Inchiesta sul lavoro di editor/1: Fabio Stassi (Minimum Fax)
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Con l’intervista di oggi diamo avvio a un’inchiesta sulla professione dell’editor. Nel corso del Novecento questo “mestiere” è stato svolto da scrittori come Calvino, Vittorini, Sereni che fungevano da mediatori tra società letteraria, case editrici e pubblico; oggi il mondo dell’editoria è stato investito da grandi trasformazioni che sembrano aver dissolto la figura dell’intellettuale-editore e modificato in profondità il lavoro editoriale. Questa indagine mira a sondare come sia mutata, tra dissolvenze e persistenze, la funzione dell’editor all’interno della filiera del libro, coinvolgendo sia case editrici indipendenti sia l’editoria maggiore.
1. Editing e condizioni materiali del lavoro intellettuale. Qual è il suo rapporto lavorativo e quanti libri è chiamato a editare in un anno?
La media di editing annuali è per ora di circa sei titoli l’anno. Ma ci sono continui scambi, e interrelazioni, e il lavoro dell’editor non si limita più soltanto all’editing di un testo, ma spesso accompagna anche la sua promozione. La parte più defatigante è sicuramente l’esame dei manoscritti, che arrivano in numero impressionante e quotidiano, tra i dieci e i quindici a settimana, se si volesse tentare una statistica, ma sono cifre variabili.
2. Su che basi si imposta il dialogo tra l’editor e lo scrittore. Come viene “associato” un autore a un editor (per affinità tematiche, di generi letterari…); quanto del lavoro di editor può rientrare in queste categorie: semplice revisione (ruolo tecnico), interpretazione (ruolo di critico); riscrittura (ruolo creativo). Quanto e come queste tre funzioni si traducono in un dialogo con l’autore?
L’affinità spesso è una conseguenza della scelta di pubblicare un manoscritto al posto di un altro. Ma non si scelgono soltanto testi affini al proprio gusto; dipende sempre dalla qualità, e per noi dalla qualità di scrittura. Questa parte, la revisione stilistica, è quella che curiamo maggiormente. Se non c’è un tono, il tono giusto, non c’è neppure il libro, di solito. Ma naturalmente è necessario poi esaminare e lavorare insieme su personaggi e trama. Crediamo soprattutto nella centralità del personaggio. Prima della storia come plot, sono fondamentali per noi stile e personaggio. Il ruolo creativo a volte interviene nel montaggio, nella scelta dell’ordine delle parti, nell’attenzione a incipit e finale. Sull’interpretazione di sicuro un editor può essere importante: può capitare di vedere qualcosa che l’autore non vede, dall’interno. Ma questo è sempre un ragionare a posteriori; il senso di un testo, quando si ha la fortuna di intuirlo, arriva alla fine del lavoro, mai prima.
3. La sua specifica formazione da editor.
La mia formazione è del tutto personale. Ho sempre corretto e mi sono sempre fatto correggere quello che ho scritto o che scrivevano i miei amici. Mi sono formato sul campo, battagliando sia come autore che come lettore su ogni pagina, e su tanti libri. Se posso, direi che è stata importante per me anche una certa formazione musicale.
4. Tradizionalmente si considera l’editor un agente dell’editoria che tende a formattare il prodotto letterario per favorirne la vendita. Quanto questa immagine oggi corrisponde al lavoro reale di editor?
Non so, credo molto alla libertà di sguardo, al non farsi condizionare, a mantenere autonomia rispetto a tutte le logiche di mercato ma anche a tutti gli snobismi e ai velleitarismi, ai narcisismi e alle presunzioni che inquinano questo lavoro. Non ci sono ricette, bisogna sentire il suono. La letteratura è il territorio della possibilità, e quindi della varietà, quanto di più lontano si possa pensare a una formattazione standard. E’ anzi, per sua natura, sovversiva a ogni monoteismo. Ma queste discussioni sul “tipo unico” sono così antiche che se ne è persa memoria; ne discuteva già Renato Serra all’inizio del Novecento, più o meno negli stessi termini.
5. Come lavora allo scouting? Quali modalità di “reclutamento” e selezione predilige? Quali canali utilizza?
Lo scouting avviene in molti modi. La prima è quella della selezione dei manoscritti che piovono nelle case editrici, anche attraverso gli agenti. Ma forse è paradossalmente la modalità meno fruttuosa. Un’altra è quella delle riviste di racconti in rete, dove a volte si incontrano delle voci interessanti. Ma più difficile. Utile, per me, è provare ad avere dei complici, a costruire una sorta di complicità culturale con altri scrittori o amici che stimo e di cui mi fido: le loro segnalazioni sono sempre preziose. Ultima, è quella dettata dal caso. Questa è la più avvincente. Ci si imbatte per caso in qualcosa che ci colpisce, che si intuisce possa avere uno sviluppo, a volte è una persona, una voce, una frase, il sospetto che dietro ci siano delle pagine chiuse in un cassetto, o una potenzialità. E’ raro, ma succede anche questo; bisogna però stare ben attenti, leggere dietro, indovinare più che riconoscere. E quando succede, può essere entusiasmante. Ha a che fare con la scoperta, e anche con la scommessa.
6. Quale rapporto ideale (dissolvenza, rimozione, assunzione di eredità) gli editor odierni intrattengono con le figure editoriali ‘leggendarie’ del Novecento (da Vittorini a Sereni)?
Non so per gli altri. Per me il ruolo dei letterati editori nel Novecento è stato fondamentale. Scrittori come Vittorini o Calvino o Debenedetti o Bassani o Manganelli o Sciascia hanno aggiunto la loro esperienza diretta della scrittura a questo lavoro: si tratta sempre di artigianato, ma è abbastanza comprensibile che un artigiano che abbia già lavorato molto per suo conto sappia in che cosa consista il lavoro, dove mettere le mani, perché lo ha già fatto, e in più ha un’idea delle forme che gli viene appunto dalla pratica, non è soltanto teorica o studiata. Quell’esperienza è stata una grande ricchezza per l’editoria italiana novecentesca, e va ancora indagata, compresa. Personalmente, nutro la leggenda di Sciascia; tra tutti questi, è forse quello il cui ruolo di editore non è stato ancora valutato appieno, credo.
7. Casi di studio: può fare uno o più esempi di testi esemplari con si è confrontato?
Il mio caso esemplare, per tutto quello che questa storia racchiude, è Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino. Ho creduto in questo libro da quando ho iniziato a leggerne le prime pagine, sopra un treno. Ma non è stato facile. Il manoscritto era passato inosservato, e anche quando il libro finalmente fu pubblicato, un anno fa, ha avuto un avvio stentato. Alla prima presentazione eravamo in sette persone; a Natale scorso aveva venduto pochissimo. Poi invece, grazie anche a un lavoro di squadra della casa editrice, è finito nelle mani giuste, e inedite, anche al di fuori di quelle che costituiscono l’ambito che ruota intorno all’editoria, la sua tradizionale catena di rapporti: firme di critici autorevoli hanno iniziato a parlarne bene, se ne sono innamorati gli attori. Il libro ha in qualche modo oltrepassato un confine. Ma niente sarebbe potuto accadere se non fosse stato per i lettori, per il loro passaparola, per la loro progressiva identificazione nel protagonista, un cocciamatte di un piccolo paese abruzzese. Questo è avvenuto per me perché il romanzo aveva questi due punti di forza: la lingua e il personaggio. E un disegno ampio, addirittura l’ambizione di raccontare un secolo di storia dal punto di vista di un fuori margine, fuori dal margine, appunto. I lettori lo hanno amato tanto da premiarlo con il Premio Campiello, la cui vittoria è decretata dal giudizio di trecento lettori anonimi. E’ stata un’avventura, resa ancora più bella dal fatto che di questo autore, Remo Rapino, un professore in pensione di Lanciano, fino a pochi mesi fa non ne aveva sentito parlare nessuno. Un outsider anche lui, come il suo personaggio, come l’idea di letteratura che condividiamo.
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