Se vi sembra accettabile dire “se sei in quarantena, niente concorso”
Mancano appena 20 giorni all’avvio del concorso straordinario abilitante con cui si selezioneranno 32mila docenti di ruolo. Come è già capitato per altri concorsi, le discussioni intorno ad esso sono state infinite e durano ormai da mesi. Ne faccio un riepilogo, in ordine cronologico: è un concorso o una sanatoria? è accettabile una prova scritta in forma di quiz o le domande devono essere aperte? va fatto subito, va rimandato o bisogna rinunciarvi del tutto a causa della pandemia, immettendo in ruolo ope legis?
La polemica di queste ore riguarda una decisione della ministra, debitamente denunciata dai sindacati e dal presidente della Commissione istruzione e cultura del Senato: i precari che il giorno dello scritto manifestassero una sintomatologia sospetta o avessero una temperatura superiore a 37,5 gradi, non potranno svolgere la prova. Saranno esclusi anche quanti, avendo preso servizio, si trovassero in quarantena (che siano effettivamente ammalati o no). Si tratta di una scelta evidentemente inaccettabile: come è possibile che la si prenda anche solo in considerazione?
Chiariamo un aspetto preliminare: una pandemia, ora epidemia, è una situazione eccezionale e richiede misure eccezionali. Nessuno pretende che si metta a rischio la salute pubblica, creando focolai. Prevenzione e cordoni sanitari sono doverosi. Ma questo non può giustificare un terno al lotto per i precari, che aspettano da tempo. Si potrebbe rinviare tutto il percorso concorsuale, come chiedono i sindacati ed esponenti politici della stessa maggioranza, ma ammettiamo che si tratterebbe di una soluzione al ribasso. La soluzione al rialzo, più costosa certo in termini organizzativi ma decente in termini morali e politici, sarebbe quella di prevedere una sessione suppletiva, evitando esclusioni del tutto aleatorie.
Quest’anno i posti disponibili per i contratti a tempo determinato sono 130mila, non conteggiando il cosiddetto “organico covid”. I partecipanti al concorso straordinario sono circa 64mila. Si tratta di precari che hanno lavorato continuativamente nell’ultimo triennio (era il requisito per l’ammissione al concorso) e che presumibilmente sono in cattedra anche quest’anno, a coprire metà di quel fabbisogno. È grottesco che uno Stato chieda a un lavoratore di assumersi il rischio di entrare in aule in cui siedono, senza mascherine, fino a 30 studenti “a un metro di distanza dalle rime buccali” e poi lo lasci in balia del destino cinico e baro facendogli mancare l’appuntamento con l’occasione della vita.
Eppure l’ostinazione di Azzolina, per quanto assurda e ingiusta, non mi stupisce. Si vuole ancora e sempre dimostrare che sulla selezione degli insegnanti non si deflette dal rigore, neanche in condizioni critiche, come dimostrano i richiami della ministra alla Costituzione e al diritto delle famiglie di avere docenti selezionati con ogni crisma. Ora, chiunque abbia a cuore la qualità del servizio che la scuola offre ai cittadini vorrebbe insegnanti seri e seriamente selezionati. Ma ai proclami sulla necessità di concorsi che diventino la norma e non siano l’eccezione, tirati fuori dai cilindri come i conigli, ho smesso di credere.
Il precariato non è prodotto dai precari. È prodotto da una politica che non sa fare uno straccio di seria programmazione del reclutamento, che è in stato confusionale sui percorsi di formazione dei docenti almeno da quando l’esperienza delle Sis è stata archiviata, ma che si appaga di una simulazione di serietà che è sempre e soltanto retorica, simbolica, per sineddoche. Dico per sineddoche perché, quando manca il “tutto” di percorsi definiti e chiari, si proclama di voler estrarre il giudizio di idoneità al mestiere da una “parte”, il concorso, che è solo la coda del processo. Come quegli insegnanti che si mettono a fare i castigamatti all’Esame di Stato: intempestivi e comicamente rigidi.
Mi si potrà obiettare che se non si inizia oggi a prendere provvedimenti, si rischia di non farlo mai. Vorrei allora raccontare un aneddoto personale. Quando il ministro Profumo indisse il concorso del 2012, con il quale sono entrato di ruolo dopo 9 anni di precariato, ci trovavamo grosso modo in questa situazione: per anni l’immissione in ruolo era avvenuta per scorrimento delle graduatorie a esaurimento, nelle quali si entrava con l’abilitazione Sis, che prevedeva un numero chiuso in ingresso e un esame conclusivo. Ma Profumo ci spiegò che la legge non aveva mai garantito alcuna forma di automatismo tra abilitazione e ruolo. Finalmente lui ne ristabiliva il dettato nel suo più profondo spirito. Gli sfuggiva forse che ciò equivaleva ad ammettere, per logica deduzione, che lo Stato negli anni precedenti avesse proceduto ad immissioni in ruolo indebite. Ma ogni ministro deve dare ad intendere che solo con lui o lei, finalmente, si faccia sul serio. Dunque ci era concessa la possibilità di dimostrarci degni. Si sarebbero selezionati i più capaci. Qui si parrà la vostra nobilitate. Finalmente. Ci piegammo, mi piegai al concorso. Non dopo esserci fatti sentire, però.
Una sera, alla Festa dell’Unità della mia città, intervenne Profumo. Nonostante i controlli (si temevano proteste dei precari), un nutrito gruppo di sissini incazzati penetrò alla spicciolata nella sede del dibattito e chiese di parlare con il ministro. Fra il pubblico, mi ritrovai di fianco un ragazzo, di forse 5 6 anni più giovane, che mormorava questo mantra: “ma cosa vogliono questi qui, è sempre così in Italia, si pretende il posto statale e non si vuole nemmeno fare un concorso”. Gli dissi che ero “uno di quelli lì”. Gli raccontai delle Sis e del loro carattere già selettivo, dei 3mila euro spesi (più qualche altro migliaio in titoli extra), delle regole del gioco modificate a partita in corso, del concorso riapparso a sorpresa come panacea di tutti i mali – l’ultimo risaliva al 1999 e, se non se ne erano fatti altri, era proprio perché si riteneva che quello non fosse un buon modo per selezionare i docenti, meglio delle valide scuole di specializzazione, si era detto; salvo poi tornare, dopo qualche anno e per oscillazione del pendolo, a quel metodo «antico e nuovo» (Profumo). Se la sentiva di dire in coscienza che gli insegnanti venivano raccattati tra i primi disponibili per strada, che “questi qui” pretendevano senza pagar pegno? Fu irremovibile: in Italia funziona sempre così. Ed è vero.
In Italia funziona sempre così. Si fa e si disfa, si è incapaci di ordinata, continuata, positiva amministrazione della realtà, ma in compenso si è bravissimi ad allestire, a cadenza di qualche anno, dei teatri di posa in cui si rappresenta la virile commedia della selezione finalmente seria. Nel caso di questo concorso c’è una differenza: si tratta di una tragicommedia. La messa in scena che simula pomposa efficienza non manca nemmeno questa volta: il concorso s’ha da fare, non possiamo fermarci a raccogliere i caduti, ne va del futuro del Paese. Ma si è aggiunto l’ingrediente tragico del Fato: incrocia le dita e il 22 ottobre spera che il termometro non segni 37,6° di febbre.
P. S. Sulle Sis e il concorso del 2012 ho brutalmente semplificato: avrei finito per scrivere un altro articolo. In realtà non c’erano solo i sissini, bensì chi aveva la laurea abilitante, i vincitori del concorso del 1999 non ancora immessi in ruolo, i primi abilitati con Tfa. Anche per questo è difficile risolvere i problemi del precariato: quando cerchi di metterci le mani, ti ritrovi avvolto in una matassa in cui, difendendo i diritti di uno, ledi quelli di un altro. In questo contesto, come da manuale, la retorica meritocratica funge da perfetto schermo ideologico per legittimare l’ingiustizia.
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