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diretto da Romano Luperini

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La scuola di Alessandro Baricco è un giochetto pericoloso

Alessandro Baricco ha iniziato una collaborazione con il giornale online Il Post. Il titolo della sua rubrica è Mai più. Lo scrittore ha già fatto capire di voler parlare molto di scuola: la cita infatti ampiamente nel primo intervento, la mette al centro del secondo.

In realtà, in questi articoli non c’è nulla di nuovo. Baricco sta semplicemente continuando il suo «Viaggio sulla superficie della realtà», cercando di giustificare la propria postura intellettuale leggera, anzi leggerissima, con le presunte caratteristiche di elusività e volatilità della realtà ipercontemporanea, la quale sfuggirebbe all’analisi di quegli intellettuali novecenteschi ostinatamente ancorati alla razionalità cartesiana, alla proceduralità lineare, gerarchica e top-down, alle noiose bibliografie, allo specialismo: al «culto della permanenza», addirittura. Oggi, ripete da tempo Baricco, siamo tutti dentro The Game, un giochetto fluido, virtuale, instabile; siamo tutti player.

Si trova un po’ di tutto nel suo mercato delle pulci intellettuale privo di asperità: paccottiglia new age («ascoltare la vibrazione del mondo, il suo respiro reale») e critiche simulate al capitalismo e alla tecnologia nel contesto di un discorso chiaramente apologetico del presente (la polemica di plastica contro le élite che ci impongono il There is no alternative thatcheriano, quella contro «quegli avatar che chiamiamo numeri»). Baricco parla di tutto un po’, e di tutto insieme: di scuola ma anche di azienda ma anche – perché no? – di centro sociale. L’importante è, contemporaneamente, digrignare i denti in un gesto di patinata ribellione:

esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?

Nel nome di Eraclito

In Mai più si parla della scuola al tempo della pandemia e di didattica a distanza. L’istituzione, ancorata a logiche novecentesche, è un sistema «non adattivo», che si limita a presidiare rigidamente e ottusamente la realtà, tanto da non saper far altro che chiudersi «a riccio».

È istruttivo notare come non si sia immaginato nient’altro che versare meccanicamente le stesse cose che si facevano in aula dentro il contenitore dei device digitali. Non un orario cambiato, non un programma cambiato, solo la cieca ostinazione nel cercare gli stessi risultati con una tecnica completamente inadatta a ottenerli.

Una scuola ben diversa sarebbe stata in grado di rispondere in modo ben diverso, naturalmente. Ma, naturalmente, sarebbe troppo pretendere che questo “ben altro” venga illustrato analiticamente (novecentescamente). Basta strizzare l’occhio.

Lo schema interpretativo, in ogni caso, è chiaro: ci sono una cultura, forme mentali – dunque anche una scuola – del passato, fondate su «una certa ottusa razionalità meccanica», specialistiche, concentrate sul frammento, rigide, abituate a una realtà statica; ci sono una cultura, forme mentali – dunque anche una scuola – del futuro, fondate su globalità, complessità, flessibilità, capaci di rispondere a una realtà dinamica. Parmenide contro Eraclito. Faccenda vecchiotta, che a Baricco sembra invece assolutamente up to date, tanto da essere presentata nella veste del globale rinnovamento gnoseologico:

È l’intelligenza novecentesca che continua a partorire se stessa. Lo fa perpetuando l’idea, tutta sua, che conoscere la realtà significhi riportarla a un ordine e a una stabilità esenti da caos. A una catalogazione che non lascia scampo. A un’immobilità controllabile.

Invece

un’intelligenza non novecentesca saprebbe che educare significa proprio preparare all’instabilità. […] La conoscenza è un gesto sempre instabile, e morbido, coincide con l’arte dell’adattamento. […] Prima di qualsiasi emergenza, un sistema educativo dev’essere flessibile, o non è niente. Dev’essere capace di adattarsi con una certa velocità alle mutazioni del reale, o non è niente. La flessibilità non dovrebbe nemmeno essere una sua caratteristica, ma più radicalmente la sua tecnica costruttiva. […] La vera flessibilità non lavorerebbe mai con materiali rigidi come la classe, le materie, il professore di una materia, l’ora di scuola, i programmi ministeriali, i libri di scuola.

È tutto molto vago, ma è anche tutto arcinoto. È quell’atmosfera, quel non so che, reperibili in ogni discorso sulla scuola e sul sapere da molti anni a questa parte. Ma vago non vuol dire privo di rischi.

Proprio in settimane nelle quali si parla della minaccia all’istruzione pubblica rappresentata da esperimenti educativi di grossolana pasta pedagogica neoliberale, Baricco pensa bene di aggiungere che questa nuova intelligenza post-novecentesca,

se vogliamo dirla tutta, non perderebbe nemmeno tempo a pensare che una gigantesca Scuola pubblica, identica ovunque, possa essere una buona idea da cui partire.

Nessun programma politico preciso, intendiamoci. Baricco non scende al livello delle quisquilie pratiche. Vola alto, come forse crede che debbano fare gli intellettuali. Solo che scambia la generalità, la genericità, la totale mancanza di determinatezza, per universalità. L’effetto è quello di amplificare malamente un senso comune diffuso e pericolosissimo.

Un discorso che non può essere falsificato

Viviamo un’epoca in cui il rigido è opposto al flessibile, il gerarchico al rizomatico, lo specialistico all’interdisciplinare, il pragmatico e il contestuale al teorico e all’astratto; il deduttivo, l’analitico, il metodico devono essere rimpiazzati dall’intuitivo, dal divergente, dall’olistico. È cambiato il modo di concettualizzare e raccontare il sapere. In parte si tratta di una costruzione retorica ben congegnata, ma sarebbe molto sciocco ritenere che questa rappresentazione non contenga anche una parte significativa di verità. Tuttavia, anche quando questo discorso è ben altro che senso comune riciclato dalla prosa evanescente e piena di birignao di Baricco, ed è anzi dotato di un raffinato apparato concettuale, come in Edgar Morin, non mancano i problemi: quando quel discorso investe la scuola, a mio avviso produce solo una pretenziosa messe di discorsi molto affascinanti in sede teorica, ma inservibili nella pratica: discorsi, anzi, perfino pericolosi, per la confusione e il velleitarismo che rischiano di incoraggiare. La scuola è un luogo di piccoli cabotaggi.

Baricco vuole superare il Novecento, dice, e ci riesce, perché nella sua liquidazione postmoderna della storia sottrae le proprie affermazioni alla possibilità di essere confermate o invalidate, che è un eccellente portato della cultura moderna. Le sottrae, in altre parole, a quella verifica che la storia è in grado di imporre alle idee: a un certo punto ci imbattiamo in qualcosa di solido, in quella cosa che Heidegger chiamava la «resistenzialità» della realtà, che ci dice se con i nostri progetti avevamo ragione o torto (più spesso abbiamo torto). La realtà predicata da Baricco, infatti, è diventata letteralmente imprendibile: sfugge, si trasforma, elude sempre. Qualsiasi affermazione su di essa sarà sempre nel giusto, perché la realtà avrà cessato di fungere da criterio di valutazione. O, forse, avere torto o ragione non conta più. È un principio di ludicità pervertita francamente inquietante.

Il sapere illimitato

Baricco è la risposta peggiore che si possa dare a una domanda reale. La domanda è che cosa fare del sapere nell’epoca della società dell’informazione, dell’economia della conoscenza, del capitalismo cognitivo. In Future umanità (2010, ed. it. 2012) Yves Citton ha colto molto bene i rischi di discorsi come quello di Baricco, acritici e sovreccitati. All’apparenza alcune delle affermazioni che si leggono nell’intellettuale francese potrebbero ricordare alla lontana lo scrittore nostrano: entrambi sottolineano la capacità trasformativa di una cultura che scommette sull’invenzione piuttosto che sulla ripetizione, sulla reinterpretazione piuttosto che sulla trasmissione passiva, … Quello che manca totalmente in Baricco – perché in lui manca completamente la politica – è l’acuta consapevolezza, che solo Citton ha, dei rischi che proprio un sapere così concepito e praticato corre nella nostra epoca. Citton è nobilmente, novecentescamente, complesso e dialettico. Baricco spaccia idee come si spaccia qualunque altra merce.

Lo studioso francese sa benissimo che persino l’attitudine critica ed ermeneutica del sapere umanistico può finire dissolta nell’onnivora attività del capitalismo. Il capitalismo è una «macchina di reinterpretazione senza limiti» (Deleuze). Il discorso è complesso, non è il caso di sdipanarlo. Lo si può comprendere facilmente con un esempio, che Citton riprende e rielabora da una lezione di Deleuze (e che ricorda molto da vicino il famoso scritto corsaro di Pasolini sui “capelloni”). Negli anni Settanta, i capelli lunghi erano un segno di contestazione, l’intenzione di chi li portava era comunicare quel significato. Ma contemporaneamente quel segno di contestazione, per il capitalismo (ovvero per quella gigantesca macchina di messa a profitto di ogni aspetto della vita umana), significava introiti doppi in termini di shampoo venduti: ora anche ai ragazzi, oltre che alle ragazze. Il capitalismo non si limita a investire in persuasione esplicita – la pubblicità –, ma è attento a intercettare i segni dell’immaginario collettivo, per reinterpretarli a proprio vantaggio: ad aumentare i profitti nella vendita di shampoo contribuiva anche il desiderio di imitare la chioma fluente di Robert Plant, leader dei Led Zeppelin, la cui immagine veniva catturata, investita di valore, replicata.

Non c’è aspetto della vita simbolica, dei significati che produciamo e riproduciamo, che il capitalismo (inteso come macchina antropologica e sociale, non solo strettamente economica) non sia in grado di inglobare. Che cosa è necessario fare, secondo Citton, perché la cultura umanistica possa restare libera, creativa, anarchica («in-disciplinata», scrive, in un baricchismo solo apparente), senza che i suoi significati finiscano nelle grinfie della messa a profitto capitalistica? Occorre creare delle nicchie, degli spazi franchi – Citton parla di «interstizi» –, in cui la produzione, circolazione, riproduzione, reinvenzione del sapere, dentro le scuole e le università, sia protetta dalla “reinterpretazione” capitalistica. Forzo Citton un po’ oltre se stesso: occorre difendere degli spazi di retraite in interiore hominis, degli spazi di otium, delle piccole torri d’avorio, dei luoghi separati e riparati, dal grande flusso dei significati di superficie, reticolari e digitalizzati. Proprio quel flusso in cui Baricco, al contrario, vorrebbe esaurire senza più residui la cultura e immergere la scuola. Credo che basti questo per avvisarci dei seri rischi dei suoi discorsi.

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