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diretto da Romano Luperini

Rigoni Stern, la montagna e un suo lettore

A partire dalla rivisitazione dell’opera di Rigoni Stern, a cui « letteraturaenoi » ha dato spazio  nell’ultimo anno con diversi contributi,  e ricordando l’importante lavoro di carattere interdisciplinare di Sara Luchetta ( Dalla baita al ciliegio La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern), mi propongo di  affrontare la rappresentazione di tale tema nel racconto L’ultimo inverno di guerra (in Amore di confine,1986),  un testo breve, che a mio parere può essere facilmente letto anche a scuola  per la straordinaria densità di significati che vi emergono.

Il valore simbolico della montagna

Nei racconti o romanzi rigoniani la montagna con la vita dei personaggi che ci vivono non è mai lo sfondo della narrazione, ma costituisce davvero un nucleo di senso, anche quando non sembra essere l’argomento centrale. All’origine  di tale rappresentazione c’è naturalmente l’altopiano di Asiago, dove ci sono le radici dell’autore; tuttavia la rappresentazione di questo luogo non è mai fine a se stessa, ma si carica di valenze simboliche, come si può vedere in uno scritto intitolato Le mie quattro case, in cui il narratore fa riferimento alla casa sognata quando era prigioniero nel lager di Hohenstein:

La mia terza casa fu un rifugio dell’inconscio e fisicamente non l’ho mai abitata. Dopo anni di guerra mi ero ritrovato in un grande Lager, in un angolo molto triste della Prussia Orientale, ora diventato territorio dell’’URSS. Baracche, reticolati, neve grigia, disciplina spietata, fame da morire e tanti Gefangen stipati in una promiscuità anonima. Numeri non nomi. Su un foglio di carta chissà come trovato, con meticolosità e pazienza disegnai la casa che mi sarei costruita al ritorno. Il luogo che avevo scelto era lontano da altre abitazioni, in un bosco che conoscevo molto bene e all’incrocio di due carrarecce, su un piccolo rialzo. Ma questa casa era come una tana sotterranea, con un posto per dormire, un posto per il fuoco, un posto per una ventina di libri; avrei vissuto di caccia e di bosco, e di un piccolo orto dentro una radura. In questa casa seminterrata, fatta con tronchi e pietre, terra battuta e muschio e cortecce, era prevista ogni cosa necessaria alla mia vita, e dopo quanto avevo visto e provato, mi pareva l’unica soluzione possibile della mia esistenza. Non fu così, naturalmente, ma allora  in quel luogo, il progetto di questa casa teneva occupati i miei pensieri e sopiva la mia fame.

È una casa dell’inconscio, in cui la proiezione del desiderio suggerisce qualcosa di più dell’attaccamento affettivo o della nostalgia per il luogo di origine; rimanda  ad altro, ai valori di una vita essenziale e profondamente autentica che il bosco  della montagna promette di  poter realizzare.

Altre montagne

L’altopiano congloba in sé un altrove e  non solo perché molte altre sono le montagne di cui Rigoni ha fatto conoscenza: quelle della val d’Aosta, dove, entrato come volontario nel corpo militare degli alpini a 17 anni, affronta una durissima selezione e viene formato come sciatore – rocciatore; quelle francesi confinanti, dove all’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940 si trova inaspettatamente a combattere; quelle della val di Fiemme («montagne da cui vedevo le mie montagne»), frequentate dai turisti, dove la sua compagnia passa il resto di quella stessa estate in tranquillità, prima di nuove missioni; quelle  «montagne senza nome e senza strade» della Grecia e dell’Albania, dove pochi mesi dopo è arruolato nella divisione tridentina; quelle immaginate del Caucaso («montagne nuove da scoprire e scalare»), che nei piani di Hitler avrebbe dovuto essere attaccato dalle truppe alpine italiane nella campagna di Russia del 42; quelle dell’Alto Adige, dove, al colle Isarco, dopo l’8 settembre, viene fatto prigioniero; quella della miniera di Eisenberg in Stiria, il lager più alto d’Europa, dove è rinchiuso nel 44-45.

La montagna di ferro

Su questa montagna su cui si scatena la violenza della natura e della storia è incentrata la narrazione Nell’ultimo inverno di guerra, in cui si vede con estrema chiarezza il passaggio dall’esperienza del prigioniero, tremenda da un punto di vista materiale e psicologico, alla sua universalizzazione:

La miniera di ferro, l’Eisenberg, era sempre battuta dalla tormenta, e sui gradoni degli scavi il vento e la neve vorticavano come la bufera infernale che mai non resta, in un vortice verticale.

Si può dire che su quei gradoni erano a lavorare deportati e prigionieri d’ogni nazione d’Europa e anche popolazioni asiatiche.

(….)Gli slavi, i mongoli e gli italiani avevano i posti peggiori, sui gradoni più alti a scavare il materiale pesantissimo, a caricarlo sui carrelli, a spingere a forza di bracci sette vagoncini alla volta (….)

Naturalmente i gradoni più alti erano quelli maggiormente soggetti alle inclemenze e alle bufere; sia per l’altezza della quota che per l’esposizione a ogni vento, in quanto la montagna di ferro non fa parte di una catena o di un massiccio, ma è isolata dalle altre e allo sbocco delle correnti. Lassù il vento, certi giorni, non faceva respirare e la neve era come vetro che tagliava il viso. Qualche volta nelle nicchie delle pareti, appoggiati in piedi e rigidi come ghiaccio, si ritrovavano i cadaveri dei prigionieri che invece del rifugio trovavano la morte.

Di fronte alle notizie dei bombardamenti degli alleati e della penetrazione dell’Armata Rossa nel territorio del Reich,  si può sperare soltanto che questo del 1945 sia l’ultimo inverno di guerra.

Un’ indicibile tormenta

Ma è un inverno particolarmente inclemente:

In quel febbraio su quelle montagne la neve cadde abbondante, e per qualche giorno la miniera restò anche ferma. Squadre di prigionieri e di deportati spalavano le strade del Lager e i tetti delle baracche, e anche i viottoli di accesso alle baracche di servizio sulla montagna della miniera.

Il topos della neve, strettamente connesso alla montagna oltre che alla steppa russa, è ricorrente nell’opera di Rigoni. In questo racconto il bianco e il silenzio che la caratterizzano rappresentano la tragedia della Shoah:

Fu in quei giorni che per la strada che saliva per la valle e scavalcava il  Passo di Präbichl transitò una colonna di ebrei. Erano bambini, donne e vecchi che chissà da dove venivano e chissà dove andavano. Certo a morte. Sfilarono vicino ai reticolati, camminando a fatica tra la neve alta che continuava a scendere. Al seguito avevano qualche vacca e qualche pecora patite e stentate come loro; erano anche poco vestiti. Qualcuno a piedi nudi. Camminavano sospinti dalle guardie di scorta e ogni tanto uno sparo finiva chi si adagiava sulla neve. Le guardie del Lager dei prigionieri erano più tolleranti della scorta e finsero di non vedere i barattoli d’acqua e qualche pezzetto di pane che attraverso i reticolati venivano porti a quei disgraziati.

La fila era lunga e frazionata, si perdeva nella strada che saliva al Passo tra due muraglie di neve. Dopo qualche ora che furono passati, il sottoufficiale del Lager chiamò una squadra di prigionieri con pale e picconi per andare a seppellire le donne, i vecchi e i bambini dentro il bosco silenzioso e bianco.

Nevicò ancora per giorni, senza smettere; baracche, reticolati, bosco e montagne, tutto era bianco e uniforme e silenzioso.

È il silenzio della morte, frutto della violenza e dell’oppressione che non conoscono limite, il silenzio del vuoto di speranza.

Lo snodo narrativo

In questo clima succede però qualcosa di inaspettato e di eccezionale: a una squadra di prigionieri viene ordinato di salire sui vagoni dei civili per raggiungere la miniera dall’alto e aprire un varco nella neve:

Non erano mai saliti, durante i sedici mesi di prigionia, su un treno civile, e il fatto di ritrovarsi dentro uno scompartimento al caldo, tra viaggiatori comuni e con i posti a sedere era veramente inusitato e impensabile.

Uno spiraglio di comunicazione si apre tra prigionieri e turisti:

I viaggiatori, per lo più ragazzi e donne, venivano da Graz e da Leoben e forse andavano a Linz, e non dimostrarono imbarazzo per la loro presenza, e se proprio non si manifestavano cordiali lasciavano intravvedere qualche timido accenno di sorriso.

Una comunicazione che si amplia quando il treno, che sale a fatica sulla montagna in mezzo alle raffiche di neve e di vento, dopo terribili sussulti, si ferma definitivamente, creando smarrimento nei passeggeri: in questo tempo sospeso c’è spazio per lo scambio di qualche notizia o di qualche battuta  politica. Un vecchio con la pipa impreca contro la guerra e insieme a un prigioniero ironizza sull’ «arma segreta di Hitler». Ma tutti sono prigionieri, prigionieri della neve:

Finalmente entrò il capotreno e tra il silenzio di tutti spiegò che delle valanghe si erano staccate dalla montagna e chiudevano il treno in una morsa di neve: non si poteva andare né avanti né indietro; anzi si era stati molto fortunati perché la valanga che era caduta davanti avrebbe potuto investire il treno: non l’avevano incontrata per pochi minuti.

L’unica possibilità di salvezza è allora di procedere a piedi:

In marcia, quindi, tutti insieme ad affrontare la tormenta; i prigionieri italiani avrebbero fatto da battipista.(….) La baracca era a circa un chilometro, ma anche mille metri tra quella tormenta erano tanti.

L’intensità della bufera rende questo cammino di incredibile difficoltà ma ha il potere di accomunare prigionieri, guardie e turisti e di rendere possibile un po’ di umanità:

La tormenta faceva mancare il respiro e la neve pungeva la pelle scoperta del viso e delle mani; qualcuno scivolava e cadeva, delle donne si aggrapparono ai prigionieri, uno prese in braccio un bambino.

Dalla montagna prigione alla libertà della montagna

A questo punto, con un altro snodo narrativo, la narrazione si focalizza sul protagonista:

Un prigioniero ogni tanto girava le spalle al vento per respirare profondo e incitare i compagni: in questa situazione si sentiva allegro, gli sembrava di essere ritornato libero perché guardie di scorta e civili erano nella sua medesima condizione. Anzi, lui stava meglio perché non aveva nulla da perdere: né bagagli, né cibo, né treni, né appuntamenti o coincidenze; insomma dopo tanti mesi di dura prigionia e di tanta fame l’avventura del treno, delle valanghe e ora della tormenta per una montagna sconosciuta, gli aveva fatto ritrovare un sentimento di libertà, come quando affrontava un’ascensione.

Le difficoltà del cammino nella bufera per la montagna sconosciuta  gli permette  di recuperare qualcosa della sua identità e del suo passato di montanaro: la meravigliosa sensazione di libertà  che un’ascensione gli dava  e l’abitudine all’ attenzione verso gli altri:

“Avanti” gridava in italiano e in tedesco, “Avanti!”, e ironicamente aggiungeva: “Viva la grande Germania! Viva Hitler! Viva Mussolini!”.

Si fermò per vedere la sfilata di quei disgraziati flagellati dalla tormenta, li incitava e li spronava, rideva e lo prendevano per matto.

Condivisione e speranza

Ma ci sono persone che rischiano di soccombere, di fronte a cui il suo euforico senso di libertà si tramuta in forza morale. Una ragazza e un uomo sono in grave pericolo e hanno bisogno del suo aiuto:

I due avevano ai piedi scarpe da città, lisce, e invece di cappotti invernali indossavano leggeri impermeabili e sul capo avevano legato un fazzoletto. Non avevano fiato per parlare o per chiedere aiuto e allora si prese l’uomo sulle spalle. Riprese a calpestare la neve e ad affrontare la bufera come avesse ritrovato, con la sensazione della libertà, una nuova forza, Ora anche la donna si era aggrappata a lui e camminò così fino a raggiungere gli ultimi del gruppo che stavano entrando nella baracca.

Tutti alla fine sono salvi e  possono scaldarsi non solo alla stufa, ma uniti da un sentimento di solidarietà:

Ora donne e ragazzi, vecchi, ferrovieri, guardie e prigionieri fraternizzavano e reciprocamente si aiutavano a levarsi la neve da dosso commentando l’avventura.

Senza nessuna retorica e attraverso la nota asciuttezza che caratterizza lo stile di Rigoni, l’avventura montanara si carica di valori altri rispetto allo scampato pericolo e alla sfida con la natura. Nascono sentimenti autentici: riconoscenza, disinteressata generosità, compassione, consapevolezza della tragedia comune, speranza:

I due passeggeri aiutati dal prigioniero esprimono riconoscenza nei suoi confronti: l’uomo gli offre un portasigarette d’argento, ma il prigioniero rifiuta e gli chiede una sigaretta.

Fu a quel punto che il prigioniero si accorse che quell’uomo non vedeva, che forse era completamente cieco, e gli venne una compassione che gli spense quel senso di euforia che aveva provato nell’affrontare la tormenta e che ancora assaporava con la pipa del vecchio e con il vecchio vicino alla stufa come fosse in un rifugio sulle montagne di casa. La ragazza disse: “È successo in guerra, accetti almeno queste sigarette”: Allora le prese. Ritornò vicino alla stufa; la tormenta stava calando e, oltre i vetri della finestra, si incominciavano a vedere i profili delle montagne.

La tragicità della storia che si consuma sulla montagna isolata e cattiva dell’ Eisenberg non viene certo attutita; anzi in questo finale si unisce all’insensatezza della guerra, quella che il vecchio aveva definito «merda di guerra», e alle insanabili ferite che ha provocato. La sofferenza del protagonista si unisce a quella degli altri, si amplia nella consapevolezza della tragedia collettiva: un forte messaggio morale per le nuove generazioni. Perciò il placarsi della bufera acquista un valore simbolico relativamente al recupero di sentimenti e di rapporti davvero umani. Sullo sfondo appaiono altre montagne.

Un’immagine indefinita, quasi sfuocata, ma di grande valore evocativo.

Un lettore di montagna

A conclusione di questa lettura in cui ho voluto far sentire la voce del narratore, vorrei segnalare un breve testo, poco noto, su Rigoni e la montagna, scritto da Hervè Gaymard, uomo politico francese, abitante della Savoia: Memoria d’autunno (Liaison, 2008).

L’autore racconta la sua casuale scoperta dell’opera di Rigoni, che non smette di appassionarlo, e ricorda gli incontri che ha avuto con lui. Ma, al di là di questi ricordi particolarmente coinvolgenti e fondati sulla comune appartenenza alla montagna, Gaymard mette in luce un tema fondamentale e di straordinaria attualità della produzione dell’autore: quello della montagna che unisce e non divide, della montagna non frontiera e di conseguenza dell’assurdità della guerra tra popolazioni che non si sentono nemiche.

È un esempio questo di come un lettore, emotivamente coinvolto sul piano umano, possa arrivare a penetrare un significato profondo  e  a farsi interprete  di un’opera varia e complessa con semplici e sintetiche parole:

Una scrittura sobria, vera e densa che non bara con la vita. Un’opera che non parla di, ma che è la montagna.

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