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diretto da Romano Luperini

Perché leggere Cavalleria rusticana di Giovanni Verga

Perché riporta in scena la tragedia (e la riflessione sui generi teatrali)

La commedia Cavalleria rusticana è in un atto e svolge delle scene della vita siciliana. Si tratta d’una giovane che è stata sedotta da un giovane e che, accortasi che l’amante suo fa la corte ad una donna maritata, lo denunzia al marito tradito. Questi si vendica uccidendo il corteggiatore della moglie. Il dialogo, ritradotto schiettamente del vero, il «color locale» indovinatissimo, dànno al pubblico un’impressione profonda di verità. (…) Il lavoro è assolutamente teatrale, assolutamente scenico. (…) Non c’è niente di letterario, di romantico. La retorica è al tutto bandita. Cavalleria rusticana promette nel Verga un autore drammatico vero e potente.

(Eugenio Torelli-Viollier, Il Corriere della sera, 15 gennaio 1884)

Com’è noto, Verga scrive il dramma Cavalleria rusticana [1] nel 1883, ricavandolo, non senza significative variazioni, dalla novella omonima pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita dei campi. Ha già pubblicato I Malavoglia e frequenta un ambiente culturale prestigioso, che, praticamente all’unanimità, lo sconsiglia di mettere in scena l’opera: Boito, Gualdo, perfino Treves, il suo editore, gli profetizzano un fallimento. Verga ha dalla sua il solo Giacosa e, forte del suo sostegno – e di Eleonora Duse nei panni di Santuzza – l’opera va in scena al teatro Carignano di Torino nel gennaio del 1884. È un successo clamoroso: Verga viene addirittura chiamato alla ribalta al termine della rappresentazione, alla quale seguiranno molte repliche in molte città, anche francesi, e la celeberrima riduzione del testo in un libretto d’opera (di Menasci e Targioni-Tozzetti) che avrà la musica di Mascagni (e il lungo strascico di una sgradevole vicenda giudiziaria per i diritti d’autore). Cosa seduce il pubblico borghese e benpensante dell’Italia a teatro? Eugenio Torelli-Viollier, due giorni dopo il debutto, sulle colonne del Corriere della sera spiega le ragioni del successo alla maniera che si è letta in apertura. Al testo drammatico in quanto tale la recensione riserva uno spazio molto ridotto: quello che abbiamo riportato. Per il resto, l’attenzione sembra concentrarsi quasi esclusivamente sulla dimensione sociale della messa in scena: quanto fosse pieno il teatro, dove fosse Verga mentre si svolgeva la rappresentazione, quale la commozione degli spettatori alla esecuzione accurata della signora Duse. Il giornalista punta a esorcizzare le novità dell’opera e a ridimensionarne la portata entro i limiti di una commedia dal color locale. La qualità del lavoro verghiano – insomma – risiederebbe nella ritraduzione del vero: un vero che è tale perché riproduce scene della vita siciliana, non altro. Il pubblico educato e politicamente corretto della Torino postunitaria si impressiona di tanta inaudita brutalità rappresentata senza retorica, senza niente di romantico, addirittura freme e piange di fronte alla catastrofe preveduta; e Torelli-Viollier lo rimanda a casa quasi lusingandolo per aver versato lacrime, gratificandolo con il riconoscimento della sua grande sensibilità. Ma se anche volessimo perdonare al recensore (e al suo pubblico) l’uso ancora incerto e difettoso degli strumenti di interpretazione del verismo, mai potremmo assolverlo dal peccato di omertà e omissioni commesso nel riassumere la vicenda. Ripercorriamola più onestamente.

In un piccolo villaggio, il giorno di Pasqua, Santuzza, una povera orfana, si reca a casa della Gna’ Nunzia, proprietaria di una bettola. Le chiede notizie del figlio, Turiddu, il giovane del quale è innamorata e che le ha tolto l’onore (sV, p.137). Alla madre, così come a Santuzza, Turiddu ha mentito: ha detto di doversi mettere in viaggio per acquistare del vino per l’osteria e invece ha trascorso la notte a casa di Lola, la donna con cui prima d’andar soldato, si parlavano (sI, p.130) e che, al ritorno dal servizio di leva, Turiddu ha trovato invece sposata al vetturale Alfio. Il carrettiere, sempre in giro per lavoro, la moglie la vede soltanto a Pasqua e a Natale (sI, p.128), ma, ricco com’è, non le fa mancare nulla, e la tiene come la Madonna sull’altare, con il collo e le mani cariche d’oro (sII, p.134). Turiddu, indispettito, ha preso dunque a frequentare Santuzza, per ingelosire l’innamorata di un tempo. E Lola ha ceduto ma, a differenza di Santuzza, che non osa entrare in casa di Nunzia né tanto meno in chiesa, ostenta fedeltà coniugale (Lasciatemi stare che son di mio marito, I, p.130), mentre nascostamente continua la relazione con il giovane. Santuzza, che si sente ormai perduta (i miei fratelli quando lo sapranno m’ammazzano colle sue stesse mani, sI, p.130), supplica Turiddu di risparmiarle almeno quest’altro affronto: vedersi preferita quella donna (sIV, p.136), che, senza pudore, si reca alla funzione pasquale nella certezza di incontrarvi l’amante. Ma la reazione di Turiddu è violenta (Tu piuttosto! Vuoi farmi l’affronto di mostrare a tutto il mondo che non sono padrone di muovere un passo, sIV, p.136) e Santuzza, disperata, incontrato casualmente Alfio, che si affretta a raggiungere la moglie all’uscita dalla messa, gli rivela la tresca, in un impeto vendicativo scevro di sollievo (non mi ringraziate, ché sono una scellerata, sV, p.138). Alfio allora, recatosi all’osteria, dove la gente del villaggio brinda alla Pasqua, chiamato in disparte Turiddu, gli lancia la sfida. Turiddu non si sottrae: si batterà, consapevole di aver torto, ma deciso ad ammazzare Alfio, per non lasciare in mezzo alla strada Santuzza, verso cui sente di avere un debito di coscienza  (sVI, p.140); e, abbracciata un’ultima volta la madre, si reca fuori dal paese per l’appuntamento che gli sarà fatale. Al grido lancinante di una popolana (e non dei monelli del paese, come vorrebbe Viollier) che ne annuncia la morte, due carabinieri corrono ad arrestare l’omicida.

Difficile, dunque, liquidare l’opera come dramma della gelosia o quadretto di genere; difficile anche sostenere fino in fondo che la vicenda aggiunga semplicemente, allo schema del triangolo adulterino caro al dramma borghese, quella dose di istinto e passione che, scacciata dalla porta dei salotti eleganti, rientra dalla finestra sotto al travestimento rustico e siciliano: al folklore Verga dovette sicuramente fare qualche concessione, alla quale probabilmente dovette una parte del successo di allora; ma non basta a spiegare la forza sconvolgente dell’opera. Verga piuttosto reintroduce sulla scena la tragedia, la tragedia “pura”, quella che non lascia scampo, quella che rappresenta, senza possibili soluzioni o accomodamenti, le lacerazioni di un popolo, di un’epoca, di una civiltà. E quanto l’operazione potesse fare paura, più che dalle nostre letture ex post, risulta evidente dalle parole prudenti di Torelli-Viollier, soprattutto se messe in relazione con quelle coraggiose e severe di Giacosa, apparse sulla Gazzetta piemontese  del 13 gennaio 1884, alla vigilia del debutto. In questo articolo notissimo (che meriterebbe di essere riletto per intero), ben lontano dal lusingare il pubblico, Giacosa piuttosto lo ammonisce:

Domani sera al teatro Carignano sarà rappresentato un lavoro drammatico di G. Verga. È questo un fatto artistico di grande importanza e il mondo letterario di tutta Italia ha gli occhi su di noi. (…) Egli scelse l’ambiente rusticano perché i congegni della vita vi sono assai meno complicati, ed è quindi meno temerario il tentare di metterli in azione rinunziando ai vieti amminicoli della tradizione teatrale. Il pubblico ha per lo più un falso concetto della novità, e la fa quasi tutta consistere nel fatto. Chi trova una combinazione di avvenimenti non prima trovata è tenuto per novatore e lo effetto artistico più pregiato è quello della sorpresa. Ciò parve falso a Verga e anche a me. Questo teatro che mira soprattutto a sorprendere è un teatro di decadenza. (…) Le maggiori tragedie nella vita seguono con terribile semplicità.

Significativo non è solo che Giacosa pensi di bacchettare gli spettatori, mettendoli in guardia da vieti amminicoli e falso concetto di novità, o che ne stigmatizzi i gusti, liquidando il teatro che mira a sorprendere come teatro di decadenza; significativo è che ascriva inequivocabilmente il lavoro drammatico di Verga al genere tragico. Della tragedia Cavalleria rusticana recupera innanzi tutto le movenze, ripristinando, nella misura serrata dell’atto unico, l’unità di luogo, tempo e azione. La piazza del villaggio – come una volta la reggia di Agamennone o di Edipo – assume le proporzioni semanticamente macroscopiche dello spazio sociale che raccorda la dimensione pubblica, scandita dai rituali condivisi (non a caso la vicenda si brucia interamente nella domenica di Pasqua), alla dimensione privata, di cui la famiglia dovrebbe essere (e non è più) nume tutelare. Ed è lì che si assiste al crollo rovinoso tanto dell’una quanto dell’altra. La tragedia infatti non è nell’assassinio di Turiddu per mano di Alfio (prova ne sia che l’omicidio, nella migliore tradizione tragica greca, non avviene nello spazio condiviso, non è mostrato sulla scena), ma nel deteriorarsi inesorabile e precipitoso delle relazioni, di quelle pubbliche come di quelle private. Mortificate dalla logica dell’utilità e del profitto, svuotate del loro potenziale rigenerativo, ridotte a convenzioni, le relazioni si esauriscono nello scontro, mai confronto, tra i personaggi, chiusi ciecamente in se stessi, nella ostinata e ottusa affermazione dei loro ruoli o in un individualismo di corto respiro.

Basta ascoltarli nei loro dialoghi, scarni e rapidissimi, a volte serrati come in una stichomythìa, le didascalie ridotte al minimo, per convincersi che Cavalleria rusticana non è il dramma della gelosia, ma la tragedia della incomunicabilità.  Così parla Alfio: chi porta i soldi a casa – sembra dire – porta anche la berretta  e il giudizio:

COMARE CAMILLA Siete venuto a far la Pasqua colla gna’ Lola vostra moglie, compare Alfio?

COMPAR ALFIO Sì, almeno le feste principali. (…)

COMARE CAMILLA E vostra moglie, che vi vede soltanto a Pasqua e a Natale, cosa dice?

COMPAR ALFIO Io non lo so cosa dice. Questo è il mio mestiere, comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il vetturale e di andare sempre in viaggio di qua e di là. (…)

LA ZIA FILOMENA Non è bene quello che avete detto, compar Alfio; ché avete la moglie giovane.

COMPAR ALFIO Mia moglie sa che la berretta la porto a modo mio (battendo sulla tasca del petto); e qui ci porto il giudizio per mia moglie, e per gli altri anche (due carabinieri in tenuta escono dalla caserma e si allontanano pel viale della chiesa). I miei interessi me li guardo io da me, senza bisogno di quelli del pennacchio. E in paese tutti lo sanno, grazie a Dio! (sI, p.128)

Così parla Turiddu – e le sue parole sono cariche di cinismo:

TURIDDU Lascia stare la gna’ Lola ch’è per casa sua.

SANTUZZA E lei perché non mi lascia stare, me? Perché mi vuol rubare voi, che non ho altro?

TURIDDU Bada che ti sbagli.

SANTUZZA No, che non mi sbaglio! Non le correvate dietro prima d’andar soldato?

TURIDDU Acqua passata! Ora la gna’ Lola è maritata per casa sua.

SANTUZZA Che importa! Non le volete bene ancora, quantunque sia maritata? Ed essa non vi ha rubato a me per gelosia? E non mi sento qui dentro il fuoco per voi che mi tradite?

TURIDDU Taci, taci.

SANTUZZA No, non posso tacere, che ho la rabbia canina in cuore! Ora come farò se voi mi abbandonate?

TURIDDU Io non ti abbandono, se tu non mi metti colle spalle al muro. Ma te l’ho detto: voglio essere padrone di fare quel che mi pare e piace. Sinora, grazie a Dio, catena al collo non ne ho. (…)

SANTUZZA Che colpa ci ho io? Vedete come son ridotta? La gna’ Lola è meglio di me, lo so! Ha il collo e le mani cariche d’oro! Suo marito non le fa mancare nulla, e la tiene come la Madonna sull’altare, quella scomunicata!

TURIDDU Lasciala stare!

SANTUZZA Vedete se la difendete?

TURIDDU Non la difendo. A me non me ne importa se suo marito la tiene come la Madonna sopra l’altare. Quello che m’importa è di non passare per uno che non sia padrone di fare quello che gli pare e piace. Questo no!

(sII, pp.133-134)

Così parla Lola, spregiudicatamente decisa a tenere sotto scacco il giovane amante, senza privarsi dei privilegi di moglie:

GNA’ LOLA Oh, compare Turiddu! Che l’avete visto andare in chiesa mio marito?

TURIDDU Non so, comare Lola, arrivo in questo momento.

GNA’ LOLA Mi disse: vado dal maniscalco pel baio che gli manca un ferro, e subito ti raggiungo in chiesa. Voi, che state a sentirle di qua fuori le funzioni di Pasqua, facendo conversazione?

TURIDDU Comare Santa qui, che stava dicendomi…

SANTUZZA Gli dicevo che oggi è giornata grande; e il Signore, di lassù, vede ogni cosa!

GNA’ LOLA E voi non ci andate in chiesa?

SANTUZZA In chiesa ci ha da andare chi ha la coscienza netta, gna’ Lola.

GNA’ LOLA Io ringrazio Iddio, e bacio in terra. (Si china a toccare il suolo colla punta delle dita che poscia si reca alle labbra). (sIII, pp.134-135)

Ma è Santuzza ad avere la statura di un grande personaggio tragico: innamorata, disonorata e respinta come una Medea, è sprovvista tuttavia di arti magiche e di illustri natali e ad attenderla, dopo il gesto che causerà la morte di Turiddu, non è il carro del Sole, ma la certezza di essere esclusa per sempre dalla comunità: da quella familiare, che pure è stata disposta a sfidare per amore, come da quella del villaggio, dove sarà additata come donna perduta e delatrice. Bruciata ogni possibilità di realizzazione personale come moglie e madre o come virtuosa vestale sul modello di Mena Malavoglia, Santuzza significativamente conclude: Sono in peccato mortale (sV, p.138), consapevole, come Macbeth dopo l’assassinio di Duncan, di non poter più dire “amen”.

Perché abbatte lo stereotipo dell’ambiente verista

Autentica senza che questo significhi documentaria o (viceversa?) ingenua, la tragedia verghiana mette a soqquadro i luoghi comuni del verismo. La vicenda non solo si sottrae con forza al bozzetto, ma modifica profondamente anche la struttura del dramma borghese, a cominciare dal sistema dei personaggi che qui si allarga ad accogliere le voci dei popolani, alterando lo schema consolidato del triangolo adulterino. Ma è soprattutto la nozione di ambiente, di milieu, a subire una severa rettifica. Quasi quarant’anni dopo quel debutto, il 23 giugno del 1921, Piero Gobetti scrive per la rubrica delle “Cronache d’arte” de “L’ordine nuovo” (anno I, n.173):

L’ambiente non è il mondo del positivismo, non è un campo di esperienze, di degenerazioni fisiologiche, non è la fotografia di una convenzionale vita rusticana: è invece una perfetta armonia ideale costruita con la misura e l’amore e la precisione di chi ha sofferto e s’è chiarito nella praxis (rassegnato, forte, incorrotto) il problema del dolore del mondo. Questo è il vero Verga.

Il recupero di un concetto-chiave aristotelico, e poi marxiano, qual è quello di praxis, misura la portata rivoluzionaria dell’opera verghiana, e in particolare di questa. Se già nel romanzo maggiore il narratore onnisciente aveva ceduto il passo alla centralità e all’evidenza dell’azione, nella tragedia l’azione agìta, inesorabile, irreversibile rinuncia non solo alla mediazione impassibile del narratore impersonale, ma anche a quella didascalica del drammaturgo, e si accampa quale unica testimone attendibile del dolore del mondo.

Perché mostra la irriducibilità delle tensioni sociali ed economiche

È un dolore, come s’è visto, generato dalle lacerazioni del tessuto sociale e dei connettivi familiari, sentimentali, solidali. Verga ha iniziato a indagarlo già al tempo di Vita dei campi. Il cambio di statuto imposto nel passaggio dalla novella al dramma (per nulla meccanico, per nulla asettico), il confronto tra le due versioni – quella narrata e quella agìta – potrebbe costituire da solo materia per un quarto “perché”. Qui ci limitiamo ad osservare che, in questa transizione di genere, crolla anche l’estremo baluardo rappresentato dalla famiglia. Nella novella l’insidia al legame matrimoniale, come ha osservato Luperini, «significa incrinare l’unica difesa che l’uomo abbia nei rapporti sociali e nelle avversità della natura (…) in un contesto sociale dove dominano l’egoismo, la legge dell’interesse economico, la prepotenza» (L’orgoglio e la disperata rassegnazione, Roma, 1974, pp.35-36); e tuttavia, se Turiddu accetta la sfida, lo fa per non far piangere la mia vecchierella, cioè, analogamente al rivale, in nome della tutela del nucleo familiare – nel suo caso, di quello originario. Ma sulla scena anche questo si perde. L’attenuarsi delle differenze sociali tra i due protagonisti maschili (nel dramma entrambi gestiscono un’attività in proprio e quindi occupano un posto non irrilevante nell’economia del piccolo villaggio) finisce paradossalmente per amplificare la sconsiderata trascuratezza dell’uno e dell’altro nei confronti del proprio nucleo. É come se il benessere economico, sollevando i membri di una famiglia dalla necessità stringente del mutuo soccorso, agisse come sostanza corrosiva dei legami: Alfio è convinto che coprire la moglie d’oro esaurisca i suoi doveri di marito; Turiddu, inviato per un “viaggio di lavoro”, lo tramuta in un incontro con l’amante e tradisce così la fiducia della madre (oltre che della fidanzata), quasi fosse un vitellone viziato. Della madre peraltro, esaltato nel suo brindisi pasquale alla presenza di Lola, non intercetta neppure il rimprovero silenzioso (Vecchi benedetti! che non si vogliono rammentare di quel che hanno fatto in gioventù!, s.VI), salvo affidarle Santuzza quando capisce che tutto è perduto. L’istituto familiare non è in grado di fare argine al caos, né i personaggi si pongono come obiettivo primario ed esistenziale il ripristino di un ordine che non sia quello imposto dalla legge. E così i due carabinieri attraversano correndo la scena per arrestare il colpevole ultimo di una catena di azioni irresponsabili.

[1] Qui si cita il testo riportato in Il teatro italiano, La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento a cura di S. Ferrone, Einaudi 1979

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