
Il pane e le rose: sui fatti di Roma /2
I fascismi e le destre odierne, in tutto il mondo, invocano muri e pugni di ferro contro i migranti, i diritti delle donne e le differenze sessuali, ma si ergono a paladini delle libertà individuali contro le restrizioni sanitarie e contro i vaccini e negano il riscaldamento planetario: una schizofrenia che occorre indagare, oltre la superficie del paradosso emotivo e psicologico.
L’assalto romano dei No Vax e dei fascisti è analogo a quello dei trumpisti nella sede del potere politico americano, con la differenza che ad essere violata da noi è stata la sede della Confederazione del Lavoro. È un assalto ripugnante, che mescola due immagini spettrali: l’irrazionalità negazionista davanti alle epidemie (quella di Don Ferrante o degli untori, per capirsi) allo squadrismo nero mussoliniano. Ma occorre evitare l’abbaglio emotivo e, con pazienza, decodificare questi spettri e queste schizofrenie considerandoli segni e sintomi da interpretare.
Ciò che conta sfatare e demitizzare, infatti, è il consenso di massa a queste posizioni (evidente a esempio negli Stati Uniti con Trump). Ora: dietro la democrazia, la sua storia e i suoi istituti, dietro la tradizione della sinistra così come dietro la scienza e la mediazione intellettuale, un “popolo” di destra allargato avverte un tradimento, un complotto e un inganno. Per darsi delle spiegazioni non superficiali ma dialettiche del fenomeno può essere d’aiuto un libro recente di Nancy Fraser: Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre (Ombre corte, 2019). Il titolo, attraverso una frase di Antonio Gramsci, allude a una somiglianza fra gli anni Venti, in cui il movimento operaio non riusciva a costruire l’alternativa alla fine del liberalismo (aprendo la strada al fascismo) e il presente. Negli Stati Uniti, argomenta Fraser, il trumpismo si è imposto con la crisi del blocco egemonico costituito dal «liberalismo progressista» (l’alleanza fra i movimenti per i diritti civili e i settori più dinamici dell’economia finanziaria: una politica di riconoscimento di tipo liberale che ha sostituito l’idea di giustizia sociale con quella di meritocrazia). La riduzione dell’eguaglianza a pura meritocrazia è la cifra dei programmi delle sinistre democratiche in occidente: non più volti a limitare i sempre più acuti dislivelli sociali ma a «diversificarli», a offrire opportunità ai soggetti di “talento” e emergenti dei gruppi svantaggiati (donne, minoranze etniche). In tal modo il neoliberismo progressista ha proseguito ovunque le politiche economiche della destra liberale aggiungendovi una promessa emancipazionista: è in base a questo postulato che, a esempio, il PD italiano appoggia incondizionatamente Mario Draghi. La questione è capitale e riguarda l’idea stessa di giustizia e di ingiustizia, fondativa della tradizione delle sinistre. Fraser sostiene che la giustizia può essere intesa in due modi interconnessi: la giustizia distributiva (in termini di una più equa distribuzione delle risorse) e la giustizia del riconoscimento (l’uguale riconoscimento di diversi gruppi all’interno di una società). Esistono, conseguentemente, due forme corrispondenti di ingiustizia: la maldistribuzione economica e il misconoscimento culturale. La vera battaglia democratica oggi – capace di ridare dignità e consenso alla sinistra e alla sua storia, – è il collegamento tra la politica del riconoscimento e la lotta per la giustizia sociale. Senza questi nessi inerenti i concetti-chiave di giustizia e di ingiustizia, le schizofrenie non innocenti delle sinistre continueranno ad alimentare le schizofrenie, simmetriche e opposte, delle destre fasciste o parafasciste. Il luogo comune di una sinistra al servizio delle élite culturali ed economiche, alla base del cliché del “politicamente corretto” inteso solo come ideologia ipocrita (un luogo comune che è il vero fondamento ideologico del paradossale connubio tra autoritarismo repressivo e libertà individualista dalle “dittature sanitarie”) può essere sconfitto solo se ne sappiamo riconoscere la “verità nera” che lo abita (le politiche ultraliberiste dei tanti Tony Blair occidentali e la mutazione della democrazia in una postdemocrazia della governance).
Per depotenziare le immagini spettrali dei fatti di Roma, del resto, bastano le immagini di Pride (2014) il film di Matthew Warchus in cui, dopo un doloroso dialogo e conflitto, i minatori del Galles e i gay e le lesbiche cantano assieme la storica canzone Bread and Roses. «The worker must have bread, but she must have roses, too». «La lavoratrice deve avere il pane, ma anche le rose». Quella saldatura non è un’utopia: ha avuto luogo nei momenti più alti della lunga storia degli oppressi. E potrebbe essere reinventata, in forme nuove, nel presente, saldando in un patto le generazioni. Contro la schizofrenia ideologica, che fa delle sinistre il bersaglio del populismo sovranista, e contro le sragioni arroganti dei nuovi fascismi, vanno tenute assieme, a livello mondiale, il pane e le rose.
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Perché l’umanità abbia il pane e le rose occorre che sia restituito valore alle rose. Invece in una società appiattita sul pragmatismo, sul trionfo dell’utile e sulla demonizzazione dell’inutile, sul mercatismo che ha invaso persino la scuola, curvandola alle esigenze neoliberistiche che definiscono valori solo quelli stabiliti dal mercato, ecco, in questo contesto, come possono nascere le rose? L’inestinguibile “realismo capitalista” impedisce la sopravvivenza dell’idea stessa di bellezza. Dalla scuola dovrebbe iniziare la rivoluzione della bellezza. La scuola dovrà impegnarsi a combattere il trionfo del brutto (burocratizzazione estrema, aziendalizzazione spietata, competizione svilente, invalsizzazione snaturante) che ormai ha invaso lei e, con lei, la società intera. E invece dalla scuola non sembrano provenire voci di dissenso all’ideologia neoliberistica imperante. La scuola dovrà lottare affinché sia chiaro a tutti che, sì, forse è vero che la bellezza da sola non ce la farà a cambiare il mondo, ma è altrettanto certo che arriverà il momento, come diceva Camus, in cui le rivoluzioni avranno bisogno della bellezza. Altrimenti finiremo con l’accontentarci del pane, delle briciole che restano, e ringrazieremo di avere almeno quello. Si tratta di decidere se sopravvivere o vivere. Ma per decidere bisogna sapere che l’alternativa esiste e che non c’è “modello TINA” che tenga.