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diretto da Romano Luperini

In nome del padre: L’ombra di Berlino – vivere con i fantasmi del kindertransport – di Jonathan Lichtenstein

Da tanti anni desideravo andare con mio padre a Berlino, per poi ripercorrere il tragitto della sua fuga con uno dei convogli del ‘Kindertransport’. Purtroppo, però, la fragilità dei nostri rapporti imbarazzati e distanti aveva reso impossibile l’organizzazione di questo viaggio. Il pensiero di trascorrere giorni e notti insieme, gomito a gomito, non allettava né lui né me, perché non ci sfuggiva che un viaggio del genere poteva rovinare quel poco di affetto che solo negli ultimi tempi aveva cominciato a nascere tra di noi. Sapevamo entrambi che durante questo viaggio mio padre sarebbe stato costretto a fare i conti con una serie di zone d’ombra di cui, in tutta la sua vita, non aveva mai parlato con nessuno. (L’ombra di Berlino, Traduzione di G. Pannofino, Mondadori, 2021, pag. 12).

Un grumo, un groviglio esistenziale, avvolge la vita di un uomo schiacciato dall’irraggiungibile forza del padre. Il figlio di quello che, bambino di 12 anni, la madre aveva messo su un treno per salvarlo dalla violenza nazista non riesce ad eguagliare la potenza del padre: è debole, fragile, inconcludente, assolutamente disprezzabile ai propri occhi prima ancora che a quelli degli altri.  Le «zone d’ombra» che il padre deve affrontare nel suo viaggio a ritroso verso il punto di partenza sono in realtà quelle che il figlio ha tenuto sepolte in un rancoroso silenzio. È il figlio che forse di questo suo garbuglio «non aveva mai parlato con nessuno», perciò – divenuto ‘drammaturgo pluripremiato’ (come recita la quarta di copertina) – scrive questo libro: fa di Hans, il padre, il protagonista raccontato, ma è lui, Jonathan, autore e narratore, il vero protagonista di un racconto necessario per l’io. Esce così dal cono d’ombra in cui lo confinava l’imponenza del padre. Così riesce finalmente a guardarlo per raccontare di sé e non di lui, nel momento in cui viene detto quello che non era mai stato detto.

Ecco. Siamo d’accordo. Camminerò per le vie con lui. Insieme respireremo l’aria della città il cui passato crea increspature nella sua vita quotidiana e negli angoli della vita dei suoi figli e lasceremo filtrare in noi i rivoli della storia di Berlino, i canali di scolo che portano via la pioggia e i rifiuti delle sue strade, le carte appallottolate, le stelle gialle, i vetri infranti, le ceneri, la tomba di suo padre. La stazione. Il negozio. (pag. 10)

Il viaggio

MSNA, si chiamano così i Minori Stranieri Non Accompagnati: sono numeri, percentuali senza volto. La sigla occulta il pianto e la paura di bambini, preadolescenti e diciassettenni sradicati, in cerca di una vita degna di essere vissuta, oggi come alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Bambini in fuga da sicura morte. Il piccolo Hans è ebreo, dopo la Kristallnacht (Notte dei Cristalli), nella quale è devastato anche il negozio del padre, che si suicida, viene messo in salvo dalla madre. Raggiunge l’Inghilterra, comincia una nuova vita, tra gente nuova. Diventerà medico, militare in Malaysia, incontrerà la donna che sarà moglie e madre dei suoi figli. Non parlerà più tedesco, lingua vietata nella famiglia che ha formato. Sappiamo che Hans non ama parlare, che è vecchio e malato. Sappiamo che Jonathan vuole accompagnare Hans alla ricerca del negozio e della tomba del padre. Sappiamo che Hans abita «a Llandrindod, sul fiume Ithon» in Galles. Non sappiamo molto altro quando il viaggio di ritorno a Berlino comincia.

Saliamo a bordo della vecchia auto di mio fratello Simon. Mi è stata generosamente affidata. È una Audi station wagon verde bottiglia di dodici anni e, com’è spesso il caso con gli acquisti di mio fratello, di un modello prossimo al vertice della gamma. […]

Apro Google Maps sul mio telefono. Seguo il percorso del viaggio, facendo scorrere con le dita la mappa sullo schermo. Prima la strada fino Harwich, dove prenderemo il traghetto, poi attraverso il Mare del Nord fino a Hoeck van Holland, poi la strada in direzione nord verso Amsterdam, poi dritti in Germania e di lì verso est fino a Berlino. (pag. 21)

Il tragitto è fissato, ma ogni spostamento è una tappa nel tempo vissuto: il presente del viaggio a ritroso del padre, che vuole oggettivare ciò che è conservato nella sua memoria, si incastra nella rievocazione del passato personale del figlio. La struttura del libro si fonda su questa oscillazione temporale adagiata su una falsa linearità spaziale. Un capitolo dedicato al viaggio di Hans si alterna ad uno di ricordi di Jonathan. A poco a poco la storia si compone: è la storia del figlio che cerca disperatamente e invano di essere all’altezza del padre.

Quando avevo dodici anni mi capitava molte volte di restare sveglio di notte a domandarmi come avesse fatto mio padre a lasciare la sua famiglia, il suo paese e i suoi amici, e pensavo che io non sarei mai riuscito a sopravvivere a un simile colpo. L’impossibilità della situazione di mio padre mi tornava in mente spesso in quei momenti, e questo forse spiega anche le mie difficoltà a scuola […].

Poi, da adolescente, cominciai inconsapevolmente a mettere in scena una debole versione della fuga di mio padre. Me ne andavo all’estero per settimane, rifiutandomi di dire dove […]. (pag. 130)

L’emulazione impossibile dell’eroismo paterno rende insignificante l’esistenza per il figlio: se non può essere come il padre, non ha senso cercare una relazione con gli altri; se tace il padre, non ha senso la comunicazione con gli sconosciuti. Il bambino inquieto diventa un giovane che ha interiorizzato – con orrore, data la sua ormai conclamata pochezza – la diversità rispetto al padre. Il mondo dunque non può accogliere la sua insignificanza, e lui si nasconde. La fuga dal mondo, che dovrebbe essere la salvezza, è la condanna alla reclusione nella propria dimensione di insulsa mediocrità. Morire, perciò, diventa più sensato che vivere.

Poco più che ventenne, ero ormai isolato, in parte perché avevo cominciato a fare molta fatica a conversare con la gente e le parole semplicemente non prendevano forma, e in parte perché le mie attività e la mia solitudine spingevano la gente a evitarmi. […] Scoprii che non riuscivo ad entrare dal barbiere per il timore di dover parlare con chi mi tagliava i capelli, perciò li lasciai crescere lunghi. I bar diventavano un’ordalia, se capitava di dover parlare con un cameriere. Cominciai a chiudermi sempre di più. […]

In momenti del genere, mi sforzavo di pensare alla mia vita. Mi domandavo che scopo avesse, e se ne valesse la pena. La solitudine mi prese come un virus, mentre compivo, inconsapevole ma devoto, il mio strano pellegrinaggio verso l’eco del passato di mio padre. (pag. 131)

E nonostante il figlio voglia credere di essere altro da suo padre, esiste un’oscura simbiosi che li lega nella sofferenza. «Il dolore dei suoi ricordi» diventa dolore nella carne del figlio:«È il profilo del mio cuore. È i miei calcoli renali. È le mie mani artritiche» (pag. 171)

Tuttavia rimane tra loro una sorda incomprensione, una ostile estraneità, che li chiude in uno speculare silenzio. È sufficiente un futile motivo, perché il padre pronunci un giudizio sul figlio, che interrompe il dialogo. Comincia la requisitoria.

Smetto di rispondere. Il battibecco evapora, e noi restiamo seduti in silenzio. È un silenzio familiare, pesante, insostenibile, questo momento tra di noi, e ancora una volta mi torna alla mente la ragione per cui io devo stare alla larga da mio padre. Lui scaccia ogni senso di intimità con la sua perpetua e devastante critica. Il trauma che ha patito da bambino è penetrato in lui e io non posso eliminarlo neanche per un attimo, per quanto mi sforzi. Mi domando se si senta vicino a qualcuno, mentre mi sta seduto di fronte […]. Con quel viaggio in treno, gli è stato rubato qualcosa che nessuno potrà mai restituirgli. Chi sopravvive a esperienze come quelle che lui ha attraversato sopravvive alla morte della propria vita precedente ed è costretto a continuare a vivere nel mondo portando questa morte dentro di sé.  (pag. 195)

L’apparente comprensione del trauma storico del bambino in fuga è implicito atto di accusa nei confronti dell’adulto che non sa amare. Sembra che soltanto così il figlio riesca a sopportare la colpa di non amare il padre: assolve Hans di non amarlo a causa del trauma infantile (che lo ha inaridito), ma per assolverlo – in un ossessivo perenne cortocircuito – ha bisogno di ribadire la sua colpa di non amare. Nessun figlio può perdonare il padre di non amarlo. Anche se fanno lo stesso viaggio.

Traumi

Ovviamente, se uno ha provato a essere preso a sputi ma davvero! – da un nazista, sa di cosa parlo. Non c’è cosa più schifosa. Quando sono tornato a scuola c’erano due nazisti sulle scale, due adulti. Io gli sono dovuto passare davanti e quelli mi hanno sputato in faccia. Hanno raccolto il catarro in fondo alla gola e mi hanno sputato addosso, praticamente inondandomi. Dopo di che mi hanno spinto giù dalle scale. Beccarsi in faccia gli sputi di due nazisti adulti è una cosa schifosissima.’

Continua a sorridere, ma poi la faccia gli si raggrinzisce e avvampa. Non c’è auto-commiserazione, però.

‘Scatenare il razzismo per i politici è come aprire il rubinetto.’ (pag. 142)

Hans ha avuto una vita difficile. Chiunque abbia attraversato quella storia non può che portarne addosso profonde cicatrici. Ma la cosa più terribile è la consapevolezza che quanto accaduto a lui è nulla rispetto a quanto accaduto a tanti altri

Perché tu lo sappia, la mia storia è una non-storia. Un niente, a paragone di quel che hanno sofferto altre famiglie. Io sono stato fortunato. E anche mia madre lo è stata. Come famiglia siamo stati fortunati, fortunatissimi.’

[…]

‘Cugini di primo e secondo grado ad Auschwitz-Birkenau e Theresienstadt. Mio padre e mio nonno suicidi. Ma Toni [la sorella maggiore] è riuscita a fuggire. Mia madre è sopravvissuta.’ (pag. 218)

La fortuna di Hans lo ha indotto a prendere di petto la vita, quasi per essere certo di essere vivo e che sia valsa la pena salvarsi. Non può fermarsi, lasciarsi andare «sulla superficie morbida del mondo»

No, mio padre combatte, duramente, disperatamente, bisognoso di rimanerci aggrappato, domandandosi di continuo se non ne verrà rimosso.

Per lui, l’incessante correre e andare in bicicletta e nuotare e fare giardinaggio e lavorare sono traguardi conseguiti, cose fatte; tutte le sue avventure gli dicono ciò che lui ha bisogno di vedere confermato: che è vivo. (pag.170)

Ma la morte lo insegue di continuo e gli fa sentire addosso il suo gelido fiato: si porta via dal porte-enfant la figlioletta Ruth e poi anche l’ultimogenito, quel Simon, ormai adulto, che aveva acquistato l’Audi station wagon verde bottiglia con cui intraprendono il viaggio. Il grido della madre, identico, per le morti dei due figli, che Jonathan ricorda, è quello che Hans non riesce a fare uscire. Il dolore lo piega in due, gli scava la faccia. Ma non dice niente.

Anche Jonathan non dice niente, e il dolore lo corrode, piuttosto che esprimersi e liberarlo del suo peso. Non può parlare con suo padre. Lo ammira e lo odia. Perché? Ce lo racconta nella parte finale del libro.  «Ogni tanto, mia madre e mio padre ci portavano a fare il bagno alla piscina scoperta di Llandrindod». In una giornata di sole, Jonathan spinge in acqua una sua amica, nel lato meno profondo, e quella, pur rimanendo in piedi, spaventata, scoppia in lacrime. Arrabbiatissimo, al grido «Vieni qui, stronzetto», il padre corre verso il figlio che fugge credendo di essere irraggiungibile. Invece il padre lo afferra, lo solleva, lo fa roteare in aria, e lo lancia nella parte più profonda della piscina. L’impatto con l’acqua gli toglie il fiato, e non sa nuotare. Si dimena, ma inghiotte acqua e affonda. È sul punto di annegare quando qualcuno lo prende, lo riporta in superficie, lo adagia sul bordo della piscina. Jonathan in preda a convulsioni, con il cuore impazzito, vomita tossisce se la fa addosso. Poco dopo vede il padre nuotare con le sue bracciate sicure.

Dopo questo episodio mio padre si rifiutò di parlarmi. E io, a mia volta, mi rifiutai di parlare con lui e con chiunque altro per diversi giorni, oltre a rifiutare il cibo. (pag. 237)

Da quel momento imparai a evitare mio padre il più possibile. E cominciai a odiarlo. (pag. 239)

La morte si sconta vivendo?

Quando muore Jakob Freud, Sigmund scrive che è questo «L’avvenimento più importante… la perdita più dolorosa nella vita d’un uomo». Ma non è così per tutti. Per alcuni la perdita più dolorosa avviene quando il padre è vivo. E quando muore invece si interrompe il conflitto, lo scontro non ha più ragione d’essere. Il dissidio si compone nel momento in cui il figlio scopre che il padre è come lui: un uomo.

Capivo che eravamo uguali e che insieme stavamo ripristinando, in quei momenti, il legame tra noi, quel collegamento da sempre interrotto. […] Mi stava presentando la morte. Mi stava mostrando che cos’era morire. Mi stava mostrando che non faceva paura.

Tutto si pacifica. Al padre semincosciente sul punto di spirare, Jonathan dice finalmente quello che non aveva mai detto.

Mi alzai e gli posai la mano sinistra sulla testa. Era calda e sembrava piena di energia. Gli posai la mano destra sul petto. Dissi: «Ti voglio bene, papà. Ti voglio bene, Hans Eugen Lichtenstein: abbiamo fatto un viaggio insieme, tu e io, e io ti voglio un gran bene. Grazie». Tenni le mani appoggiate sul suo corpo e gli diedi un bacio sulla fronte. (pag. 280)

Il libro, adesso, può essere scritto. I vivi possono riposare in pace.

e compresi ciò che già era stato detto: che noi viviamo non soltanto con il ricordo dei morti e con i loro fantasmi aleggianti, bensì nel mondo stesso dei morti, sulle rotte e le strade da loro tracciate, […] al punto che non solo in senso figurato, bensì letteralmente, viviamo nelle menti dei morti. (pag. 283)

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