Alla ricerca del tempo che non abbiamo perduto
Sulla retorica della sconfitta
Il discorso pubblico sulla scuola è stato dominato, negli ultimi mesi, da metafore di perdita e di sconfitta.
Un potente esempio di questo genere di retorica, e della sua scarsa utilità per comprendere la realtà e risolverne i problemi, è costituito da molte riflessioni sui giovani.
I media (e chi ha cercato visibilità attraverso di essi) hanno scelto spesso di partire dalla metafora potente del “furto di futuro”: ne sono derivati racconti di giovani ingannati, sofferenti, abbandonati, vittime. Come logica conseguenza, si sono cercati colpevoli e responsabili, prevalentemente nella didattica digitale (per un breve momento personaggio positivo, poi la “cattiva” della storia”), nelle istituzioni (unite in un complotto per escludere gli studenti), talvolta nei docenti (comodamente seduti a casa, mentre i giovani fremevano dal desiderio di andare a scuola).
Naturalmente, questi racconti non sono privi di una piccola parte di verità; sono però ben lontani dall’esaurirla e anzi in larga misura la tradiscono. Lo attestano con evidenza alcune autorevoli voci fuori dal coro: la giornalista Selvaggia Lucarelli si è soffermata più volte su ciò che i giovani imparano dalla pandemia nell’ambito della loro socialità; lo psicanalista Massimo Recalcati ha sviluppato una seria riflessione sul significato e sul ruolo del dolore nel percorso di crescita di ciascuno di loro.
Un esempio più specifico della costruzione di un nesso automatico e indiscutibile fra emergenza e perdita è costituito dagli articoli ed interviste a tema didattico che quantificano i danni subiti dal sistema, in vista di futuri interventi di “ristoro formativo”; un’espressione in cui, in modo molto significativo, agli studenti e alle loro famiglie si riconosce un indiscusso diritto ad un risarcimento per un grave danno subito.
Spiccano, in quest’ambito, le dichiarazioni della direttrice dell’INVALSI Anna Maria Ajello e del direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto: in base ai loro calcoli e stime, le perdite negli apprendimenti sarebbero vicine al 100%, e si potrebbe addirittura misurare (in 21.000 euro nel corso della loro vita lavorativa) la perdita salariale che subiranno i giovani che hanno studiato in questo periodo.
Queste scelte retoriche hanno concentrato tutta l’attenzione, in modo spesso spasmodico, su “ciò che si è perso” in quest’ultimo drammatico anno nella vita della comunità scolastica.
È una prospettiva fondata su premesse talvolta deboli, gravida di conseguenze quanto meno discutibili se proiettata sulle scelte politiche che ci attendono nel prossimo futuro. Vorrei quindi provare a metterne in discussione alcuni aspetti. .
Raccontarci, per recuperare
Se noi insegnanti ci chiediamo cosa abbiamo perduto in questi lunghi mesi, di una cosa abbiamo la certezza: che non abbiamo perso tempo.
Mai come in questo periodo siamo stati impegnati sui fronti più diversi: la ricerca e l’adattamento a soluzioni organizzative e didattiche impegnative e complesse (orari, turnazioni, valutazione); il costante interrogarci sul contenuto del nostro insegnamento (conoscenze, abilità, didattica, “utilità” delle discipline), in una situazione di crescente solitudine e precarietà; la costruzione di nuove forme di relazione e socialità, con i gruppi dei docenti, con le famiglie, con le ragazze e i ragazzi.
Le cose che abbiamo perduto non sono quindi dovute al tempo in sé e per sé, bensì alla distorsione temporale che stiamo vivendo: una circostanza storico-sociale in cui niente è prevedibile, perché niente è come lo conoscevamo; e i nostri strumenti culturali e professionali si rinnovano di giorno in giorno, perché nessuna e nessuno di noi avrebbe potuto immaginare scenari simili.
Nella situazione attuale, generalizzare e semplificare sono atteggiamenti mentali poco produttivi.
Ad esempio, affermazioni come quelle relative alla perdita degli apprendimenti (che per Ajello ad inizio gennaio oscillavano fra il 30 e il 50%, ma il 20 erano vicine al 100%) sono semplicemente illogiche, perché è impossibile riferirle con chiarezza e precisione ad uno qualsiasi dei tanti differenti segmenti che costituiscono il percorso formativo.
Per quanto sia faticosa, la strada da percorrere è esattamente opposta: ascoltare il racconto delle esperienze e, sulla base di questo racconto, cercare di costruire ipotesi di spiegazione e soluzioni praticabili.
Naturalmente, all’interno di questo percorso possono assumere un ruolo anche i test di misurazione degli apprendimenti. Tuttavia, non credo che, in questa circostanza, il loro ruolo possa essere decisivo.
Mai come in questa circostanza, ci troviamo di fronte all’intreccio fra “oggettività” e “soggettività”, nella valutazione di un fenomeno e nella scelta dei comportamenti da attuare. È preferibile allora partire da un onesto confronto fra diverse soggettività, anziché dall’adozione di una logica standardizzata. Provo a spiegare perché, riferendomi alla mia esperienza.
Condividere esperienze per scegliere come agire
Come molte e molti di noi, ho impiegato mesi per capire che sbagliavo, credendo che si potesse insegnare a distanza conservando gli stessi quadri culturali e le stesse scelte didattiche costruite in trent’anni di esperienza nella normalità. Paradossalmente, da quando ho accettato questo limite, ho cominciato a distinguere qualche punto di riferimento.
Le mie riflessioni sono riferite alla secondaria superiore, e ad una situazione di privilegio rispetto ad altre più problematiche, e questo è certamente un limite.
Potrebbero però costituire un punto di riferimento metodologico, un modo di osservare e condividere i risultati del nostro lavoro in questo periodo; costituiscono infatti un tentativo di fare emergere dall’esperienza soggettiva pochi temi significativi, in vista di una discussione teorica partecipata.
Ne fermo due, che pur nella loro provvisorietà mi sembrano promettenti.
- L’esigenza di lavorare per ridurre lo scarto crescente fra lo sviluppo delle abilità nella comunicazione/ argomentazione orale e nella scrittura. La capacità di comprendere e produrre pensieri, nel dialogo e nelle verifiche orali, sono state sviluppate durante l’emergenza secondo ritmi e modalità consueti (fatta ovviamente eccezione per i pochissimi casi di oggettive limitazioni nella dotazione tecnologica). La peculiarità della comunicazione nella didattica digitale ha anzi incrementato abilità nell’uso di alcuni strumenti tecnologici in situazioni didattiche significative: dal “vecchio” ma sempre utile Power Point alla socializzazione in tempo reale delle ipotesi e dei problemi. La condizione di “virtualità” nell’esercizio di una parte significativa della nostra professione ha inoltre spinto verso attività di compresenza e collaborazione; nel mio caso, la condivisione di obiettivi e contenuti del percorso di Educazione Civica si è spesso espressa attraverso la presenza contemporanea di due docenti nella classe virtuale, con effetti sicuramente costruttivi. Le abilità di scrittura, già più problematiche e sfaccettate nell’ordinario, non hanno avuto invece lo stesso ritmo di crescita. Al netto dei fattori soggettivi (in particolare, l’eventualità del ricorso alla copiatura e al plagio durante esercizi e verifiche) e nonostante alcune interessanti esperienze di documentazione e produzione su documenti condivisi, è cresciuta la distanza fra le persone già in possesso di abilità fini ed evolute, e quelle caratterizzate da capacità più grezze ed incerte.
- La difficoltà (starei per dire il senso di impotenza) di fronte alla crescente distanza fra ragazze e ragazzi in grado di ipotizzare, gestire e socializzare processi di pensiero complessi, ed altre/ i che di fronte ad essi perdono il filo, e non riescono a dare forma compiuta e chiara all’intreccio fra le loro conoscenze, le abilità, le intuizioni. Questo divario, anch’esso conosciuto prima dell’emergenza, si manifesta ora con maggiore evidenza nelle forme di scrittura complesse (in particolare, la produzione scritta di argomentazioni) e drammaticamente nella traduzione dei testi latini d’autore. In quest’ultimo ambito, il possesso di nozioni e di un approccio razionale alla versione risulta spesso insufficiente a risolvere i molteplici problemi legati alla complessità delle operazioni logiche in gioco (dal ricorso alla memoria lessicale di lungo periodo alla fruttuosa consultazione del dizionario, dall’individuazione degli elementi cruciali per una corretta comprensione del senso generale alla capacità di correggere i propri errori)
Mi domando sinceramente se considerazioni di questo genere possano risultare confrontabili con quelle di colleghe e colleghi che hanno lavorato nella stessa situazione (il triennio di Lettere dello scientifico). E se conservino una qualche utilità, messe in relazione alle valutazioni e alle impressioni di chi insegna in altri ordini o gradi di scuola.
Mi preoccupa però che le strade di cui si sente parlare con insistenza a proposito dei “ristori formativi” si tengano ben lontane dall’ascolto delle esperienze di chi insegna e dal tentativo di costruire quadri teorici ed azioni didattiche ispirate alla concretezza del momento; rivelandosi, invece, piuttosto attente alla definizione di una soluzione burocratica/ organizzativa. Ritornano con insistenza, infatti, provvedimenti e prospettive vecchie e nuove, segnate da una comune vicinanza ai più tipici luoghi comuni del discorso sulla scuola e sulla professione docente: il ricorso massiccio ai test INVALSI, il prolungamento dell’anno scolastico, la valutazione degli insegnanti.
I test possono certamente consentire di individuare statisticamente alcune difficoltà, ma non dicono quasi nulla sui problemi di cui ho in precedenza cercato di sottolineare l’importanza. In particolare, in quanto strumenti quantitativi basati quasi esclusivamente su risposte convergenti, non possono in alcun modo prospettare questioni logiche significative, né misurare elementi di competenza reale, che richiedono approcci divergenti e risposte critiche soggettive e argomentate.
Il prolungamento dell’anno, da parte sua, è viziato da un difetto di fondo: la convinzione che i problemi creati dall’emergenza siano determinati da una carenza di quantità di istruzione. Mentre si tratta invece di un problema di qualità del percorso: alla base delle carenze vi è infatti stata l’oggettiva impossibilità di utilizzare logiche consuete e tempi conosciuti. Immaginare di porre rimedio alla situazione che si è creata attraverso venti (ma fossero anche quaranta) giorni in più di scuola è un’idea debole. Tanto più che, nonostante gli esiti siano in parte insoddisfacenti, la fatica non è certo stata inferiore; anzi, ogni giorno che passa si sente un’ansia crescente, e esiste il rischio concreto di sovraccaricare gli studenti e noi stessi di un lavoro che darà scarsi risultati.
Modelli di azione, modelli di pensiero
Più degli strumenti che saranno adottati, a mio giudizio, conteranno i valori e gli atteggiamenti che ne saranno alla base. E il fatto che si affidi alle insegnanti e agli insegnanti un ruolo diverso da quello consueto: eseguire passivamente disposizioni burocratiche e organizzative senza avere minimamente contribuito alla loro ideazione, e quindi senza condividerle.
Se si tenesse conto della complessità delle questioni (pedagogiche, didattiche e culturali) in gioco, gli interventi dovrebbero essere cauti, coraggiosi e chiari.
La cautela potrebbe risiedere nel dare loro la fisionomia di sperimentazioni di ricerca-azione, lasciando spazio indispensabile agli aggiustamenti che l’esperienza suggerirà in corso d’opera. Si esprimerebbe inoltre in una scansione pluriennale, che parta dal presupposto di imparare dagli errori, non di imporre una verità oggettiva fabbricata in un altro tempo ed estranea a ciò che stiamo apprendendo in questi mesi.
Il coraggio imporrebbe delle scelte. Per esempio, accettare che alcune cose saranno perdute per sempre, e agire di conseguenza. Nel liceo scientifico, ad esempio, si potrebbe rinunciare a cercare di recuperare le abilità di traduzione perdute in Latino, considerando prioritario consolidare/ recuperare le competenze in Italiano. Si avrebbe così, nella peggiore delle ipotesi, una generazione di studenti deboli in Latino, condizione spiacevole ma certo non ostativa ad una matura consapevolezza nel lavoro e nella società.
La chiarezza consisterebbe nel coinvolgere chi insegna in un progetto collegiale e condiviso. Si tradurrebbe quindi prima di tutto nello sganciamento degli interventi da qualsiasi logica premiale o sanzionatoria, partendo dal presupposto che ciascuna/ o di noi ha commesso e commetterà errori nel momento drammatico che stiamo vivendo, ma che allo stesso modo ha fatto del proprio meglio.
Naturalmente, si può immaginare una risposta opposta, che cancelli i legittimi dubbi pedagogici e il dibattito sul valore e sull’insegnamento delle discipline (o magari le discipline stesse), per rinchiudere il discorso in un ambito apparentemente solido e rassicurante: quello di numeri, statistiche e percentuali. In questo modo, si sottrarrebbe però ogni valore collettivo e comunitario all’esperienza che stiamo vivendo, ed anzi questa diventerebbe una nuova occasione per metterci in competizione fra noi.
È uno scenario ricorrente in questi anni, riproposto con chiarezza da Boeri e Perotti su “Repubblica” del 14/ 02 (“Premiare il merito. Il voto agli insegnanti non è un tabù”, pag. 10), in termini molto espliciti:
(…) la priorità è quindi accertare i ritardi formativi causati dalle chiusure e individuare gli studenti più bisognosi di aiuto. A questo scopo sarebbero necessari test standardizzati (quasi a costo zero), che servirebbero anche per valorizzare il lavoro degli insegnanti: sono una misura della loro importanza nell’accumulazione di capitale umano
Il bivio è chiaro, e la sua portata va ben oltre il momento e l’occasione che stiamo vivendo: l’emergenza della pandemia, il problema di recuperare ciò che si è perduto.
È la scelta fra una scuola che accumula il capitale umano e un’altra che insegna ed impara nella relazione con altre persone.
La perdita più grande incontro alla quale potremmo andare è quella della nostra umanità.
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