Le tentazioni della pernice
Su gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’estratto di Michela Fregona La tentazione della pernice, tratto dal volume Costola sarà lei!, nel quale dodici scrittrici trascinano fuori dall’ombra altrettante voci femminili di tutti i tempi: dalla Sibilla Cumana a Lady Oscar. L’opera è appena uscita per Destini Incrociati, la nuova collana che Saveria Chemotti, scrittrice, saggista e critica letteraria, ha inaugurato per la casa editrice Il Poligrafo e per la quale è già stato pubblicato il volume Il giogo dei ruoli, a firma della stessa Chemotti e Mario Coglitore.
Pisa, Royal Victoria Hotel – marzo 1869
Se state leggendo queste parole significa che io non sono più, e che è dunque arrivato il momento di liberare ciò che è rimasto occultato dall’opera fervida della donna che più compiutamente ho conosciuto in vita, e più intimamente ho amato e compatito.
Mentre scrivo non mi è ignoto quale potrà essere il vostro sentimento.
Se abbastanza mi fu concesso di capirla, avrà procurato con arte di levigare i confini della propria memoria, al fine di consegnare di sé un’impressione precisa, fermamente inviolata, com’è quella delle creste delle montagne nel cielo stanco di gennaio: mentre il vostro occhio ne insegue il profilo solenne e nero, il pensiero tutto agli apicchi monumentali, invero la bruma, di sotto il naso, si va mangiando ciò che minutamente muove nel fondovalle – nascondendovi, inabissandola dentro alle pieghe morbide dei poggi inghiottiti, la natura vera delle cose.
Mi chiamarono da ultimo Aloisia, colei che nella battaglia è gloriosa, ma il mio nome ha una duplice essenza, poiché significa parimenti sapiente – e di questa ambiguità i giorni che sono stati, se li guardo dal punto in cui sono giunta, portano perfetti il segno.
Ciò che so, ciò che ho compreso, lo devo agli studi cui applicò la propria ragione Filippo Cardona, uomo di scienze e di lettere, medico e riformatore, dotto fisionomo e studioso della psiche, il quale me ne mise a parte dopo essere stato ammesso, per primo e solo, alla fiducia di tanto singolari accadimenti, che pure io stessa condivisi.
Ne ho serbata memoria in queste carte, cui lascio il compito di sopravvivermi, confidando in tempi in cui non sarà scandalo alcuno ritenere che una donna non nasce soltanto per ciò a cui gli uomini la credono destinata.
1847.
Promenade
Nel Palazzo, Scalinata d’ingresso.
Ogni passo ha il proprio peso e una necessaria controparte. Ma per ogni scalino guadagnato a questa volta di marmo, altrettanti furono, aggettanti nel vuoto dalla balaustra tornita, i desideri uccisi dal procedere del tempo: un olocausto di brame sacrificato al dio del cambiamento – Hermes o Giano, medesimo è il confine. E se pure risulta invisibile la somma degli sguardi affissi nell’aldiquà di una soglia sempre vietata, ecco: su ogni singola scalfittura resta per sempre l’ombra dei sogni mandati a schiantarsi sul legno del massiccio battente.
Per come la vidi intera, la prima volta che varcò la porta, fu la donna del non.
Non alta, non grassa, non definita d’età, non bionda. Diafana di troppa clausura, due occhi vigili e tristi, un’ombra accennata sotto le palpebre per soverchio studio, la bocca non grande ma carnosa e volubile.
I capelli, scuri, divisi da una precisa scriminatura che si dipartiva dal centro della fronte, scendevano in due bande ai lati dell’ovale. Chiusa nel severo abito nero, l’unico colore che le era stato concesso fin da bambina, era sottile di vita, e silenziosa.
Tanto controllata pacatezza, in quella mattina di maggio dell’anno 1847, risultava incrinata dal gesto, del tutto inusuale, di mostrarsi di persona a ricevere l’ospite fin sull’uscio, e senza servigi intorno.
E fu forse per cagione di quella bizzarra iniziativa che le pagine che ora leggete poterono infine affiorare: fu, quel passo, la lama che incise l’acqua cheta del suo sguardo.
La soglia è confine e sorgente, valico e apertura: e se Giano ne propizia gli inizi, essa è prima ancora luogo di Hermes, colui per il quale non esistono né serrature né recinto né limite.
«Ringrazio il Cielo: siete arrivato presto, dottor Cardona!
«La vostra lettera, contessa…
«Sì, sì. Non mi risolvevo a osare, ma
«Avete fatto bene. Come vi sentite?
«Fatico, invero
«Il respiro?
«…una… una costante plessione, come non
«Avete affanno?
«…io…
«Contessa
«…
«Per l’amor di Dio! Qui, si appoggi, contessa, non…C’è qualcuno? Qualcuno mi aiuti!
(rumore di passi, una ragazzetta molla il manipolo di fieno e accorre. Tra i fili d’erba, sulla pietra della piazza, cadono petali di cinerosa, notoriamente delicati).
Intermezzo 1. Dal verone.
Lettera a don Sebastiano Sanchini
Natio borgo selvaggio, 23 luglio 1835
Siete andato, infine.
Non ricordo neppure quanti giorni sono rimasta su questa sedia, ad accompagnarvi da qui.
Ora guardo la finestra che vi ha reso mio complice: avrete sentito le mie preghiere? Quando stamattina i cardini hanno infine girato, producendo il ben noto richiamo divenuto da ultimo lamento di prefica, ho capito: si è provveduto a spalancare i vetri perché l’agonia è terminata.
Il vuoto mi è salito fino alla gola.
Se avessi steso la mano oltre il muro del giardino sarei forse riuscita a dare un’ultima carezza alla vostra anima: vi avrei restituito la tenerezza che usaste un tempo con me, bambina. Mi chiedo: avreste riconosciuto la mia voce? I morti sentono le voci dei vivi?
Chissà se lì dove siete, ora, serbate memoria del nostro segreto… ad ogni modo, da adesso in poi, ne appartiene uno in più a me: sola. Non ho saputo resistere, don Sebastiano.
Il vaso – il nostro vaso – il prode Galehaut che tante volte mi trasse dal deserto della mia solitudine, era rimasto chiuso fuori, dimenticato sul davanzale, divenuto sentinella spoglia alle vostre ultime ore.
Non più mazzetti di novelli fiori, né rose odorose, o lente ginestre. Non più foglie d’alloro e brune viole.
Fu la sua nudità a restituirmi a mente in quanti modi era stata la sua manifesta gentilezza di segnacolo.
In hoc signo vinces. Così diceste, tenendo forse troppo forte per le anse, a due mani, quel non-più-solo-vaso (ma ormai battagliero vessillo) il giorno che accoglieste la mia disperazione.
Voi lo avevate compreso, il perimetro gelido di questo paradiso.
Dove stava la santità nel lacerare la lettera di una amica davanti al cuore trepido di una ragazzina. Dove l’onorabilità nel costringerla isolata dal mondo, inchiavata in casa. Dove la rettitudine nel volerne piegare ogni volontà, eterodirigere nel dettaglio la corrispondenza, controllarne ogni rigo, chiudere ogni possibile slancio. In nome di quale dio poteva mai esser la pretesa di ridurre al silenzio di una giovane vita non solo la parola, non solo i gesti le letture lo spazio di movimento: ma persino – persino – l’escursione del pensiero.
Quid vincam, domine? Cosa vincerò, signore? (controvoglia, stetti al gioco).
Ciò che solo vi dà direzione nei giorni, rispondeste: ogni volta che sarebbe arrivata una lettera il vaso sarebbe stato sul davanzale, lo stesso sporto glabro che ora guardo dal verone della mia stanza.
Non vincerai, riprendeste (la vostra voce: ancora risuona, e io prego già perché mai si affievolisca, mai abbandoni lo spazio circonflesso dietro la mia fronte, nell’incavo delle orecchie).
Non vincerai, ma l’avrai vinta: e anche in questa presente disperazione io lo ripeto, e lo ripeto, e lo ripeto a me stessa. Quanta salvezza in così poche parole.
Sempre sarò debitrice della vostra umana pietà, don Sebastiano: voi mi avete insegnato che libertà significa far continuare l’invisibile. Trovare un modo. Trovare un modo per esistere, comunque.
Marianna Anna Vittoria Antonietta Pietro Annesio Gian Pietro: non mi è stato dato conoscerne il volto, e però in questi tredici anni sono riusciti ben più di semplici nomi. Li scrivo per voi, li scrivo per me. Ognuno è una porta. Ognuno è la voce – in carta – che altrimenti non mi avrebbe raggiunta.
Capite, don Sebastiano, perché l’ho rubato, quel vaso, pur sapendo che lì, dietro gli scuri, stavano i vostri ultimi lamenti? Potrete perdonarmi?
Non avrei sopportato che finisse, gettato o dimenticato in chissà quale pertugio. Non avrei tollerato che, rotto, ne venisse spezzato l’incanto di messaggero.
Ora è qui, con me: lo cullo in grembo e ascolto l’impronta della bontà che vi avete lasciata impressa. E un poco meno aspro è, questo naufragio.
1847.
Pomeriggio del giorno successivo.
Nel Palazzo, Studiolo.
Non era forse di febbraro, il più temibile dei mesi? Purificare, chiedeva Februus il demone: e i tre banchi appaiati nello studiolo luminoso, acconci a ricevere fino all’ultima luce di ogni giorno invernale, furono luogo di espiazione pur nell’età felice. In quella stanza, la meglio orientata dell’intero stabile, che pure occupa un isolato abbondante, il capriccio di un dio etrusco esigeva da ciascuno con inflessibile, imperscrutabile sorriso, il rimedio dei propri errori bambini al prezzo di lunghe ore di studio.
Il piano d’educazione escogitato (punizioni corporali: sì. compostezza posturale: sì. controllo degli obiettivi imposti: sì. gratificazioni: rare, e con parsimonia) culminava il secondo mese dell’anno in un tempo di prova, di misura, di esposizione: il certamen.
Februus riscuoteva in un pubblico esame (invitati parenti, amici, dotti, curiosi che accorrevano alla bizzarra impresa) la dedizione dei figlioli al progetto paterno: la perfezione del sapere.
Eppure esibire il prodigio dell’apprendimento ha un suo crudele risvolto. Non sfugge, infatti, che ogni incrinatura, anche il minimo fallimento, rischia in breve di mutarsi in imbarazzo, in involontario sbugiardare, infino in un imperdonabile tradimento delle aspettative adulte.
«Mi chiamavano Doralice, per gioco. Un nome letterario da antichi cavalieri: e la mia attenzione era il premio della disputa tra i miei fratelli. Ha idea di quanto mi battesse il cuore quando il foglio della prova finiva per palesarsi davanti a me, sul tavolo, e pure ancora non mi era concesso di toccarlo?
«Come state, oggi, contessa?
«Immagino di dovervi dire bene, dottor Cardona. Perché la tristezza si è di nuovo fatta lago dentro di me, e tutta mi tiene. Li vede, quei tavoli? Noi stavamo seduti lì, eravamo in tre…
«E vostra madre?
«No, maman no – a proposito: non avrete il bene di conoscerla, rispetta il lutto più stretto, come attendeva di fare da quando mio padre fu colto dalle propaggini della malattia -. Comunque… no, non si interessava (né si interessa punto alle questioni di studio). La domenica, anzi, ci chiudeva l’accesso ai libri, in nome del Signore. Per tutta la settimana combattevamo le ore, l’intorpidimento, il freddo, la sonnolenza (severamente punita), la fatica – anelando ogni minuto la domenica. Ma poi, quando arrivava, era un giorno torbido di noia, faticoso da uccidere. Finivamo per desiderare la gleba zelante che nostro padre aveva inventato per noi. Non un istante passava che non imbastisse una nuova prova nella sua fervida mente.
«Egli sedeva là?
«Alla scrivania, sì. Sulla predella, sollevato da noi. A suo insindacabile giudizio dovevamo la scelta dello studio imposto. In qualsiasi momento arrivava, e controllava lo stato della nostra progressione. Era terribile, ma io… io desideravo la compiacenza del suo sguardo. È difficile da spiegare. Lei dice fosse una forma d’amore?
«Mi racconti della prova.
«Prenda quei fascicoli, ecco: lì. La vede, che eleganza? Stampati al torchio, a Loreto. Li ha tenuti sempre in bella vista (non riesco ancora a capacitarmi che dopo tanta devota applicazione la sua mano malata non sia neppure più stata in grado di reggere la penna per mesi). Legga. C’è tutto…
«Die 9 februarii 1810: questo?
«Sì, il mio terzo saggio pubblico. Io mi sentivo atterrita. E: importante. Era il suo momento, e noi partecipavamo alla sua gloria, ne eravamo responsabili. Io, in particolare: mi vezzeggiava, come una Nannerl. Quanto sia stata, in fondo, responsabilità di Leopold Mozart, a questo ho pensato solo dopo.
«Quaranta domande: venti di scienze e venti di storia. La pioggia, il tuono, la luna, il flusso e il riflusso del mare…eclissi comete stelle cadenti: davvero riusciste a cavarvela con questo, a 8 anni?
«Ah, fui brava. Mi tenevano i capelli corti, come quelli dei miei fratelli; vestivo una tunica nera: un piccolo abate, sembravo. Mia madre non si presentò. E gli anni appena successivi musica, francese, latino: divenni la più dotta di quattro quinti di tutte le giovani della mia età. Sapete cosa vuol dire? Che con nessuna di quelle che mi stavano intorno io potevo trovare di che dire. E che da tutte sarei stata guardata con diffidenza. Presto il prodigio che siamo pronti a riconoscere all’infanzia divenne maledizione: quale uomo sarebbe stato disposto a saperne meno della propria compagna? quale giovane si sarebbe accostato se non per sfida, o supponenza, o esperimento di stramberia, alla mia persona?
«Ne foste presto consapevole?
«No, non subito: i miei occhi erano orgogliosi dell’orgoglio di mio padre. Me ne abbeveravo: ogni sguardo conquistato (per me, solo per me) mi riempiva l’anima. Oggi che lui non è più io tocco il legno di questi banchi e penso a quel tempo di feroce attenzione. Mi forgiò senza saperlo. Mi forgiò oltre lui. E, pur non volendo, mi aprì all’infinita possibilità del sapere. La mia vera casa furono i libri.
«Da quanto tempo è mancato, contessa?
«Or sono trentun giorni, giusti.
«Si è mai sottoposta ad ipnosi, prima di ora?
«No. Appresi del mesmerismo mettendo insieme il materiale per il mio libello su Mozart, ma non ho mai approfondito…
«Se la sente di iniziare la seduta?
«Certo.
«Che lei sappia, vi furono altri episodi di sonnambulismo in passato?
«No. Prima di queste settimane mi sono sempre svegliata nello stesso letto in cui mi addormento da quando ho memoria.
«Allora iniziamo. Ciò che stiamo per fare le indurrà uno stato di tranquillità: dentro a questo stato inizieremo a camminare. Mi guardi, contessa: ora io la chiamerò per nome. Col suo vero nome…
Intermezzo 2. Camera da notte
A se stessa
Anno di grazia 1832.
L’ultimo dei proci è stato cacciato.
No: al giovane signore che tanto insiste sarà detto no. Né mi opporrò.
No fu per quel tal Brighenti, borghese ma non nobile.
No fu per Leopoldo Staccoli di Urbino, non sufficientemente ricco.
No per il povero Acquaticci, considerato acciaccoso.
No, in quattro diverse fiate, a Pietro Peroli: non bello, non ricchissimo come si stimava, non giovane – solo desideroso di una giumenta da riproduzione benché letterata (no nell’aprile incantevole della mia prima illusione; no, dopo tre lunghi anni di cocenti sconclusioni: né in novembre, né a Carnevale, né a Pasqua).
No a quel cavaliere di Roma, direttore del Censo: tristo, vedovo, vecchio, con una figlia già in età da marito; con cui troppo a lungo si mercanteggiò della dote che maman riteneva giusta esborsare – e finì per scegliere un’altra, i cui quarti di nobiltà e di coscia non peccarono certo di avarizia.
Fui rifiutata due volte: la prima mi tolse il cuore, la seconda la dignità.
Nulla ho desiderato più che la fuga da questo soggiorno glaciale: e sono stata cieca al gioco che si compiva sulla pelle della mia anima. Molti modi esistono per straccare un pretendente, ma più perfida è la crudeltà di illudere la parte che nulla può decidere – e solo può attendere in silenzio che la compravendita si compia altrove che da lei.
Mio padre non ha mai voluto maritarmi a chicchessia, questa è la verità che oggi mi si rivela. Egli mi legherà a sé, persino dopo la sua morte: prevede di tenermi sepolta in questo paese, il più infame e maledetto che vi sia al mondo, e senza speranza anche remotissima di miglioramento, al prezzo del soldo dell’eredità che mi destina.
Del medesimo sentimento, per sue logiche arcane, è sempre stata anche maman, che ha reciso tosto i migliori e in seconda i meno peggio: cosa sarebbe dunque, ora, questo improvviso impazzimento di volermi ammogliare, se non la raffinata manovra di condurmi da me ai ceppi, ventilando la facoltà di darmi a un uomo né di rango, né di cultura, né di ingegno?
Sarà no, dunque, anche per l’ultimo dei proci.
Troppo tempo ho passato sospesa tra la realtà e il sogno: mentre il mio cuore trepidava alla lusinga di divenire l’approdo per il nobile e bel Roccetti, mentre forzavo il mio ardire a consigliarmi con il fratello mio adorato (io, che nella galanteria non ho garbo), mentre fantasticavo di cosa avrebbe significato compartire la vita e il talamo con un giovane che sapevo aver esercitato il proprio talento amoroso con una certa spregiudicatezza (ah, che errore sentirsene attratta al pari che da una implicita promessa!) – e mi lasciavo dire che, insomma, sì, quand’anche fossimo stati marito e moglie, non avrei dovuto aspettarmi la totale fedeltà, e che però certe faccende sarebbero state risolte comunque con discrezione (dando per scontato che una come me non avrebbe mai mai mai potuto soddisfare la sua passione)… ecco: mentre in tutto questo turbamento la mia mente era lontana, fu facile fare scempio pubblico del mio corpo.
Io, che non avevo mai messo il naso fuori di casa (se non per quei diabolici saggi, acconciata da abatino; o al seguito stretto delle sparute uscite di famiglia decise dal padre – mortificata sempre dal nero, la mia personale vedovanza nei confronti dell’età fiorita, tranciata in germoglio dalla cesoia a lutto di maman) fui preceduta dalla favola di difetti che ignoravo di avere. E, del resto, se colta, una donna deve pur espiare anticipatamente in qualche modo il peccato della sua intelligenza.
Stefano Castellani fu un villano, benché marchese.
Disse di non volermi vedere perché gli avevano garantito il mio fisico essere non gradevole. Se cambiò idea perché biasimato per la puerile risoluzione, o per suo capriccio, o perché gli punse vaghezza, ciò non muta la spiacevole curva cui atteggiò la sua bocca il pomeriggio in cui accettò di vedermi, l’arroganza con cui andò incontro a quella me ignara, in piume, le parole con cui mi offese, il tradimento di una fiducia che non avevo motivo di non dare.
La viltà di una aggressione inferta a chi non pensa di trovarsi di fronte un nemico, ma si presenta inerme e fidente, in nulla provveduto a schermire sé stesso: questo fu, Stefano Castellani marchese di Treja.
L’uomo che colpì a morte la mia innocenza, quando ancora pensavo che per divenire completa sarei dovuta essere la metà di.
Dieci anni sono stati un Golgota sufficiente a percorrere per intero il periplo del supplizio nell’attesa di essere affidata.
Oggi affermo che: no, non ci sarà matrimonio. A nessuno dei proci andrà Doralice.
Né il mio talamo è abbandonato: io sola sono l’imperatrice del mio corpo. E piango, e fremo, e ardo – come tutte le donne, ma con più libertà e più fervida immaginazione.
Non è indispensabile alcun uomo.
Per riempire le notti esistono i libri. E per fare compagnia, è sufficiente un lapis.
1847.
Prima settimana di giugno.
Nel Palazzo, Biblioteca.
Non esiste luogo più sacro di queste stanze. Di qui si dipana il minuto sistema venoso che ha tenuto in vita la vita nel tempo della non vita. Il capolavoro di un padre: ventimila volumi, l’immenso granaio del sapere, la pulsazione segreta, il muscolo involontario. Ogni pagina strappata alla macerazione, una regione aggiunta all’ambizioso progetto educativo programmato (sulle carriole arrivavano, anche dai conventi, dai mercati lontani, nella stagione delle requisizioni giacobine, i frontespizi istoriati – ancora intrisi delle lacrime dei frati costretti a mettere all’incanto, forzati alla gratitudine per i dodici denari che gli avrebbero permesso di campare). Può esserci forse gioia nella fondazione di una architettura sì costruita?
I Padri della Chiesa, la penitenza degli in folio, la polvere rugginosa: questo, mentre nel mondo un’intera generazione di leggiadri tometti prendeva corpo – tremendamente lontana.
Quanto ai Libri Prohibiti, poi… La malizia dello scaffale lasciato a vista, i titoli dei dorsi perfettamente intelligibili tra le grate, la seconda fila nascosta, i ripiani più alti inaccessibili: che superba prova di forza, solleticare la curiosità delle giovani menti per poi negare soddisfazione (o centellinarla, a proprio piacimento, inducendo la compiacenza la questua la seduzione – tutti spiriti verso i quali, a seconda dei giorni, indulgere con magnanimità o repentinamente umiliare, svergognando l’evidente peccato di deficiente fortezza).
«Mi boicottò
«Come dice, contessa?
«Prima mi usò: si servì del mio cervello per il suo foglio periodico. Tre anni senza scampo. Sa quanto lavoravo, mio egregio Cardona?
«Posso immaginarlo?
«No. Non credo. Libri, gazzette, giornali francesi: leggevo, individuavo, traducevo (anche otto pagine in un giorno), correggevo gli stamponi, scrivevo.
«Sempre?
«Giorno e notte; lui e io, io e lui. Mio fratello diletto, Muccio, se n’era partito; l’altro si maritò di testa sua, e per amore venne diseredato. Rimasi sola. Io: intelligente, reattiva, sollecita, dotata. E donna. Dunque, non antagonista, per definizione. Ne aveva tutto solo che da guadagnare.
«Dice che fu un calcolo?
«Ah, lo pensava schiettamente. Lo scrisse anche ai suoi sodali: la mia amica collaboratrice è il vero sostegno al giornale nostro, e senza nessun compenso… rubare quelle parole di nascosto alla sua lettera mi demolì. Cos’ero dunque, se non una collaboratrice da non prezzolare. Non: una figlia. Non: un ingegno. Fosse stato Muccio, ben altra sarebbe stata la considerazione.
«Vi sento più che mortificata. Perché?
«E però era anche mia, la colpa. Mi aveva lasciato lasco il giogo fintantoché non mi fossi messa bene in trappola. Tutta mi ero data all’impresa pur di combattere il vuoto schiacciante delle ore, ma mi avvidi che ero così diventata indispensabile. Certo che non mi avrebbe mai più data in sposa a nessuno! Credo che qualsiasi anima sensata possa facilmente persuadersi che gusto potessi mai provare passando la vita a tradurre articoli pel giornale…
«E non le lasciò mai libertà?
«Mi boicottò
«Che intende?
«A La voce della Verità, un giornale più grande, al quale lui spesso mandava suoi scritti, mi chiesero di comporre del mio, per loro. Successe quello che non poteva aspettarsi: cominciarono a rifiutare i suoi articoli. Per i miei, invece, c’era sempre spazio. Così mi proibì di inviare contributi.
«E lei?
«Non capivo. Non vedevo. Per anni non riuscii a rassegnarmi a tanta evidente viltà. Poi, un giorno, dopo lunghi mesi in cui non una missiva mi era giunta dai miei corrispondenti correnti, scoprii per caso, nel suo studio, le lettere che mi erano state indirizzate. Lettere di undici, dodici mesi prima, capisce? Aperte.
«Lo affrontò?
«No.
«Perché, in nome del Cielo?
«Capii che non avrei potuto vincere contro di lui: avrebbe avuto sempre dalla sua il potere di fare e di disfare. E poi mi bruciava di più, il giudizio che su di me avrebbe potuto invece avere l’ottimo redattore, rimasto senza più mie da quasi un anno. Così trovai un modo…
«Cioè?
«Feci recapitare le mie lettere all’indirizzo della Signora Corsetti. Mi ero illusa, crescendo, dopo la morte del mio antico tutore, don Sebastiano, di poter avere accesso al controllo del mio. Ma il buon don Sanchini l’aveva capita, di che tempra era, la paterna opera censoria adoperata su di me fin da bambina, e mi aveva insegnato la via della persistenza. Per tredici anni fu la mia sponda: dopo il 1835, quando morì, pensai di poter essere sufficientemente grande per rivendicare il mio. Invece…
«Invece suo padre continuava ad esercitare il controllo.
«Anche maman. Ma mi industriai: quando iniziò a costare molto la posta ordinaria, e i miei traffici avrebbero corso il rischio di diventare troppo evidenti, inviai le mie carte regolarmente al negozio Scarabelli, ad Ancona, insieme alle pezze, ai tessuti e alle calze da tingere. Da lì facilmente le mie traduzioni potevano essere reperite.
«E riuscì a mantenere una buona corrispondenza?
«Uscirono, miei, oltre quattrocentocinquanta titoli. Su otto giornali: a Venezia, Lugano, Modena, Milano. Quanto allo scaffale dei Libri prohibiti, li lessi tutti. Mio padre non andava a dormire con le chiavi, in grazia di Dio. E così l’ebbi vinta.
«Ditemi, com’è il vostro sonno?
«Dalla scorsa settimana è migliorato, dottore.
«Ha avuto ancora vertigini?
«No. Dalla prima ipnosi, non più.
«Se la sente di iniziare la seduta?
«Certamente.
«Allora iniziamo. Ciò che stiamo per fare le indurrà uno stato di tranquillità: dentro a questo stato inizieremo a camminare. Ora io la chiamerò per nome, contessa. Il suo vero nome…
1847.
Solstizio d’estate.
Nel Palazzo, Anticamera
Fu la notte antecedente alla ripartenza del dottore che si compì infine il medicamento, a suggello che la terapia era, pur nel dolore della presente età, andata a buon esito.
Era, la porta dell’anticamera, nell’attesa di ottenere una nuova serratura, e dunque, benché accostata al battente, per nulla si chiudeva.
La luna era alta nel cielo. Nella stanza, i lumi concordavano a rendere una certa morbidezza delle ombre.
Dagli armadi i vestiti venivano tratti fuori con tenerezza infinita, uno alla volta, con morbido fruscio di taffetà e crinoline: ogni anta produceva un lamento personale, una voce rara, come il dischiudersi di un antico segreto.
Tra le stoffe sgargianti si muovevano i piedi, nudi e sottili sulla frescura del pavimento.
L’acconciatura severa era stata allentata: i capelli neri scendevano fin sotto le anche.
Era una cerimonia?
Era un invito?
Era una rivelazione?
L’occhio del dottore, attirato da quello che, nel silenzio notturno, lo aveva dapprima raggiunto come strazio improvviso, e poi, nel mutismo delle stanze immobili, era divenuto portentosa malia, si avvicinò alla fessura.
Atteso.
Finale.
lettera a filippo cardona
Firenze, settembre 1857
Dottore pregiatissimo,
se ricordate con quanta riluttanza cedetti infine ai vostri assennati ragionamenti, l’anno che mi faceste l’onore di prendermi in cura, ebbene: sappiate che il Destino ha voluto confermarmi nella mia personale persecuzione. Per la terza volta nella mia vita il settimo anno della decade è per me foriero di mestizie.
Il mese scorso maman è infine spirata, all’età di settantanove anni.
Una penosa malattia delle gambe l’aveva costretta invero a letto da tempo: e fu probabilmente nella sospensione di quelle lunghe settimane che maturò qualcosa, dentro di me, di cui intendo mettervi ora a parte.
Sia chiaro che, benché immobile, in lei – la panoptes, colei che tutto vede, che aveva terrificato con cento occhi e mille orecchie ogni giorno dell’infanzia di noi bambini – nulla era cambiato della sua attitudine: seduta, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito ai giacigli, non finta ma viva, di volto bello e terribile, comandava sempre e ancora.
Certo, non era più in grado di spalancare ogni porta a sorpresa, come era usa; ma ancora il suo sguardo era bastevole per pietrificare chi le stava davanti, e renderlo mummia da esporre in qualche museo.
Lasci però che le racconti cosa successe uno di quegli ultimi giorni.
Da tempo ormai la rigida disciplina alimentare improntata a una univoca sobrietà non era più, poiché il suo stomaco delicato esigeva una scelta oculata di pietanze leggere, che venivano preparate a bella posta per lei.
La gestione della dispensa mi toccò dunque per necessità: frugale come sono, lasciavo che la routine canonica scorresse così come era sempre stato. Una sera, però, colta da improvvisa malinconia di fronte a un tramonto particolarmente bello e particolarmente solitario, decisi di togliermi un capriccio al quale, in realtà, attendevo da tempo. Il fattore disse che non sarebbe stato un problema.
Desinai con somma soddisfazione, benché sola, nella immensa stanza da pranzo.
Sia stato l’effetto di quella inusitata pietanza, o del temporale, o non so: fatto è che, addormentatami nel mio letto, mi ritrovai in piena notte seduta al capezzale di lei.
Se io abbia veramente detto:
«Le pernici, maman.
Hanno una carne tenera e rosea»
– o se lo abbia soltanto immaginato, non saprei dirvi. So per certo, però, che maman fu sconvolta da quello che vide – o quello che capì di me.
Al collo, quando mi svegliai davanti al suo letto, avevo annodato un nastro di velluto vermiglio (ma sapete che a me è il nero l’unico colore concesso al di fuori della mia stanza).
Tempo due giorni, si aggravò.
Mi lasciò così come era sempre stata: chiusa nel suo broncio.
Se un giorno vi chiederete quando sono stata messa al mondo per la quarta volta, potrete dire che è cominciata proprio così, dalle pernici.
Ma non ditemi però che non è affatto vero che il numero sette non significhi nella mia esistenza da quando, trent’anni fa, mi portò via il mio amato Muccio, la più poetica delle anime trascorse in questo secolo; e dieci anni dopo, al tempo che ci conoscemmo, mancò, tra sofferenze di asma e di assenza mentale, mio padre. Ed ora: maman.
Ma poiché in ogni cosa è anche il suo contrario, ricordo che era sette pure l’anno in cui, per la prima volta, mi vidi intera, e mi riconobbi, aspettando voi, nell’atrio della mia casa avita.
Fu salvifico. E voglio rassicurarvi su quello che successe dopo la dipartita di colei dalla quale non ebbi mai una sola carezza.
Ho ascoltato voi, dottore.
Non ho atteso che si consumasse la misura del lutto: ho sacrificato anzitempo la mia vita, e pagato in anticipo il fio.
Le vesti nere hanno bruciato benissimo insieme alla sterpaglia.
Ho fatto aprire una larga finestra nei miei appartamenti: i lavori sono in corso, come il rifacimento di molte stanze. Io, di mio, sono partita.
Ho affidato ai fratelli Alinari il compito di fare uscire le mie fattezze dall’ombra: i miei ritratti sono già in viaggio, a preannunciare il mio arrivo agli amici che, dopo decenni, posso infine ora incontrare.
Le quattrocento lettere nelle quali sono stata nei loro pensieri sono state la mia vita sotterranea, ma dissento totalmente da quello che sosteneva mio fratello: no, il mondo non è bello solo se veduto da lontano.
Tutto è invece più vivido e caro: persino la mancanza di lui, che vado seguendo attraverso le tracce che ha lasciato nella sua vita girovaga. E per il sette della prossima decade ho intenzione di andare a trovarlo proprio lì dove riposa, sperando nella pigrizia delle Parche, che lascino il tempo alla mia povera anima di vivere la sua giovinezza fuori tempo.
coda
Parco Virgiliano a Piedigrotta, Napoli.
1867.
Ora che sei qui, dal profondo di questo silenzio ascolto il tuo respiro. E ti chiedo perdono, sorella.
Se la tua mano non mi raggiunge, perché un marmo ci separa, pure sento te, fortissima, attraverso l’aria che riempi con il tuo profumo.
Mi arriva ciò che è stato tuo, tutto tuo da sempre, e che io so e riconosco come solo tuo ché da te emana, e ininterrottamente mi molcisce il cuore: essenza di rose, miele d’Inghilterra, Mille Fiori.
In tanto tempo trascorso nella nostra distanza sei rimasta intera nel tuo profumo, pure mentre io mi allontanavo, e non vedevo – non volevo vedere – quanto di te l’incuria degli affetti avrebbe potuto fagliare.
Sei stata la mia prima traduzione nel mondo: tu hai assorbito ogni mia riga, io mi sono abbeverato ad ogni tuo carattere. Se ho potuto comprendere quanto (e come) le mie parole avrebbero infine avuto facoltà di sollevarsi sulle loro gambe maldestre e camminare nel mondo, questo io lo devo al tempo paziente e fervido che tu mi hai dedicato: mai dubitando, accompagnandomi sempre – in avanti.
Solo da questo luogo mi sono reso conto di quanto gravoso peso io ti abbia cinto le spalle: non è affatto quello del copista un mestiere da disprezzare, ti scrivevo. Sordo al significato profondo di quello che imponevo non alla tua pazienza, ma alla tua umiltà. Quante volte la tua mano sul foglio, insieme alle parole, avrà calcato pensieri da te stessa pensati, e però vietati alla tua condizione? Quante volte, inseguendo un ragionamento, sarà stato trascinato il tuo ardire a scontrarsi con l’impossibile scarto tra sensatezza e conformità sociale?
In te ho avuto il primo, più profondo e vitale ri-conoscimento del fatto che in tempi estremi il sapere è infine l’unica possibile terra per la libertà e la resistenza.
E però non ho esitato a voltare le spalle, a negare a te sola ciò che avevamo compreso insieme.
Io vi ho marchiato, sorella, con quella prima ode di nozze: ho omaggiato un altare vuoto, e vi ho abbandonata a dibattervi nella disperazione di sapervi oggetto impotente alle transizioni matrimoniali – mentre con intelligenza vi facevate persino persuasa della necessità di rassegnarvi e (addirittura) alfiera di una ragionevole collaborazione.
Consegnarsi, ridotta, nelle mani di uno stemma, o di un patrimonio, pur di sfuggire a quel morto presente: che coraggio, sorella! Che coraggio aveste mentre dalle mie fughe mi permettevo persino l’oziosa reprimenda: la speranza è una passione turbolentissima, io vi scrivevo, perché porta con sé necessariamente grandissimo timore che la cosa non succeda.
Che idiota.
Solo un idiota poteva invocare in tanta disumanante crudeltà la compostezza – senza banalmente considerare che, se non aveste sperato, e resistito, voi oggi non sareste qui, ma nel fondo buio dell’Erebo, ficcata a testa in giù tra i derelitti, nella foresta dei suicidi.
Illusioni, rimembranze, noia: quanto piccola filosofia fu, la mia, se, con gli occhi proiettati all’universo, neppure riuscii a prestare orecchio a chi, nelle mie medesime stanze, traeva i giorni in una doppia schiavitù, per natura e per destino.
Fu per me fatica, e pena, vivere dove e come volessi – eppure, infine, mi fu concesso. E mi fu concesso leggere, pensare, ascoltare, camminare senza un dove né un quando, in qualsiasi ora del giorno, in solitudine e in compagnia; mi fu concesso attraversare i ponti delle grandi città, restare immobile davanti al mare, chiudere una porta quando volessi e aprirla, accedere ai luoghi pubblici, istruirmi in ciò che desideravo – scegliere financo chi amare.
Mi costò, è vero. Ma non trascese il mio controllo.
Voi, sorella, non poteste mai tutto questo insieme. Neppure oggi che state davanti a questa pietra da sopravvissuta.
Cominciai a intuirlo nei miei ultimi versi, di lava e di renitenti arbusti. Ma non me ne restò il tempo, per colmare il vuoto.
Perciò ti prego di perdonarmi, poiché non ho saputo sentire. Perdonate me: per ogni donna che è stata, per quelle che saranno costrette a resistere nel domani che si appressa, e per ognuno dei nomi che avete avuto in sorte: Paolina Francesca Saveria Salesia Placida Blancina Aloisia, contessa Leopardi.
E, per me solo, Doralice: dono dell’alba.
L’alba della mia comprensione, che, sebbene in queste tenebre, grazie a te, infine, mi raggiunse.
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