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Voltare le spalle ai ricordi – Su Il libro delle case di Andrea Bajani

C’è un tema ricorrente nella narrativa di Andrea Bajani ed è quello della rivisitazione dell’infanzia: a partire da Cordiali saluti (2005) e Se consideri le colpe (2007), ciascun romanzo (Ogni promessa del 2010 e Ogni bene al mondo del 2016) fa i conti con un adulto che scruta il mondo dei bambini o con un bambino che attraversa la fatica di diventare grande. Il libro delle case (2021) rappresenta il compimento di questo andirivieni narrativo tra infanzia e età matura.

È evidente, infatti, che la vita di ogni uomo è legata a quella delle abitazioni dove prendono forma tanto la sua individualità quanto il suo rapporto con il mondo: la tartaruga è figura per eccellenza di questa relazione e compare nel capitolo che le è dedicato – “Casa di Tartaruga, 1968” -, fin da prima della nascita di Io. Il protagonista del libro, classe 1975, intesse con l’animale un rapporto giocoso e felice – richiamato nell’immagine di copertina –  muovendosi a gattoni nel giardino della “Casa del Sottosuolo”:

Io batte i palmi delle mani sopra il carapace di Tartaruga in una percussione concitata e festosa. Quella percussione tribale – Io sta seduto a terra, sul trono soffice del proprio pannolino – è probabilmente il primo rituale compiuto da Io. Io batte il tempo sopra la corazza e Tartaruga sporge fuori il capo. (p. 15)

In questo assaggio testuale è possibile notare il particolare stile allocutivo scelto da Bajani: c’è un Io che si accampa sulla pagina ma che non parla in prima persona. Tuttavia l’anonimo protagonista presenta dei tratti di identità con lo scrittore, se non altro per la sostanziale sovrapposizione con le principali tappe della sua vita scandite, nel titolo di ciascun capitolo, da un’”etichetta” riferita alla casa e da un anno solare che la contraddistingue, compreso tra il 1968 e il 2048.  Spesso i vari brani permettono anche di localizzare, con un differente livello di approssimazione, i luoghi dove Io trascorre la sua vita: si va da Roma a Parigi, da Torino al litorale laziale.

Il processo di oggettivazione che l’autore esercita sul personaggio Io e il trattamento del tempo, slogato in una sorta di labirinto spazio-temporale, rendono arduo, come spesso succede con i libri di Bajani, una definizione di genere. Il libro delle case non può infatti essere definito un romanzo nel senso più comune della parola, anzi “si colloca agli antipodi dell’inerte macchina da intrattenimento che oggi si vuole a tutti i costi conservare” (A. Cortellessa, Andrea Bajani, L’estimo di una vita qui); tuttavia non può essere letto come un’autobiografia, venendo a mancare la perfetta coincidenza – secondo Philippe Lejeune – tra autore, narratore e protagonista. Si può parlare di un libro fatto di racconti autobiografici il cui “temperamento originario è […] piuttosto di natura lirica” (A. Cortellessa, La terra della prosa, p. 647) e il cui fulcro tematico è costituito dalle case: a complemento del testo e con cadenza irregolare compaiono anonime planimetrie di abitazioni, irrelate rispetto alla narrazione, forse con la funzione di arginare il gomitolo di emozioni che esala dalle dimore attraversate.

Fermo restando il risultato del tutto personale dell’operazione letteraria di Bajani, il libro può ricordare, per la struttura combinatoria, il Calvino delle Città invisibili e, per la curvatura intimista, il Tabucchi di certi racconti – Si sta facendo sempre più tardi, Il tempo invecchia presto. Anzi, vale la pena ricordare come in quella sorta di epicedio che è Mi riconosci (2013) la tumulazione dall’amico e maestro scrittore avvenga attraverso l’immagine della casa: la tomba di Tabucchi viene paragonata a “una piccola casa, un condominio di gente riservata. […] E quando poi hanno aperto la porta di quella casa piccola in cui il 29 marzo del 2012 hai finalmente traslocato, tutti ci siamo avvicinati”.

 “Il cubo dell’infanzia, il dado della commozione”

La prima casa con cui il lettore fa i conti è “la casa del sottosuolo (1976)” ovvero “il cubo dell’infanzia”, nei versi del poeta polacco Zbigniew Herbert, che Bajani ha posto in esergo alla sua favola Un bene al mondo (2016). È il luogo che torna con maggiore frequenza nel libro, a indicare il carapace che accoglie e protegge il bambino, l’habitat da cui questo “guarda il mondo; da lì, si ritira” (p. 34), lo spazio in cui intesse le prime e imprescindibili relazioni umane: Padre, Madre, Nonna, Sorella gli preesistono ed è con loro che Io sarà costretto a misurarsi prima di raggiungere la propria autonomia. La casa del sottosuolo diventa di volta in volta “dado della commozione”, utero mefitico in cui germinano ossessioni e incomprensioni infine strazio del fallimento e dell’abbandono.

Il tentativo di oggettivare la storia di Io avviene anche attraverso la figura della reticenza: laddove la vita di Io si impenna in qualche grumo emotivo, la voce dello scrittore si ritira e preferisce limitarsi a alludere. Così è per esempio quando si rievoca una intensa relazione amorosa di Io ventenne, sorpreso nella “casa dell’adulterio” dai figli della donna:

Oggi Gemelli hanno raggiunto la maniglia della porta. L’altezza succede in una notte: un centimetro è spuntato dentro il sonno. Si sono alzati e la mano, per la prima volta, afferrava la maniglia. È così che Gemelli hanno aperto la porta mentre Io era con la loro mamma. Immobilizzarsi nell’amplesso, tacere in quel paesaggio di corpi abbandonati, è stato il primo istinto della coppia.

Dire di più sarebbe soltanto non resistere al pettegolezzo. (p. 89)

Questa scelta stilistica appare ancora più dolorosa ma necessaria quando riemerge la narrazione della fine del matrimonio del protagonista, sancita nella “Casa della legge” (2018). È, questo, uno dei capitoli in apparenza più freddi e referenziali del libro dove la coppia è inserita nello schiacciante volume di un enorme stanzone di tribunale: “Si arrivi al totale, la cui entità corrisponde a 136.400 kg, 136 tonnellate. È sotto quel peso che Io e Moglie stanno in piedi” (p. 225). La fine di un amore, ratificata da un asettico trasferimento di denaro, lascia il suo strascico di dolore solo a fine capitolo, dove viene rimarcato in absentia, ossia espresso con una formula impersonale e posta tra parentesi:

([…] Si potrebbe dire di più, di Io e di Moglie, […] degli automatismi delle loro mani, che hanno imparato per anni a cercarsi per istinto, e ora sono tenuti a bada dal cervello – che ricorda che ciò che è stato è stato e non ritorna. Si potrebbe dire della sconfitta loro e dell’estate.

Ma si guardino piuttosto le loro schiene uscire dalla stanza preposta alle ratifiche dei fallimenti coniugali destinati alla vita muta dei faldoni. […] Le si veda raggiungere la fine nell’indifferenza generale […]. Si guardino le due schiene almeno da dentro questa frase, per il tempo che concede) p. 226

Le case dell’inconscio collettivo

In questo suo libro, forse il più lirico, asciutto e maturo, Bajani mette a frutto un’operazione di disarticolazione del soggettivo: infatti il lettore non si imbatte solo nelle abitazioni che hanno avuto a che fare con la vita di Io. Senza che vi si possa ricostruire una precisa distribuzione interna si trovano, mescolate alla altre, sia alcune case metaforiche (“Casa semovente di Famiglia” = l’utilitaria di Io; “Casa del persempre” = la fede nuziale; “Casa della dispersione” = la città dell’usato) sia due abitazioni sui generis, che tornano ciclicamente, e con alcune varianti, dando al racconto un effetto perturbante. Si tratta della “Casa del prigioniero” e della “Casa del Poeta”, ossia rispettivamente degli ultimi luoghi che hanno ospitato Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini: fanno la loro comparsa, tra le maglie di un testo autobiografico, il nascondiglio delle BR e la R4 per quanto concerne il politico, l’Alfa Romeo e l’idroscalo di Ostia per quanto riguarda l’intellettuale. In tal modo lo scrittore include fra i ricordi della sua infanzia due revenant che appartengono all’inconscio collettivo degli italiani e che non hanno smesso di interrogare la nostra Storia. Ancora una volta gli anni Settanta ricompaiono nella migliore narrativa dell’estremo contemporaneo (basti qui citare i precedenti, assai diversi, del Tempo materiale di Vasta e Piove all’insù di Rastello) come discrimine importante nella Storia nazionale della quale le morti di Moro e Pasolini costituiscono due traumi per lo più spettacolarizzati e irrisolti.

Casa dei ricordi fuoriusciti

L’unica casa del libro a non essere accompagnata da una datazione è la “Casa dei ricordi fuoriusciti”: è “la scatola nera di ciò che non ricorda” e ha la forma di “un marchingegno da luna park, cassone in plexiglass con braccio meccanico e granchio che tenta di artigliare ciò che è disposto sul fondo sabbioso” (p. 123). Si tratta, fuor di metafora, del dispositivo metanarrativo e psichico che presiede alla scrittura del “romanzo” di Bajani, intento a pescare nel passato i fatti salienti della sua vita pur consapevole delle rimozioni con cui si è difeso.

Il rabbioso ribaltamento della casa dei ricordi da parte di Io, il voltar loro le spalle narrato nel capitolo finale rappresenta un congedo compassionevole ma definitivo dal proprio passato proprio nel momento in cui, rotto il plexiglass, i relitti memoriali si rovesciano al suolo in una lunga, accorata enumerazione che finalmente nomina l’indicibile riemerso:

Non vedrà niente di tutto questo perché è già lontano, anche il puntino si è dissolto in quest’alba di novembre. Il vento che si è alzato forse porterà la prima neve. La neve stenderà una coperta bianca sopra questo paesaggio di ricordi naufragati; anche se fredda, proteggerà la terra e il suo tepore. (p. 249)

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