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diretto da Romano Luperini

Il tic delle TIC: sull’ultimo concorso STEM

La valutazione delle metodologie didattiche in sede concorsuale e le modalità di lavoro delle commissioni sono all’origine di gravi distorsioni, che stanno minando alla base la possibilità di selezionare docenti di qualità nella scuola secondaria. Mi riferisco in particolare al recente concorso “STEM” indetto per i futuri docenti di area scientifico-tecnologica: matematica, fisica, scienze e tecnologie informatiche per la scuola superiore; matematica e scienze per la scuola media. Hanno potuto partecipare al concorso coloro che si erano iscritti ad una procedura concorsuale ordinaria, indetta nell’aprile del 2020 per un ventaglio molto più ampio di materie. L’espletamento del concorso, previsto nell’autunno del 2021, è stato dunque anticipato per le sole discipline sopra elencate, per le quali il MIUR considerava particolarmente urgente l’assunzione di docenti in ruolo. Il D. L. n. 73 del 25 maggio 2021 aveva infatti annunciato una sorta di parentesi concorsuale sperimentale, prevedendo una ulteriore possibilità per chi volesse cimentarsi con una modalità di selezione più snella e veloce, durante l’estate alle porte: uno scritto a risposta multipla sui soli contenuti disciplinari; un orale incentrato sulla didattica in relazione a un argomento estratto 24 ore prima. In caso di fallimento, i partecipanti alle prove estive non avrebbero perso il diritto a partecipare nuovamente alla procedura ordinaria nei tempi inizialmente programmati; i vincitori invece sarebbero subito entrati in ruolo già nel corrente anno scolastico (come infatti è avvenuto), mentre gli idonei non vincitori avrebbero comunque acquisito l’abilitazione per le discipline coinvolte.

Oltre allo scarso preavviso con il quale è stata annunciata questa procedura straordinaria (motivo per cui molti candidati non si sono presentati alle prove scritte, concentrate nella prima metà di luglio), quali sarebbero le distorsioni di cui parlavo in apertura? Addentriamoci dunque nei retroscena e negli atti della tragicommedia di questo concorso sui generis svolto nell’estate del 2021.

Il trionfo degli acronimi

Cominciamo con il dire che l’impegnativo test a risposta chiusa sui contenuti disciplinari ha certamente garantito una valutazione oggettiva, ma non ha consentito di valutare la capacità di scrittura, fondamentale per qualsiasi insegnante. Il test è stato piuttosto una prova “muscolare” che ha misurato sostanzialmente l’abilità nell’eseguire calcoli velocemente e in generale la prontezza delle risposte. La prova orale consisteva invece nella progettazione di una attività didattica, comprensiva dell’illustrazione delle scelte contenutistiche, didattiche e metodologiche e di esempi di utilizzo pratico delle TIC (acronimo di “Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione”); le TIC ricorrono anche nella griglia di valutazione del colloquio orale, che riserva la maggioranza dei punti (fino a 40 su 100) alla capacità dei candidati di effettuare una “progettazione didattica efficace anche con riferimento alle TIC”. Non solo: ai commissari, frettolosamente selezionati a causa dei tempi stretti, non erano richiesti particolari requisiti, se non 5 anni di ruolo e documentati titoli o esperienze esclusivamente nell’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella didattica: ancora le TIC!

Il secondo acronimo protagonista si chiama STEM, una sigla anglosassone che sta per “scienze, tecnologie, ingegneria e matematica”, introdotta sull’onda dei sempre più numerosi anglicismi in uso nella nostra scuola: il linguaggio è importante per dare una parvenza di “innovazione”, l’ingrediente indispensabile – secondo politici e confindustriali – per una istruzione di qualità. Non importa se la rete internet degli istituti non regge; o se gli insegnanti, dalle aule del proprio istituto, devono tenere lezioni a distanza a classi di 30 studenti in quarantena, ma con il proprio portatile, a causa del malfunzionamento dei PC della scuola. L’importante è innovare la didattica. Come? Soprattutto con il digitale, il mezzo taumaturgico che compie tutti i miracoli tranne quello di avere apparati tecnici funzionanti.

Se le TIC ricorrono nel linguaggio ministeriale quasi come… un tic, le STEM non sono da meno. Il miracoloso digitale e le STEM vanno a braccetto; per di più, di tanto in tanto, in queste ultime un’altra vocale, una A, prende posto tra la E e la M. Ma non si confonda le “STEAM” con il banale vapore! La A qui sta per “arts”, perché non è bene praticar l’arte senza la scienza, come sanno bene al Liceo STEAM voluto da Confindustria: un percorso di studi quadriennale nel quale “grazie allo Human-Centered-Design (HCD) la parte umanistica (i significati) e la parte scientifica (i metodi) si fondono e diventano concrete e reali attraverso l’uso intelligente ed etico delle tecnologie (gli strumenti)”. Ma lasciamo perdere questo vaporoso personaggio e ritorniamo al più comune STEM: la scienza dura e pura spogliata di velleità artistiche, protagonista di questo concorso.

I tempi

Come già detto, i preparativi per l’allestimento delle scene sono stati frettolosi. Ma anche gli atti sono stati brevi, in particolare quello finale: eccetto quelle per la scuola media, le restanti graduatorie di merito sono state pubblicate celermente, e dopo prove orali espletate nel giro di una settimana. Il motivo di tanta efficienza è uno solo: il compenso maggiorato per i commissari (da 5.400 euro sino a 11.600 euro lordi), previsto in caso di pubblicazione entro il 31 luglio 2021. Cifre astronomiche per un insegnante, abituato a raggranellare poche centinaia di euro in un intero anno scolastico, grazie a qualche incarico extra.

Per garantire l’espletamento del concorso nei tempi utili sono state nominate alcune sottocommissioni. La ricerca dei commissari, come è facile immaginare, è stata molto frettolosa, al punto che molti insegnanti hanno ricevuto comunicazione della possibilità di candidarsi soltanto a ridosso della scadenza per l’inoltro della domanda. Questo ha fatto sì che una buona fetta del personale docente rinunciasse a proporsi come commissario, mentre altri non ne sono neanche venuti a conoscenza. Nonostante questo, il numero giornaliero di candidati è rimasto elevato, fino a venti al giorno per commissione.

Il risultato è stato che per molti candidati una prova che poteva durare fino a 45 minuti si è svolta nell’arco di 10-15: si può immaginare con quale serietà nell’attribuzione del punteggio previsto per l’orale. Si tratta di dinamiche inevitabili, nel momento in cui l’interesse per un compenso, vincolato a una scadenza dei lavori assurda, supera quello per una valutazione seria e ponderata. Si immagini la scena: l’insegnante rigoroso e pignolo che dilata i tempi delle prove orali per garantire un’equa valutazione, mentre i suoi colleghi fremono per la paura di perdere un compenso che non hanno visto e forse non vedranno più, nell’arco della loro intera carriera professionale. Sfido chiunque a riportare esempi di categorie professionali, bistrattate sul piano economico quanto gli insegnanti, che si sarebbero regolate in altro modo.

La scelta dei commissari

La prova orale prevedeva un esempio di progettazione didattica. Dunque al candidato non è stata chiesta una lezione simulata, nel corso della quale si spiega un particolare argomento a degli immaginari studenti in un dato tempo.

La valutazione delle metodologie didattiche dovrebbe essere di competenza di esperti disciplinari preparati, con una certa esperienza di insegnamento, ottimi studi e possibilmente pubblicazioni strettamente correlate ai contenuti della disciplina e/o ai suoi metodi di insegnamento.Questi requisiti non sono stati esplicitamente richiesti ai commissari, selezionati sulla base di un curriculum (peraltro non reso pubblico) alle cui voci non è stato attribuito alcun peso specifico; come abbiamo già detto, l’unico requisito professionale era l’esperienza maturata con le TIC. A questo è ridotta la sconfinata letteratura metodologica sulle materie scientifiche e tecnologiche: all’uso della “medicina digitale”, le TIC. Eppure sono tanti gli esempi di criteri di selezione messi a punto nel corso degli anni. Ad esempio, avrebbero potuto costituire un utile riferimento i ben più ricchi requisiti previsti per gli insegnanti di ruolo aspiranti tutor degli studenti tirocinanti che conseguono l’abilitazione all’insegnamento. Questo tipo di valutazione avrebbe però comportato la dilatazione dei tempi di selezione dei commissari: è stato più semplice ridurre la complessità della professione all’uso delle TIC, le quali, da mero strumento tecnico, assurgono addirittura a discriminante nella distinzione tra insegnanti competenti e non, tanto da rivestire una importanza abnorme nella selezione non solo dei commissari ma, di riflesso, della futura classe docente STEM.

Ecco dunque far parte di una commissione giudicatrice l’insegnante che abbia realizzato un progetto che preveda l’uso delle TIC o che rivesta incarichi extra di tipo tecnico, ad esempio quello di chi supporta i colleghi nell’uso delle piattaforme. Tuttavia, aver rivestito il ruolo di “animatore digitale” non implica automaticamente che si padroneggino le metodologie didattiche più efficacemente di altri. Al contrario della vulgata corrente, ormai gran parte degli insegnanti usa le TIC con una certa disinvoltura. Persino i (pochi) riottosi sono costretti ad avvalersene in un modo o nell’altro, dato il radicale cambiamento dell’organizzazione scolastica, sia nella gestione degli aspetti burocratico-amministrativi, sia nella didattica d’aula, per la quale, tra l’altro, gli insegnanti fanno frequente ricorso a mezzi personali o acquistati di tasca propria (non tutti i dispositivi e i software sono coperti dalla Carta del docente).

Formazione dei docenti: contenuti e metodi

Le iniziative di aggiornamento centrate sulle TIC stanno assumendo una importanza sempre maggiore. Sembra sfuggire che il vero problema della scuola non sta nell’uso di questi strumenti, perché, se ci sono insegnanti sia super tecnologici che culturalmente preparatissimi, è anche vero che ve ne sono altri che coprono la propria ignoranza dei contenuti col ticchettio assordante di una tecnologia didatticamente vacua ma ricca di effetti speciali. Non è facile identificarli a prima vista, perché una scadente didattica può confondersi con un’ottima divulgazione; ma quest’ultima, quand’anche di elevata qualità tecnologica, non è il fine dell’insegnamento. Il nostro è un lavoro di miniera il più delle volte oscuro, che si basa sulla relazione con lo studente e sul continuo rimestamento dei fondamenti disciplinari. Capita di incontrare allievi estremamente disinvolti nello smontare e rimontare un PC, ma che stentano a entrare nella logica della programmazione informatica; navigatori nel mare magnum della rete, che però vi si perdono facilmente; esperti di simulazioni scientifiche virtuali che vanno in tilt appena si chiede loro di usare l’immaginazione per azzardare la spiegazione di fenomeni naturali estremamente comuni. Questo lavoro di miniera, questo spingere, picconare, scavare continuamente nei perché e nei come della materia al di là delle abilità tecniche degli studenti non è – come spesso si pensa – qualcosa che il vero docente compie di malavoglia e meccanicamente, per insegnare a imberbi e svogliati ragazzi concetti che dovrebbero essere scontati. Il più delle volte questo lavoro di scavo ci coinvolge in prima persona, ci costringe a rinnovare e ad arricchire la nostra stessa visione dei contenuti di insegnamento. In questo mettersi in gioco, la materia non è mai posseduta una volta per tutte: l’insegnante è un eterno principiante condannato allo studio perenne, croce e delizia del nostro mestiere.

Contenuto e metodo sono inscindibili, ma il primo è presupposto insostituibile del secondo. Ecco perché la coltivazione dei contenuti culturali costituisce la conditio sine qua non della professione docente, ragione per cui le esperienze correlate a questa fondamentale dimensione dovrebbero essere considerate prioritariamente anche per la selezione di coloro cui è affidata la responsabilità di valutare i futuri insegnanti.

Lo studio e la relazione educativa conferiscono forse minore visibilità rispetto all’attuazione di progetti scintillanti o all’impegno come formatore nell’educazione digitale, ma costituiscono l’essenza del vero insegnamento. Ad assumere degli incarichi extra-didattici sono in alcuni casi docenti preparati, con esperienza e grandi capacità relazionali; in altri, ahimè, chi non si sottrae a un certo servilismo, dilagante soprattutto da quando la legge della “Buona Scuola” ha dato ai dirigenti scolastici la possibilità di avvalersi di una squadra di lavoro, ora denominata “staff”, con un ridicolo gergo aziendale. Sebbene l’assunzione di incarichi tecnici o di gestione lasci ovviamente meno tempo per la preparazione delle lezioni, non si vuole certo stabilire una corrispondenza biunivoca tra l’appartenenza allo “staff” e una scadente preparazione culturale. Chiunque lavori nella scuola sa che la realtà è estremamente sfaccettata, e che è quasi impossibile identificare delle categorie con nette linee di demarcazione. Tuttavia quello che il MIUR sta facendo è esattamente questo: da una parte i docenti “buoni”, amanti delle TIC; dall’altra i “cattivi”, che non possono documentare esperienze con gli strumenti digitali, anche quando li usano quotidianamente come strumento (e non come fine) nella loro attività didattica.

Il conflitto di interessi

Se i curricula di presidenti e commissari non sono stati resi pubblici, lo sono state le loro sedi di servizio, spesso coincidenti: basta recuperare i nominativi per rendersi conto che non pochi dirigenti scolastici hanno presieduto commissioni con uno o più insegnanti dei loro stessi istituti in qualità di commissari. Questi insegnanti erano talvolta parte dello “staff”, ricoprendo incarichi come quello di “animatore digitale” o di “funzione strumentale per l’innovazione”. Non si è trattato necessariamente di nomine progettate a tavolino, piuttosto una conseguenza della frettolosità dovuta ai tempi ristretti di organizzazione del concorso: una volta che il bando è stato portato a conoscenza dell’istituto, sarà stato naturale, per un dirigente, invitare alla candidatura soprattutto i suoi più stretti collaboratori per garantire una veloce formazione delle commissioni con personale prontamente disponibile.

È questa una premessa per l’imparzialità e la libertà di giudizio del commissario? Potrà costui esprimere una valutazione senza condizionamenti da parte del presidente, il suo dirigente scolastico? La risposta è: quasi sempre, no. Non solo esiste il concreto rischio che i commissari siano influenzati dal loro dirigente, ma anche quello di schiacciare la valutazione dei docenti sulle competenze “manageriali” di staff.

La “pedagogia” di Stato

Veniamo agli aspetti culturali delle prove d’esame. Attribuire un peso preponderante alla parte metodologica è imprudente non solo per le ragioni già espresse, ma anche e soprattutto per la manipolazione ideologica che questo parametro permette: i candidati sono indotti a prepararsi su metodologie alla moda, spesso non validate dalla letteratura scientifica, ma che si è spinti ad accettare in modo acritico, essendo parte della cosiddetta “pedagogia di Stato” (di cui hanno parlato, da diversi punti di vista, studiosi come Giovanni Salmeri, Paolo Mazzocchini e Giovanni Carosotti).

Cosa è successo agli aspiranti docenti che non si sono sottoposti a questa umiliazione delle loro facoltà di giudizio, in totale contrasto con la libertà di insegnamento garantita dall’articolo 33 della Costituzione? Sulla base di quanto poc’anzi illustrato, l’attribuzione della causa di una eventuale bocciatura o bassa votazione a un rifiuto di omologazione a quella che resta una moda superficiale potrebbe non essere una ipotesi tanto peregrina. 

Si immagini un esame per diventare chef. Il candidato deve spiegare la preparazione di un piatto “innovativo” in modo esclusivamente teorico, cioè senza avere a disposizione ingredienti reali, sì da constatare l’effettiva riuscita della ricetta. Il comitato di valutazione storce il naso, ma senza nemmeno poter assaggiare la pietanza: semplicemente, uno dei membri è allergico alla salvia, un altro non approva l’uso del formaggio perché l’odore lo disgusta, oppure considera superflua l’aggiunta del pepe. Criteri soggettivi. Se non si vuole tornare ai vecchi concorsi, o non ci si vuole basare sul cosiddetto “enciclopedismo disciplinare” (comunque preferibile alla deprimente attuale situazione!), occorre che i commissari valutatori possiedano una specifica base culturale e una solida esperienza professionale, per valutare con equilibrio gli approcci didattici proposti da un candidato. Occorre valutare la capacità del docente nel contestualizzare le metodologie cui fa ricorso, la plausibilità delle procedure che mette in atto, le sue doti comunicative, etc.: in breve, la conoscenza pedagogica del contenuto.

Tanti insegnanti in ruolo da almeno un decennio hanno dedicato alle metodologie didattiche un impegnativo biennio post-lauream di esami e tirocini, frequentando le vecchie SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario). Queste scuole sono state chiuse in barba ai risultati positivi documentati, mentre avviavano – seppure lentamente e faticosamente – quella collaborazione tra scuola e università da sempre auspicata. Il diploma abilitante all’insegnamento della SSIS è carta straccia: non è criterio di selezione dei commissari, né per i concorsi dei futuri insegnanti né per gli Esami di Stato degli studenti delle scuole secondarie. Nessun accademico che ha insegnato con impegno e dedizione nelle SSIS si indigna per questo? Eppure le SSIS, le migliori SSIS, hanno dato uno straordinario contributo al rinnovamento della figura dell’insegnante, pur se molti corsisti già allora accusavano alcuni docenti di imporre prassi didattiche non condivise; ma c’era dialettica, confronto e talvolta scontro, ricerca di senso, tentativi di costruzione. In due anni era possibile, in 15 minuti di prova orale un po’ meno. Le SSIS presentavano certamente dei limiti, ma si è rinunciato a un loro possibile miglioramento a partire dagli elementi positivi che comunque c’erano. In particolare, lo studio dei fondamenti storico-epistemologici delle discipline scientifiche (soprattutto di quelle coinvolte nel concorso STEM) ha ampliato in modo significativo la base culturale degli specializzandi, che spesso provenivano da corsi di laurea che non lasciavano (e non lasciano) sufficiente spazio allo studio dell’evoluzione storica e degli aspetti filosofici delle discipline, spesso padroneggiate soprattutto da un punto di vista teorico e tecnico appiattito esclusivamente sulla loro attuale configurazione. Tuttavia, il fatto che le SSIS siano finite nel dimenticatoio non deve meravigliare, se neanche gli insegnanti con dottorato di ricerca e/o fior di pubblicazioni godono di vie preferenziali per ricoprire cariche come quella di commissario nei concorsi.

Alcuni casi concreti

Ad ogni modo il problema più grave resta quello prima accennato: l’impreparazione sui contenuti dei commissari, testimoniata – persino da chi il concorso STEM lo ha superato – anche nei forum di discussione online di insegnanti, in forma rigorosamente anonima per paura di ritorsioni. Prendiamo l’esempio della classe di concorso “Scienze e tecnologie informatiche”: alcune tracce riguardavano argomenti specialistici, oggetto di insegnamento nel triennio degli istituti tecnici tecnologici. Un commissario docente della stessa materia, ma che ha sempre insegnato in una scuola generalista o che è sempre rimasto confinato nel biennio delle scuole tecniche, fatica non poco per uscire dal perimetro dei contenuti che è abituato a insegnare da anni; molto probabilmente egli stesso non supererebbe la prova scritta che ha consentito ai candidati di presentarsi davanti a lui. Alcuni di questi commissari neanche insegnano, perché svolgono da anni la funzione di collaboratore del dirigente con esonero totale, o perché godono di qualche forma di distacco dall’insegnamento per compiti amministrativi e di gestione. Ma è proprio il curriculum di questo genere di docenti ad essere valorizzato: a guardare le esperienze professionali che molti commissari esibiscono sui social come LinkedIn, sembra quasi che gli anni lontani trascorsi in aula siano considerati solo un valore aggiunto. Un insegnante in questa situazione può diventare molto pericoloso, se privo della necessaria umiltà. Ad esempio, può spiazzare il candidato chiedendo una lezione simulata, non richiesta dalla traccia di esame ma utile a lui per raccapezzarsi velocemente su un argomento che non ricorda; oppure può cercare di nascondere la propria ignoranza con battute sarcastiche, come dimostrano gli esempi di seguito riportati, che provengono da racconti anonimi, tra i tanti arrivati in forma di denuncia non formale negli uffici scolastici, nelle sedi dei sindacati e nei forum virtuali. Ovviamente non hanno valore statistico, né la pretesa di fornire inopportune generalizzazioni. Tuttavia anche la narrazione delle storie è importante, se non altro per cogliere l’atmosfera che si cela oltre la cortina di fumo di acronimi, anglicismi e futuristiche innovazioni.

Prova orale di Informatica. Il candidato viene interrotto dopo pochi minuti di illustrazione delle premesse alle scelte metodologiche con l’espressione “sì, ma la ciccia dove sta?” (da notare che è riservata una valutazione apposita alla proprietà di linguaggio, ma solo a quella del candidato…).

Un altro, di fronte alla perentoria richiesta di una lezione simulata, inizia con una cosiddetta situazione-stimolo in cui parla di un fatto di cronaca relativo a un cattivo uso dell’intelligenza artificiale: un’auto guidata da un robot che investe un passante. Commento: “ma le sembra un esempio divertente questo?”; il candidato risponde che l’obiettivo non è divertire gli studenti, ma interessarli. L’esame, appena cominciato, è già finito.

In entrambe le situazioni il candidato ha parlato per circa 5 minuti ed è stato valutato con il punteggio minimo.

Mi fermo qui, nonostante molti cahiers de doléances potrebbero essere riempiti con la descrizione di questi frutti avvelenati. Quand’anche questi episodi riguardassero una piccola percentuale delle prove svolte, sarebbe irresponsabile liquidarli come inevitabili all’interno di una quota di irregolarità fisiologica. Non è da escludere che la pandemia ancora in corso abbia facilitato tali scorrettezze: la presenza di testimoni non è stata formalmente proibita, ma sicuramente scoraggiata dalle misure di contenimento (basta visitare i siti dei diversi USR contenenti le disposizioni dovute a motivi sanitari).

Credo che ci sia materia sufficiente per concludere che le gravi distorsioni ci sono state, per un intreccio di superficialità, fretta, retorica alla moda, conflitti di interessi e scarsa serietà.

Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata sul n. 92 di ottobre 2021 della rivista “Gli Asini”.

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