
Storia della mia copertina: I fratelli Michelangelo
Raccolgo l’invito di Morena Marsilio, emerso durante questo dialogo attorno al mio esordio Personaggi precari, la storia della cui copertina già fu raccontata su queste pagine, ad aggiornare tale narrazione con quella della copertina dei Fratelli Michelangelo, il mio romanzo più recente. Storia, anch’essa, non priva di accidenti.
Quando il testo cominciava a prendere la sua forma definitiva, la prima idea emersa fu di una soluzione grafica in cui titolo e immagine si ibridassero, come quelle che vanno molto oggi nell’editoria anglosassone e diversa quindi dallo standard della collana SIS di Mondadori. L’idea era avere un albero al centro, a ricordarne uno genealogico, ma anche l’ambientazione del piano presente del romanzo, nella foresta appenninica di Vallombrosa. Una buona idea, che tuttavia non mi convinceva fino in fondo. Se il rimando “forestale” era buono, meno persuasivo era per me quello alla genealogia. Il libro conteneva già un albero genealogico, e già questo sarebbe stato un po’ ridondante, ma soprattutto il suo scopo era diverso da quello che hanno normalmente gli alberi genealogici all’inizio dei romanzi: l’intento era infatti sottolineare le molte mogli di Antonio Michelangelo e l’orizzontalità di famiglia e libro – I fratelli Michelangelo è la storia dei suoi figli Enrico, Louis, Cristiana e Rudra, molto più che della loro peraltro scomposta famiglia – nonché il fatto che i Michelangelo erano tutto meno che una dinastia.
Mentre il team grafico pensava a un’altra possibile soluzione, era tuttavia giunto il tempo del primo copertinario, che viene inviato con molti mesi di anticipo alle librerie. Ci si orientò verso l’arte contemporanea e venne scelto un Rothko, questo.
Di primo acchito ci convinceva molto; poi notammo che, se da un lato dava un’incontestabile aura d’importanza al libro, dall’altro era una copertina troppo “muta”, che nulla suggeriva del carattere corale del romanzo, del suo pullulare di protagonisti, comprimari e piani temporali. Inoltre l’interazione tra il lemma “Michelangelo” e un’immagine immediatamente riconoscibile da chiunque come pittura contemporanea rischiava di caratterizzare troppo il libro su quel tema che, pur essendo centrale in una delle sue quattro parti – la Parte di Cristiana, come notava Raccis, è un “romanzo dell’artista” contenuto nel romanzo principale – non lo era nelle altre. Quando poi la mia fidanzata mi fece notare che il suo libro di Economia Politica all’università aveva la stessa opera in cover, capimmo tutti definitivamente che sarebbe stato meglio trovare qualcos’altro.
Tra le proposte di quel giro c’erano, oltre ad altri Rothko, anche dei Richter, come questo:
… Già meglio, dato che il pubblico generalista non vi avrebbe riconosciuto un’opera precisa tanto immediatamente quanto con un Rothko; da lì sgorgò tuttavia un’idea ulteriore. Non aveva forse Gerhard Richter realizzato una serie di opere, le cosiddette Overpainted photographs, in cui aveva applicato pittura su vecchie fotografie? Intuimmo che lì poteva esserci quella sintesi tra alto profilo artistico, narratività e realismo che cercavamo. La prima a “candidarsi” fu questa, che suggeriva l’ambientazione vallombrosana, popolando quella foresta di conifere con presenze enigmatiche.
Per quanto quegli spunti di colore potessero avere vaste interpretazioni, mancavano ancora i personaggi. Partì allora un ballottaggio assieme alla mia editor Linda Fava e al resto dei mondadoriani, in cui furono in ballo soluzioni come queste, assai persuasive a livello simbolico – un passato in qualche modo “travolto” dalla contemporaneità – ma forse poco impattanti a livello grafico, essendo i colori un po’ cupi.
Dopo molto confrontare, capimmo che la migliore era questa, che suggeriva il peso del presente sul passato con un effetto generale meno fosco; inoltre quei due bimbi potevano ben ricordare dei giovanissimi Cristiana e Rudra.
Tutti contenti procedemmo all’ufficializzazione, finché non arrivò lo stop della Fondazione Richter: il sommo pittore, infatti, aveva bloccato l’autorizzazione e voleva sapere l’argomento del libro. Essendo quelli in foto i suoi figli, se vi fossero stati elementi macabri o violenti associati ai fanciulli, preferiva non venisse usata. La casa editrice scrisse allora alla Fondazione raccontando nel dettaglio la vicenda, e il fatto che nel libro si parlava anche di arte contemporanea e dei figli di un uomo che – tra le altre cose – era stato anche un artista di rilievo. Un paio di mesi dopo, però, Richter non aveva ancora risposto e noi dovevamo andare in stampa.
Fu un momento un po’ drammatico: ormai identificavamo tutti il libro con quella copertina, già montata, e quando arrivarono altre (ahinoi indispensabil) opzioni d’emergenza, quelle foto di altri bambini, sebbebe di grandi fotografi, apparivano aliene, sconosciute e fuori luogo.
Chi diavolo erano quei marmocchi? Di certo io non li conoscevo, pensavo. Di certo non son figli miei, masticavo amaro, ormai rassegnato al peggio. Poi, all’ultimo momento, letteralmente l’ultima settimana utile Gerard Richter disse sì, e vivaddio questo è ciò che andò in stampa:
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