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Equo canone. Ovvero del canone letterario a scuola/4 Tre domande a Massimiliano Tortora

A cura di Luisa Mirone

Rispetto all’insegnamento della letteratura italiana, le Linee guida nazionali per gli istituti tecnici e professionali e le Indicazioni nazionali per i Licei, pur nella diversificazione dei curricula, sono a tutt’oggi storicamente orientate. Dentro questo percorso storicoletterario, vengono privilegiati, talvolta in modo rigorosamente prescrittivo, alcuni autori, tradizionalmente presenti nel canone, rispetto ai quali, nei tempi contingentati dell’insegnamento scolastico, le aperture al Novecento o all’estremo contemporaneo assumono i connotati sfumati di suggerimenti o sollecitazioni. I docenti e le docenti di letteratura italiana si trovano pertanto oggi nelle stesse difficoltà di coloro che ebbero insegnanti quand’erano fra i banchi; né è bastata a risolverle (semmai le ha amplificate) la “riforma” che ha imposto l’anticipazione della trattazione della cosiddetta letteratura delle origini al secondo anno del biennio. Abbiamo chiesto pertanto a studiosi e studiose vicini e vicine al mondo della scuola di rispondere a tre domande-chiave per provare a ridefinire non tanto i confini, quanto i parametri del canone scolastico. Pubblicheremo a settimane alterne le loro risposte. Sono già uscite quelle di Silvia Tatti, di Riccardo Castellana e di Giancarlo Alfano.

D1: Ha scritto Cesare Segre (Critica e critici, Torino, 2012): «la filologia è proprio lo sforzo di capire; e la continuità geografica e storica ci fornisce strumenti abbastanza efficienti per seguire gli sviluppi del modo di significare ed esprimersi delle manifestazioni artistiche».

Ritiene che la storia della letteratura sia ancora oggi, a scuola, uno strumento valido per l’approccio ai testi, uno strumento ancora capace di coniugare insieme appartenenza e scarto, contiguità e distanza, identità e alterità?

R1: La storia letteraria non è un dogma: in molti paesi non viene insegnata e si predilige ad esempio l’insegnamento monografico, come in Francia in cui ci si concentra su pochi autori, a scelta del docente, partendo magari dal Novecento, che presenta un’enciclopedia e un vocabolario più accessibili; mentre altrove, come in Gran Bretagna, l’insegnamento della letteratura sconfina (o è fagocitato da, a seconda dei punti di vista) nell’educazione linguistica. Pertanto la storia letteraria è in primo luogo una scelta. E credo che in Italia sia una scelta doverosa, non perché astrattamente più efficace (o non solo per questo), ma perché parte integrante della nostra cultura. Per tanti motivi, soprattutto di ordine storico e politico, la letteratura italiana, da De Sanctis in poi, si è configurata come un racconto storico, il cui obiettivo primario – dico cose note – era quella di formare una coscienza civile e nazionale. Ebbene, un secolo e mezzo di questa pratica didattica ha reso l’insegnamento storico-letterario una declinazione naturale del nostro stare in classe e del nostro rapportarci a romanzi, poesie e opere letterarie in genere. Si tratta in primo luogo del nostro costituirci e costruirci come membri di questa comunità. È una delle poche pratiche collettive. Ricordava acutamente Franco Brioschi negli anni Ottanta, ne La mappa dell’impero, di come la lettura di certi testi sia ormai un rito: ogni anno le studentesse e gli studenti di circa 28000 classi leggono durante il loro ultimo anno L’infinito di Leopardi (anche ora, che sarebbe anticipato – per chi ha la forza – al quarto anno), la Prefazione del dottor S. ne La coscienza di Zeno, I fiumi di Ungaretti, ecc. Questo rito collettivo, praticato secondo una scansione cronologica, continua a essere una parte identitaria della nostra comunità.

Data questo postulato di partenza, i vantaggi dell’insegnamento storico-letterario sono notevoli e sono in parte già impliciti nella domanda che è stata posta. Innanzitutto si agevola la comprensione di come la storia – vichianamente parlando – sia un continuo ribaltamento di tradizione e innovazione, classicismo e sperimentalismo, ritorni all’ordine e fughe in avanti. Ma queste dinamiche – e i manuali con l’impianto storicista più solido lo ben evidenziano – non sono tutte interne al campo letterario, ma risentano, interagendovi dialetticamente, delle vicende storiche e sociali. La letteratura non è mai solo la pagina scritta, ma un grumo di tensioni, che spesso sono anche extraletterarie; comprenderla vuol dire comprendere come ogni situazione storica sia il frutto della precedente. E la letteratura, spesso, è uno strumento privilegiato, soprattutto per le generazioni più giovani, e talvolta più efficace della storiografia (a sua volta più efficace su altri piani). In questo senso la letteratura, declinata in senso cronologico, consente davvero di comprendere la profondità storica, e di mandare in soffitta le proposte di appiattimento unidimensionale e di eterno presente, che qualcuno con troppa disinvoltura ha proposto in passato.

Ma la letteratura è anche un allenamento alla complessità, e al confronto con il testo: questo, credo, si debba intendere con filologia. E certamente la filologia è la disciplina che si occupa dei problemi ecdotici, ma in un senso più ampio – soprattutto a scuola – deve essere intesa come rispetto della lettera del testo. E questa esigenza è tanto più forte ora, che la rete e la sua proliferazione facilmente corrompono il dettato delle opere e indebolisco lo statuto testuale.

D2: Secondo Remo Ceserani «Il nostro compito critico e storiografico prioritario è proprio la ricognizione e la ricostruzione dei sistemi tematici e formali, nella consapevolezza che è proprio nella diversa costituzione di quei sistemi che l’immaginario rivela la sua capacità di raccordo con i movimenti profondi della società, le sue strutture economico-sociali, materiali, culturali, linguistici» (Guida breve allo studio della letteratura, Bari-Roma, 2003).

Esaurita da tempo la funzione delle narrazioni storicoletterarie sul modello desanctisiano, è possibile, a suo avviso, proporre agli studenti e alle studentesse delle scuole superiori di percorrere la letteratura attraverso itinerari tracciati dai grandi temi e dai generi? E, eventualmente, quali temi indicherebbe?

R2: Personalmente, per i motivi esposti nella prima risposta, non credo che sia esaurita la funzione delle narrazioni storicoletterarie sul modello desanctisiano; anzi proprio il fatto che più d’uno lo sostiene è un motivo in più per rivendicarne l’esigenza. Poi è chiaro che il nostro rapporto con la totalità, anche quella storicoletteraria, è cambiato e non può più essere quello del secolo scorso. Ed è altrettanto chiaro che un rigido impianto desanctisiano necessita di classi che riconoscono prestigio all’atto letterario.

Oggi questo prestigio è perduto, e il testo letterario gode (spesso) di scarsa o nulla autorità: deve in qualche modo giustificarsi. La via tematica è uno strumento – come detto da molti – per riavvicinare l’opera al vissuto delle giovani generazioni. Il lungo dibattito sul concetto di “riappropriazione”, che ha interessato la didattica liceale degli ultimi anni, ha fatto leva proprio su questi aspetti: i grandi temi consentono di mostrare agli/alle adolescenti che quell’opera parla anche di loro. Ma c’è un rischio: quello dell’appiattimento. Per questo motivo ritengo che il più delle volte la scelta tematica debba rimarcare le differenze dell’immaginario collettivo dei secoli passati dall’epoca attuale. Quando Dante incontra Beatrice in Tanto gentile e tanto onesta pare non descrive un’emozione simile a chi, a sedici anni, incontra improvvisamente nel corridoio di scuola la persona che desidera. L’approccio tematico deve rimarcare proprio questa distanza; ed è così che anche l’approccio tematico diventa una possibilità di educare alla profondità storica, oltre che una palestra per mostrare come la letteratura si occupi sempre delle grandi questioni attorno a cui tutti ci arrovelliamo.

E in questo modo ho risposto anche all’ultima parte della domanda. I temi da privilegiare sono quelli universali: l’amore, la morte, l’amicizia, l’esclusione, il rapporto con i padri e le madri, il disprezzo per il potere, ecc. Sono i temi che ci sono a cuore quando abbiamo sedici anni, come ci sono a cuore oggi, che di anni ne abbiamo drammaticamente di più.

D3: Nel corso di un importante seminario nazionale di formazione (COMPITA, Tivoli, 2015) cui prendevano parte docenti di circa cinquanta scuole secondarie d’Italia, Romano Luperini, invitato, con altri notissimi studiosi, a esprimersi sul canone scolastico, lanciò ai gruppi di lavoro una sfida: individuare dieci autori (e dieci opere) imprescindibili della letteratura italiana che potessero costituire una sorta di canone essenziale ed esemplare. Non si trattava di salvare il salvabile, ma di individuare quali voci – tra quelle già consegnate alla tradizione nazionale – fossero ritenute capaci di dialogare con l’Europa, di rappresentare l’Italia entro una più ampia (e oggi più che mai necessaria) dimensione europea. Fu una prova molto difficile, e non se ne venne a capo.

Le proponiamo la stessa sfida, ampliando la rosa a quindici nomi e motivando le sue scelte.

R3: Anche con quindici nomi non se ne viene a capo. È sufficiente un calcolo matematico: si tratta di cinque autori l’anno, mentre – anche con le note ristrettezze di tempo – ogni insegnante può aspirare a spiegare una rosa più ampia.

Ma la posta in gioco vale l’esperimento. Se togliamo il Novecento i quindici nomi sono: Dante, Petrarca, Boccaccio; Machiavelli, Ariosto, Tasso; Galilei; Goldoni, Parini e Alfieri; Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pascoli e d’Annunzio. Si tratta degli autori (tutti uomini, e questo fa già crollare il ragionamento) che ormai si sono imposti e cristallizzati nel canone letterario.

Ma poi rimane tutto il Novecento, a sua volta frazionabile in parti. Per la prima metà credo che non si possa non puntare su Svevo e Pirandello per la narrativa, e su Montale e Saba (più L’allegria di Ungaretti) in poesia.

E infine rimane il secondo Novecento, il grande escluso. Ma qui deve agire un discorso di metodo, più che di nomi. È assolutamente inutile cercare di offrire una panoramica di più autori, che alla fine rischia di diventare una selva di nomi assolutamente impraticabile. Tanto vale selezionare e individuare quei nomi che con il loro percorso letterario hanno toccato i nodi e le svolte dell’Italia repubblicana. E volendo stare al gioco proposto da Laletteraturaenoi (le cui regole ho colpevolmente e consapevolmente infranto) mi sbilancio. Per quanto riguarda la prosa, Calvino, che ha attraversato tutte le fasi dal ’45 all’85m può essere un’utile sintesi: si è cimentato con la letteratura resistenziale (Sentiero dei nidi di ragno, e dunque la fase che va dal ’45 al ’55: Metello di Pratolini ad esempio), poi con il realismo speculativo (La speculazione edilizia e La giornata d’uno scrutatore ad esempio); dopo è passato per l’antiromanzo (Città invisibili), prima di inaugurare il postmoderno (Se una notte d’inverno un viaggiatore). Con quattro testi (brani dalle opere di Calvino citate) si possono toccare tutti i nodi nevralgici del secondo Novecento. Attenzione: non si tratta in questo caso di dire che Calvino “è più bravo” di Morante, Gadda, Fenoglio, Pasolini, Ginzburg, ma solo di evidenziare una possibile efficacia didattica (che magari altre colleghe e altri colleghi possono individuare in un altro autore, o in autori differenti). In ogni caso occorre liberarsi dal dogma del “chi” (quale autore privilegiare?) per addentrarsi nel problema del “cosa” (cosa evidenziare del secondo Novecento). Calvino – ma è una proposta tra le altre – è un autore che può mostrare “cosa” è stato il secondo Novecento, da un punto di vista letterario e culturale.

Per la stessa ragione ricorrerei a Vittorio Sereni in poesia, la cui centralità nel canone è peraltro oggi indiscussa. Sereni con Gli strumenti umani ha scritto il libro che Montale avrebbe potuto/dovuto scrivere e che non è riuscito a fare: in qualche modo ha raccolto l’eredità lasciata da Le occasioni e da La bufera e altro. Le sue due ultime raccolte (Gli strumenti umani e Stella variabile) consentono di seguire quella strada del classicismo moderno (o di eredità del modernismo) che innerva il nostro miglior secondo Novecento. Anche in questo caso il “chi” conta meno del “cosa”: ciò che ci deve interessare, all’interno dell’aula scolastica, è mettere le giovani generazioni nelle condizioni di poter leggere una poesia italiana che ha saputo mantenere il grande stile e al tempo stesso si è confrontata con le tensioni sociali e storiche: è stata davvero contemporanea al suo tempo. E se lo è stata negli Sessanta-Ottanta può esserlo anche oggi: magari qualche studente e qualche studentesse potrebbero pensarlo.

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