniera politicamente subalterna, e delle amministrative, che erano legate inevitabilmente nell’election day del 12 giugno. L’effetto di trascinamento vi è sicuramente stato: le punte più alte di elettori si sono verificate dove si votava per le amministrative; ma tale effetto non è stato sufficiente di fronte al prevalere dell’astensionismo, che è il vero vincitore della tornata elettorale. L’istituto referendario, l’unico strumento di democrazia “diretta” del nostro ordinamento insieme alle più farraginose leggi di iniziativa popolare, ha raggiunto il minimo storico, attestandosi al 20,94% dei votanti, molto al di sotto del 50% necessario al quorum. Possiamo compiacerci del risultato, che batte i soliti intenti manipolatori della Lega lepenista di mestare nel torbido. Molti elettori democratici – come chi scrive – hanno sfruttato l’espediente del mancato quorum per far fallire il tentativo di Salvini di condizionare il Parlamento sulla cosiddetta “riforma della giustizia”.  Comunque per un altro verso dobbiamo registrare un ulteriore deterioramento del quadro democratico complessivo della Repubblica, seconda o terza che sia, con l’inefficienza dell’istituto referendario. Rimane il dato che hanno votato circa dieci milioni di elettori e si tratta di voti veri, non dei sondaggi su cui si alambiccano leader dei partiti e politologi degli inutili talk show. Per altro i sondaggi svolti subito dopo il voto confermano le tendenze uscite dalle urne.

I referendum sulla giustizia erano evidentemente strumentali, finalizzati a mettere al riparo un ceto politico screditato dai rigori delle “leggi anticorruzione” e per niente orientati a risolvere i problemi della giustizia lenta italiana, che penalizza i cittadini e i possibili investitori nel nostro paese. Infatti i primi tre quesiti referendari aspiravano a rendere inutilizzabile la legge Severino e l’incandidabilità dei politici condannati, a ridurre i termini della carcerazione preventiva e a introdurre la cosiddetta separazione delle carriere dei giudici. Gli ultimi due ponevano problemi tecnicistici relativi al funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura senza incidere per nulla sullo scandalo correntizio, da cui è stato travolto negli ultimi tempi. Gli elettori che hanno votato NO si sono concentrati in ordine decrescente sui primi tre quesiti (rispettivamente 45,91% dei no sull’incandidabilità dei condannati; 43,70% sui termini della carcerazione preventiva; 25,73% sulla separazione delle carriere). Tra l’altro occorre notare che il cosiddetto centro-destra, pur dichiarandosi nel suo complesso tiepidamente a favore dei referendum, nella pratica ha lasciato l’onere della campagna elettorale a Salvini, la cui leadership continua a buscare mazzate dal Papete in poi a tutto vantaggio della ala neo-fascista dello schieramento, capitanata dalla Meloni.

Pur tenendo conto che da noi le amministrative non sono una tornata elettorale di midterm come accade negli USA e altrove e che gli elettori privilegiano le scelte di chi è chiamato ad amministrare nel concreto il proprio comune, alcune indicazioni emergono chiare dal voto. Innanzi tutto la frequenza dei votanti segna ancora percentuali di astensionismo levato (inferiore al 55% su scala nazionale con un crollo generalizzato da Nord a Sud di 5 punti percentuali rispetto alle amministrative precedenti), segno che vi è un deficit del sistema politico, il quale non è in grado di intercettare i bisogni dei cittadini. I risultati ottenuti nei quattro capoluoghi di regione assegnano una prevalenza  al centro-destra, che appare in grado di vincere quando si presenta insieme. Prevale a Genova, L’Aquila e a Palermo, solo Catanzaro va la ballottaggio. L’unità del centro-destra sembra essere obbligatoria, se tale schieramento vuole affermarsi nelle elezioni politiche del 2023, ma non gode di buona salute, come pretendono le dichiarazioni dei suoi leader. Infatti lo schieramento si è diviso 5 capoluoghi di provincia su 26, che sono andati al voto. Analoga considerazione in peggio vale per il PD e il M5S, che hanno corso divisi in 14 capoluoghi di provincia su 26.

Insomma gli schieramenti politici rimangono caratterizzati dall’incertezza come un anno fa, cosa dovuta alla scarsa rappresentatività delle classi sociali in campo. La grande borghesia imprenditoriale (né quella europea, né italiana) si riconosce nello schieramento “conservatore”, definizione usata come foglia di fico dalla Meloni per nascondere le proprie tendenze neo-fasciste, mai auto-criticate. Il giornale confindustriale ha più volte sottolineato l’inaffidabilità della “classe dirigente” meloniana, che pure si sbraccia a dichiararsi atlantista ed europeista. Dall’altra parte le forze del lavoro non si riconoscono né nel PD, né nella sua associazione con il M5S. Nell’ultimo anno l’instabilità del quadro politico si è ancora di più accentuata. Infatti il primo livello di torsione del sistema, che avevo indicato nel ventilato passaggio di Draghi al Quirinale, è stato risolto in modo istituzionalmente irrituale, con il secondo mandato sine die del povero Mattarella. La soluzione tecnocratica ha buone probabilità di riproporsi, anche dopo le elezioni del 2023, se diamo credito alle dichiarazioni di Calenda, che esprime di più le istanze della borghesia imprenditoriale, soprattutto se l’esito elettorale sarà incerto come sembra indicare il risultato delle amministrative e la successiva conferma nei sondaggi: i due schieramenti, secondo “You trend”, sono divisi da mezzo punto percentuale (centro destra 42,3% ; “campo largo” PD-M5S  41,8%); i due partiti che riscuotono più consensi, quello della Meloni e quello di Letta, nei sondaggi immediatamente successivi al voto sono distanziati dall’1,1% (FdI 22,5%; PD 21,4%). Il PD può vantare di essere il primo partito nei comuni con più di 15.000 abitanti con il 17,2% contro il 10,3%  di FdI, confermando che i consensi al PD vengono in prevalenza dai ceti medi urbani.  A ciò si aggiunge la leadership concorrenziale a destra e le batoste elettorali ingravescenti, collezionate da Salvini, mentre in casa leghista si stanno già affilando i coltelli per una resa dei conti interna con l’ala filogovernativa di Zaia e di Giorgetti. Sull’altro versante il “campo largo” di Letta non trova interlocutori utili al “centro”: non sembrano disponibili né Calenda né Renzi, le cui aspirazioni a risultati a due cifre sembrano deluse (negli stessi sondaggi post voto Azione raccoglie il 4,9% e Italia Viva non si scolla dal 3% ). In più l’oscillazione, tipicamente piccolo-borghese, dei 5S dopo il tonfo elettorale è giunta in questi giorni al parossismo con la scissione di Di Maio, in atto mentre scrivo queste righe, o peggio ancora con possibili polverizzazioni autodistruttive. Sarà necessario valutare a freddo gli esiti della scissione sul “campo largo” di Letta. Si è confermato il pronostico, fatto più volte sulla spaccatura del M5S. Si tratta di valutare se la scissione prodotta da Di Maio, che nella sua prima dichiarazione è corso a professarsi atlantista, europeista, antipopulista, rafforzerà o meno il “campo largo”. Tutto questo sembra portare ad una vecchia idea di Carlo Levi che l’Italia è “un paese di piccola-borghesia”, segnato da uno statalismo, che ha avuto nel fascismo “la più completa affermazione”. Se vi è uno spazio a sinistra oggi è un aperto riferimento alla massa di lavoratori e di democratici delusi, che gonfiano le file dell’astensionismo, ma un Mélenchon italiano capace di questo non si intravvede all’orizzonte.

L’ultima previsione, che avevo fatto un anno fa, è che lo scontro tra i vari interessi di classe sarebbe continuato sotto la coperta di Draghi. Portavo come esempio la riforma della giustizia. L’esito dei referendum e la loro insignificanza sul dibattito parlamentare per la cosiddetta riforma Cartabia ne è la conferma più evidente. Cito l’opinione di Domenico Gallo, esponente di spicco del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e del Comitato per il NO: “l’obbiettivo principale è burocratizzare la magistratura e trasformarla in un corpo di funzionari guidati dal conformismo”, dunque obbedienti agli interessi costituiti. Si tratta di un percorso “riformatore” simile a quelli che hanno portato all’”aziendalizzazione” del sistema sanitario prima e di quello scolastico poi, cioè l’asservimento delle principali istituzioni pubbliche al pensiero unico tecnocratico. Ciò fa il paio con un nuovo governo Draghi e con i venti di guerra, che spirano sull’Europa e che possono favorire le sempre presenti tendenze autoritarie in atto nel nostro paese.

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