Su Estremi Occidenti di Valentina Sturli
Il saggio Estremi occidenti. Frontiere del contemporaneo in Walter Siti e Michel Houellebecq di Valentina Sturli (Milano-Udine, Mimesis, 2020) passa in rassegna la produzione narrativa di due autori i cui romanzi hanno fatto spesso discutere: in essi viene colpito, smentito o provocato il comune sentire del ceto intellettuale dell’Occidente considerato per antonomasia progressista, tollerante, solidaristico. Come ha sottolineato Raffaele Donnarumma nella presentazione del numero di Allegoria dedicato agli Immoralisti (n. 80/2019), autori come Siti, Houellebecq, Littel, Easton Ellis vengono considerati tali “non tanto perché parlino di cose inaccettabili, ma perché parlano senza le cautele che il senso comune giudica necessarie”.
In effetti a partire dall’anno di esordio, il 1994, rispettivamente con Scuola di Nudo e Estensione del dominio della lotta fino agli ultimi romanzi presi in considerazione da Sturli, Bontà (2018) e Serotonina (2019), Siti e Houellebecq non smettono di esibire posizioni “estreme” su un Occidente visto ormai all’estenuazione. Nella sua Introduzione, Sturli scrive:
essi sono due volte estremi: perché si occupano dell’estremo contemporaneo e perché lo fanno in modo estremo, se non addirittura estremistico. (p. 17)
Il saggio presenta una struttura molto compatta e equilibrata: dopo la prefazione di Emanuele Zinato, e l’introduzione di Sturli, il lettore si trova di fronte a una netta bipartizione del saggio: la prima, titolata “Una semplicità fin troppo complessa”, è dedicata a Houellebecq mentre la seconda è incentrata sulla “funzione Siti”. Ognuna di esse comprende quattro capitoli nei quali l’autrice analizza la produzione dei due narratori. A fronte di un’immagine del mondo “spesso parziale, disturbante, finanche deliberatamente distorta” (p. 16) rappresentata nei loro romanzi, Sturli è animata dalla convinzione che la letteratura
può permetterci di vedere qualcosa che le scienze umane non possono esplorare, e questo perché per vocazione affronta i conflitti individuali e collettivi senza pretendere di risolverli o giudicarli univocamente, ma percorrendoli dall’interno, restituendocene immagini che ne rispettino la natura ambigua e paradossale. (p. 17)
La prospettiva da cui si guarda a questi testi è quella di chi ha imparato, secondo la lezione teorica di Francesco Orlando, a interpretare il testo letterario come formazione di compromesso, ossia come “compresenza di opposti”. Nel suo saggio, Sturli mostra come nelle opere di Houellebecq e Siti, seppure in modo diverso, la messa in discussione dei modi di pensare e di vivere egemoni in Occidente conviva con una forma di attrazione, più o meno conscia:
Houellebecq è aspramente e univocamente critico rispetto al presente, proclama a gran voce quali sono i danni per gli individui e non accenna mai a possibili vantaggi, insiste invece sulla profonda capacità di rovinare le esistenze che hanno avuto i cambiamenti socioeconomici dopo la rivoluzione dei consumi […]. Siti esplora il lato più edonistico ed euforico della società dei consumi, gioca ambiguamente a lodarne i portati, si mette in scena come soggetto grato di tutte le opportunità che il benessere occidentale permette. (p. 22)
In effetti i protagonisti di questi romanzi, pur nelle loro differenze specifiche, appartengono al ceto intellettuale medio: sono colti, benestanti, intenti al godimento di corpi e merci, entrambi disponibili in grande quantità nella società tardo-capitalista. Ma con la frenesia del godimento convivono disillusione, cinismo, apatia. L’eros, fulcro delle loro esistenze, fa coesistere e confliggere rispettivamente affastellamento di esperienze e senso di vuoto, affannosa ricerca di contatto fisico e sostanziale solitudine del soggetto:
In questo senso Siti e Houellebecq sembrano benissimo prestarsi a incarnare quelli che di recente Recalcati ha individuato come i due aspetti opposti e complementari delle manifestazioni del desiderio nel tempo ipermoderno: da un lato la maniacalità della spinta al godimento illimitato, dall’altro il ritiro e la totale spoliazione di senso. (pp. 22-23)
La lezione di Orlando è ravvisabile, oltre che nell’impostazione teorica, nel metodo, ossia nel lavoro di minuziosa analisi condotto sul testo, nel suo “specifico modo di funzionare e significare” (S. Zatti). Un paio di casi possono essere considerati esemplari in questo senso, il primo tratto dalla parte dedicata a Houellebecq, il secondo da quella riservata a Siti.
Nel capitolo “La strategia della semplificazione” Sturli si prefigge di dimostrare come Houellebecq sembri liquidare in toto il portato della tradizione romanzesca sette-ottocentesca: l’attenzione alla vita interiore dei personaggi viene bandita in favore di una rappresentazione in qualche misura “etologica” dei suoi personaggi. Basti pensare al rifiuto programmatico per lo scandaglio psicologico espresso fin dalle prime pagine di Estensione del dominio della lotta, dove il narratore dichiara che una simile attitudine equivarrebbe a “mettersi a guardare le aragoste che passeggiano sul fondo di un acquario”:
Se pensiamo alle vette di complessità psicologica, emotiva, sociale che può raggiungere una certa tradizione narrativa occidentale, esordire con un’affermazione che di tutto questo bisogna fare piazza pulita, perché i personaggi non sono che cavie, è un’evidente rivendicazione d’intenti. (p. 52)
La sostanziale eliminazione di tutte le sfumature che concorrono a delineare i tratti psicologici, caratteriali, emotivi dei personaggi viene perseguita dallo scrittore francese sostanzialmente in due modi:
1. l’estremizzazione e la semplificazione delle reazioni, dei pensieri, dei sentimenti, dei discorsi dei personaggi; 2) un peso enorme attribuito alle dinamiche sociali e storiche da cui essi sono mossi, dinamiche che non costituiscono più né uno sfondo né una possibile concausa di certi comportamenti, ma l’unica e la sola causa possibile (p. 53)
Dopo aver esemplificato con una serie di passi testuali questa linea interpretativa, Sturli mira però a problematizzarla facendone una “lettura in contropelo”. Registra, infatti, come dietro affermazioni perentorie, e spesso irritanti, dei personaggi di Houellebecq siano all’opera spie linguistiche che dovrebbero indurre il lettore a coglierne il senso ambivalente e il portato demistificante. È il caso dell’avverbio semplicemente, disseminato in più di un romanzo (da Estensione del dominio della lotta -1994- a Le particelle elementari – 1998, da Piattaforma – 2001 – a La possibilità di un’isola 2005); in Houellebecq, scrive Sturli, c’è
l’inclinazione ad assumere la semplificazione dei termini in causa come mossa di disvelamento di una realtà che il discorso politicamente corretto vorrebbero invece velare, mistificare e dunque rendere più complicata. (p. 59)
Ciò non significa, tuttavia, che la complessità delle dinamiche umane venga del tutto bandita dal mondo dello scrittore francese: “Il dolore, l’amore, la colpa sono più allusi che descritti, si segnalano per una lacuna che deve essere riempita” (Ivi, pp.63-64): dove lo scrittore ricorre alle figure retoriche della litote e della reticenza, il tentativo di attenuare finisce per amplificare il senso di disagio o di strazio dei personaggi.
Diversa nell’impostazione ma ugualmente attenta a far parlare il testo è la disamina dell’universo narrativo di Siti. Di particolare rilevanza è il capitolo “Dove lo spirito del tempo si incarna”, dedicato al reportage dagli Emirati Arabi Il canto del diavolo (2009). Sturli segnala l’impiego pervasivo della figura retorica dell’adynaton: il mondo iperbolico, eccessivo, smisurato realizzato artificialmente a Dubai e Abu Dhabi appare, infatti,
un paradosso costitutivo, poiché [gli adynata] stabiliscono una continua negazione del limite che si fa essa stessa limite, inadeguatezza rispetto a quanto è esteticamente, urbanisticamente, umanamente tollerabile. L’estrema penuria ha generato in altri termini un sogno compensatorio che assume i tratti dell’iperbole fiabesca. (pp. 147-148)
Isole a forma di palma, piste da sci nel deserto, grattacieli altissimi sono fruibili solo entro i perimetri esclusivi di un mondo artificiale, lussuoso e kitsch. Al di fuori di questi luoghi sfavillanti e futuribili, campionario dopato di un modello occidentale che potremmo definire “il multiforme artificiale”, domina invece il deserto con la sua essenzialità, la sua ripetitività e la sua sterilità: possiamo pensarlo perciò come l’”uniforme naturale”. Tuttavia la polarità è più apparente che reale dal momento che il mondo intessuto di mirabilia di Dubai e Abu Dhabi è costruito sul paradosso, “non porta un reale sviluppo e progresso per chi lo abita” (p. 149) e la vita quotidiana si svolge all’insegna di comportamenti necessariamente “uniformati”:
Ecco che allora il lato negativo presto si svela oltre la patina glitterata della città, ribaltandosi in deprimente uniformità; lo si vede nella babele di lingue di chi si trova lì per lavoro, e può comunicar soltanto in un inglese minimale i suoi bisogni primari. A questa stessa uniformità negativa fanno riscontro le condizioni di vita degli immigrati, manodopera necessaria per la conservazione del paradiso artificiale: privati di identità e diritti, lontani dal paese di origine e senza alcuna interazione sociale, pagati male e trattati ancora peggio, sono preda della gestione tirannica delle imprese che li hanno assoldati. (p. 155)
La conclusione del saggio prevede, infine, un confronto ravvicinato tra Bontà di Siti (2018) e Serotonina (2019) di Houellebecq, a partire dall’ipotesi che i due narratori, dopo aver rappresentato l’Occidente contemporaneo in modo sostanzialmente cupo “per bocca di personaggi invischiati in dinamiche da cui sono irrimediabilmente irretiti” (p. 217), aprano uno spiraglio a “un bene in sordina e anti-sublime” (p. 233), trattato con la dovuta ironia o con il necessario disincanto. Rispetto all’approdo a un Bene rappresentato “in negativo”, è ragionevole manifestare qualche riserva: si può davvero parlare di Bene là dove i protagonisti di queste recenti prove narrative cercano di conseguirlo attraverso l’annullamento di sé?
Fatta eccezione per quest’ultima comparazione nella quale “balena lo spettro dell’arbitrio ermeneutico” (L. Marchese), pregio innegabile del saggio di Sturli è quello di dare un contributo significativo alla conoscenza dei testi di due autori tra i più controversi del presente. L’attraversamento che ne viene fatto prescinde da questioni di genere letterario (l’autofiction per il primo Siti) o di ordine sociologico (frequenti nelle discussioni su Houellebecq) per privilegiare nei testi quelle figure dell’ invenzione che mettono a tema, in forma di costanti, la coesistenza nella forma stessa di contraddizioni psichiche e sociali.
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