Perché leggere Althénopis di Fabrizia Ramondino
(Althénopis è) Il nome della mia città natale. In origine il suo nome significava «occhio di vergine». Ma pare che i tedeschi, durante l’occupazione, trovandola così imbruttita rispetto alle descrizioni di Mozart (riferite anche in una novella di Mörike) e di Goethe, le mutarono il nome in Althénopis, che starebbe appunto a significare «occhio di vecchia». Alcuni letterati apologeti della nostra città accampano l’interpretazione «occhio di saggio»; contro questa interpretazione però si oppone da un lato la constatazione che i barlumi di saggezza sono ancora troppo tenui nella nostra città, come altrove, per essere considerati duraturi; dall’altro il dizionario tedesco stesso, dove saggio suona weise e non alt. L’Ente del turismo, dietro suggerimento di un assessore, propone il seguente etimo: alt sarebbe una radice greca, da althéa, la pianta dal fiore di rosa. Althénopis sarebbe dunque la città dall’«occhio di rosa» ovvero dall’«occhio di aurora». Tutto questo, se serve a turlupinare i turisti, manca però di ogni fondamento filologico (Althénopis, Einaudi 2016, p.10)
Memini, meminisse
Quando Einaudi, a trentacinque anni dalla prima uscita, ripubblicò Althénopis (1981), apparve sul Corriere del Mezzogiorno e poi su Minima&Moralia una bella recensione di Alessandro Leogrande, alla quale senza esitare rimanderemmo tutti coloro che del romanzo d’esordio di Fabrizia Ramondino (esordio alla narrativa: sulla scena intellettuale Ramondino non era certo una debuttante) desiderassero ricostruire la genesi – per così dire – morale: la guerra, il vagabondaggio per paesi diversi, l’esperienza politica del Sessantotto, gli anni di piombo, l’inchiesta sui disoccupati del Mezzogiorno, il terremoto del 1980. Questo vissuto così intenso, così vario per incontri e relazioni (relazioni umane, sociali, linguistiche, spaziali) costituisce in qualche modo l’antefatto di quel caleidoscopio di narrazioni che è Althénopis; e per questo è molto difficile da mettere in sordina. Probabilmente questo vale per qualsiasi scrittura di spessore, ma vale a maggior ragione per questa «scrittrice riflessa» che dei suoi trascorsi fa oggetto diretto di narrazione, senza per questo indulgere ai toni trasognati e stucchevoli di certe memorie d’infanzia, o a quelli ugualmente urticanti del cinismo di maniera dell’adulto. Non per nulla a tenere a battesimo Althénopis furono Natalia Ginzburg ed Elsa Morante, due che sul rapporto tra scrittura e memoria la sapevano lunga. Ramondino si mette dunque davanti quella materia ricca, corposa che è la sua storia familiare e personale, nutrita di immagini e odori, di luoghi e sapori, di visi, caratteri e umori: l’eden perduto della primissima infanzia a Maiorca, al seguito del padre console; il rientro a Napoli dopo l’armistizio del ’43, la disgrazia, la povertà; la precarietà della giovinezza, perennemente ospite d’altri; il difficile rapporto con la madre, la ricerca e la conquista dell’indipendenza, il ritorno, ormai donna, alla casa materna. E se, come la nonna (cuoca sublime e sventata), in quella materia affonda le mani di slancio come a impastarla per un millefoglie sontuoso, d’altra parte, come la madre, la riconduce a misura severa, la ripartisce e le impone scansione. Il racconto si presenta pertanto suddiviso in tre parti (a loro volta sottopartite): Santa Maria del Mare, Le case degli zii, Bestelle dein Haus. Dall’universo straordinario dell’infanzia, popolato di lazzari, soldati, contadini, notabili, santi martiri ed eroi, e in osmosi con la piazza, i sentieri, le ville, la Marina (altrettanti capitoli della prima parte), il racconto si sposta al primissimo dopoguerra, negli spazi chiusi delle case degli zii per approdare, al ritorno dal Nord (e che Nord! Nella realtà Ramondino seguì un cugino a Francoforte), alla casa della Madre, al suo piccolo mondo di forbici, occhiali, chiavi, di oggetti e maniere; e anche la voce narrante si fa oggetto, in qualche modo, perde la prima persona, si guarda narrare in terza, oggetto fra gli oggetti, reificazione del racconto; stretta e asfissiata tra gli alti palazzi in bilico degli anni Settanta.
Era tornata sconfitta dalla Madre, come a chiederle ragione della sua vita. Non era, al di fuori delle Maniere, che affanno e cuore aritmico. Alle Maniere rispondeva con altre Maniere. Al geroglifico con altro geroglifico. Intanto il mondo attorno crollava pezzo a pezzo. Gli ascensori potevano precipitare. I fili elettrici per strada spezzarsi. I pullman uscire dalla curva. Le automobili e i tram venirti addosso. E gli alti palazzi obliqui si protendevano l’uno verso l’altro come giganti in lotta. Il cuore poteva, per una burla crudele, fermarsi. (p.265)
Per una ricognizione dei luoghi
Romanzo di memorie e della memoria, Althénopis sfugge risolutamente tuttavia ai toni e ai modi della favola, e si impone l’adesione impudica ai luoghi, ai corpi, agli oggetti che la memoria visita, «insieme fedelissima e libera di prendersi le sue libertà figurative» (come scrive Silvio Perrella nella ottima prefazione). Nonostante il travestimento lieve dei nomi d’invenzione (Althénopis per Napoli, Santa Maria del Mare per Santa Maria di Massalubrense, etc.), i luoghi della vicenda narrata sono spazi reali e percorribili nella loro tridimensionalità, contenitori e dispensatori di storie con il loro portato sensibile di odori (buoni e cattivi), colori, impressioni, perfino quando il ricordo infantile esplicitamente sembra cosparso di polvere magica (la cucina della casa della nonna, per esempio, diventava un antro fiabesco). Forte di una frequentazione eccezionale di ambienti geograficamente e socialmente disparati, Ramondino traccia una mappa dei luoghi che è il primo test importante dei binomi e delle antinomie che fanno ricca e difficile l’esistenza di molti, non solo la sua: dentro-fuori, vuoto-pieno, ricchezza-povertà, sapere-ignorare, vincoli-libertà. Per convincersene, basta attraversarne qualcuno, anche a caso. Ecco, ad esempio, la piazza di Santa Maria del Mare:
Una piazza civilissima assolata, mediterranea, povera, mai misera, ridente di fiori ai davanzali, pulita da ciascun abitante per un suo pezzo ogni mattina con una scopa di ginestre, concepita e costruita, pareva, in un solo momento con un solo progetto, tanta n’era l’armonia, l’utilità sociale e la grazia (p.24).
Ecco il palazzo dove si trova l’appartamento della zia Callista, il primo ricovero dopo la morte del padre (che andrebbe attraversato contemporaneamente al suo pendent piccolo-borgese, il palazzo della zia Cleope, uno degli squallidi blocchi di caseggiati intensivi costruiti fin dall’epoca della Grande Guerra, p.198):
Il palazzo Nobile si trovava in una signorile e silenziosa via di Althénopis e aveva ben due cortili ombreggiati ad arabeschi da alti palmizi, che noi durante la guerra attraversavamo correndo, con le pentole in capo, a protezione delle schegge, per scendere nel rifugio, cioè negli scantinati del palazzo. Ma la guerra e l’andirivieni popolare nel rifugio, che era aperto a tutto il quartiere, erano finiti da tempo. I due cortili erano deserti di popolo e il condominio impediva a noi ragazzi di giocarvi. (…) Ognuno se ne stava chiuso nella sua casa, con le sue tristezze, le sue noie, il suo chiasso. (p.180)
Ecco la casa finalmente riconquistata dalla Madre, che riceve la Figlia, ormai donna, sulla porta di ingresso con un abbraccio fragile come il penultimo cerchio nell’acqua fatto dalla pietra:
La casa di tante case era la perfetta Maniera. Da poco fatta rinnovare dalla Madre, ripulita dai sudori degli inquilini e da miriadi di scarafaggi estivi, che entravano dalle fessure lasciate aperte dall’incuria, dagli schizzi di sugo sulle pareti dove si affollavano le mosche. Con pavimenti di marmo nelle Rappresentanze, maiolicati in vari colori i bagni, bianchissime le porte e le pareti e i corridoi ricavati per il disimpegno; tante camere da letto (per chi?) e la solita cucina un po’ trasandata… (p.254)
Per una ricognizione dei corpi e dei gesti
Tutti i luoghi (lo osserva già Leogrande) vivono di un rapporto simbiotico con le persone che li abitano o li attraversano; simbiosi che tocca l’acme nel mare, dove, come pesci nel loro elemento, insieme tornavano i fratelli nel regno millenario dal quale erano usciti (p.82). La narrazione incontra dunque un repertorio incredibilmente vario di personaggi, mai tipi esattamente come non sono mai bozzetti i luoghi a cui sono visceralmente legati. Di questi personaggi la voce narrante non riporta mai i dialoghi, se non in tralice, o sottotraccia; lascia che a parlare siano piuttosto i loro corpi, i loro gesti, che s’imprimono con l’evidenza di un marchio, siano essi di adulto o di bambino, miseri o fascinosi. Indiscutibile il primato di due figure sulle altre: la madre (il vero fil rouge dell’intera narrazione, nevrotica, frustrata ma in qualche modo eroica nel suo spietato senso della realtà, p.40) e la nonna (elegante e impetuosa, aristocratica e semianalfabeta, estrosa, voluttuosa e bigotta; indimenticabile davvero). Ma intorno a loro si dispongono autorevolmente le altre figure e non si riesce a ricondurle a un coro e men che mai al rango di comparse fugaci. E questo vale per tutte. Vale per lo zio Alceste, coltissimo e stralunato, che trascorre «ore nelle legatorie di Althénopis a consigliare e suggerire, a spiegare come quella gradazione di rosso si addicesse alla tale opera di D’Annunzio, quella di celeste ai pensieri di Lao Tze o a Proust» (p.95). Vale per la zia Callista, bellissima, pittrice, emancipata, che «quando dipingeva, indossava mises lussuose, anche se tutte macchiate, come si addice a una bella donna o a una sacerdotessa» (p.185). Vale per la piccola Mariarosa, figlia unica di un potente ex fattore (ora dedito a molti altri traffici), che «era trattata meglio degli altri bambini, aveva sempre degli impeccabili vestiti a fiori, i capelli lucidi, pettinati con cura e lavati con lo shampoo e non con la saponetta come gli altri bambini» (p.25). Vale davvero per tutte le figure e qui non è proprio possibile dire di ognuna. Diremo solo delle mani: siano esse quelle serenatrici della nonna, odorose di incenso, olio, polvere, cera e fiori (p.8), o quelle inquietanti della madre, sempre pronte a cancellare «sciocchezze», lavare via qualcosa, odorose di sapone (ibidem), o quelle della zia Celeste, sempre chiuse su qualcosa, sul corrimano, sul pomo del bastone, sulla borsa di velluto marrone, sul bottone della radio, sulla mia spalla magra (p.93), o quelle di contadini, serve, sarte, insegnanti, becchini, ingegneri, studiosi, artisti o santi, tutte queste mani di continuo toccano, plasmano, gustano, guastano, subiscono un mondo silenzioso e solo apparentemente inerte di oggetti.
Per una ricognizione degli oggetti
Mai corollario ai luoghi e alle persone, più spesso di quei luoghi e di quelle persone gli oggetti rappresentano strumenti rivelatori, capaci anche di svelare gli impliciti di un’epoca o di una generazione, le storture degli esseri umani e della storia, le aspettative deluse, o tradite, e comunque ostinate, e per questo contemporaneamente mortifere e vitali. La voce narrante si muove incessantemente entro una prospettiva sociale estremamente ampia, obbligata prima dagli eventi e poi da una sorta di necessità etica a mutare di continuo il punto di osservazione sugli ambienti e sulle classi. Questo determina un patrimonio (non un accumulo) di oggetti di cui è difficilissimo fare un inventario; si può tentarne una campionatura che abbia qualche valenza di esemplarità, anche quando si proceda per ammanchi di oggetti, come nella casarella, la casa di ripiego occupata a Santa Maria del Mare nel ‘43:
Mancavano quelle piccole rifiniture che si fanno in una casa dove si è abitato a lungo e che si ama. Mancava ad esempio il riquadro dipinto in tinte vivaci intorno alle finestre, mancavano i sostegni di ferro per i vasi di fiori (…) mancavano i fiori stessi. (…) I vetri erano polverosi. (…) Pochi e poveri erano i mobili della casa: dei lettini di ferro, alcune seggiole impagliate, un paio di tavoli, alcune suppellettili di cucina, una macchina per cucire, un armadio. Mai, con un copriletto di cretonne, con un vaso di fiori, con un ninnolo, con un tappetino, la mamma cercò di ingentilire quella casa, che sempre doveva apparire come una sistemazione d’emergenza, come una casa di sfollati, dove, per vicende drammatiche, si era stati costretti a trovare riparo (p.38)
Esemplari davvero sono gli oggetti da lavoro dello zio Alceste, e gli ammonimenti che mi venivano da quegli oggetti strani:
I libri in primo luogo, a volte rossi e fiammeggianti, a volte celesti, o, più preziosi e segreti, con copertine giallognole, dai titoli in marrone o rosso bordò; e non era pura frivolezza estetica (…). Tra un libro e l’altro c’erano ninnoli vari: la lente d’ingrandimento, un tagliacarte di avorio, una sfera di cristallo contenente un paesaggio orientale, un fermacarte d’ottone in forma di mano che si apriva e chiudeva con una pinza e s’inseriva in quella serie di oggetti antropomorfi o zoomorfi che iniziavano col battente del portone e continuavano con la gamba della svastica siciliana o trinacria (…), con i piedi unghiuti della sfinge (…), con il sole occhiuto dipinto al centro della volta, (…) con una bomboniera di ottone dai ricurvi piedini, a forma di zampette di cane. (p.95)
Esorbitanti nel numero e dalle ragioni dell’utilità, del bello o del decoro, sono gli oggetti di cui si circonda l’acquisito zio Chinchino, novello Trimalchione, sprofondato, grasso, unticcio, sguardo acuto e vorace, nel lusso di oggetti e leccornie del suo ridondante appartamento da parvenu:
Le pareti erano tappezzate di fotografie, di quadri, di oggetti bizzarri. In una foto si vedeva lo zio Chinchino vestito da pascià, in un’altra travestito da rajà, in un altro seminudo sul suo yacht (…) Mobili di ebano lucido, vetro e metallo, che parevano mobili di ufficio, erano allineati lungo le pareti della sua stanza e sui loro piani disposti a varie altezze erano ammucchiati incredibili oggetti. Accanto a ninnoli più consueti, collocati lì probabilmente al tempo del matrimonio con la zia, c’erano vasi da notte, cessi, merde in miniatura, decine di falli di gesso (…); scatole colorate piene di cioccolatini o di frutti canditi; amava aprire quelle scatole e offrirne. (…) Aveva in una vetrina una collezione di scheletri d’avorio e di osso con viti di argento alle articolazioni… (pp.225-226)
Sono oggetti che parlano la lingua di una tumultuosa e geniale volgarità (p.217), cui risponde quel religioso sistema di valori, che veniva definito signorilità (p.119) e che nel Salotto (proprio così, con la S maiuscola) tardivamente messo insieme dalla madre intona un raggelante de profundis:
Era un ibrido, con l’imitazione di spessori appartenuti ad altri, ad esempio a sacrestie spagnole, mas provenzali, dimore di avi professionisti e possidenti da generazioni. (…) Non mancavano i mobili e i bibelots in «stile» – Luigi XVI o Impero -, ma ammucchiati gli uni accanto agli altri, in un bric-à-brac di ostinato decoro, sradicati non solo dai nessi culturali ma anche dalle loro funzioni, – seppure ne avevano avute -, perché quello che contava era il loro essere in «stile», a rappresentare non tanto la Famiglia qual era, ma i suoi fasti passati, e quelli a venire, sicché il Salotto valeva come ammonimento ai figli della necessità di affermarsi socialmente… (p.260)
Scappa la Figlia col cugino Achille al Nord, nel paese da cui veniva la plastica, il paese dove si poteva amare, in scientifiche copulazioni, senza turbamenti (p.249). Ma è ad Althénopis che dovrà tornare per regolare i conti, con Althénopis, con la Madre, col Salotto; e con se stessa.
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