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Per le rime

 In particolare, con riferimento alle indicazioni sanitarie sul distanziamento fisico, si riporta di seguito l’indicazione letterale tratta dal verbale della riunione del CTS tenutasi il giorno 22 giugno 2020:

« Il distanziamento fisico (inteso come 1 metro fra le  rime buccali degli alunni), rimane un punto di primaria importanza nelle azioni di prevenzione…»

Questo magnifico pezzo di prosa (con tanto di rima leopardiana in –ale) dimostra in modo inequivocabile che l’antilingua in Italia gode ottima salute. Era stato Calvino, nel febbraio 1965, a parlare dell’antilingua inesistente. «Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.» e riportava le parole di Pietro Citati:

Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per caso, ma la mia «funzione» è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso».

Bisogna forse ricordare che la questione della lingua della seconda metà del Novecento aveva avuto inizio da una conferenza di Pasolini, pubblicata da «Rinascita» nel dicembre del 1964, con il titolo Nuove questioni linguistiche. A commento prendeva la parola – tra gli altri – anche Calvino, che così proseguiva sul «Giorno»:

Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi.

Nel 2020 non si può fare a meno di registrare «bocca» tra le «parole oscene» che l’antilingua rifiuta: il che potrebbe avere i suoi effetti sul modo di esprimersi di solerti funzionari e di insegnanti osservanti (oltre che praticanti). Il campo semantico diventerà un campo minato: si oserà ancora affermare che si fanno verifiche orali? E gli Esami di Stato di quest’anno non potrebbero essere confusi in quanto esame orale con un’anamnesi ortognatodontica di un diciottenne? Sarà pudico parlare di lingua a minorenni affidati alle nostre cure? Il MI ci offrirà senz’altro delle indicazioni lessicali  adeguate, e sarebbe opportuno ci fornisse anche un piccolo dizionario, epurato da tutte le voci oscene, che noi insegnanti potremmo consultare alla bisogna (si licet). Meglio: nelle lunghe nostre oziose giornate potremmo imparare a memoria le voci ufficiali della lingua in uso nelle scuole secondo le nuove disposizioni del CTS approvate dal Ministero… etc  etc,  per comunicare correttamente con chi ci presta orecchio (con rispetto parlando).

Latinorum

Calvino pensava che l’antilingua fosse un vizio comunicativo, rispetto al quale l’esattezza della lingua tecnologica e scientifica avrebbe potuto costituire un salutare correttivo. Non scorgeva i pericoli della lingua altra, incomprensibile, o parzialmente comprensibile, di quella lingua specialistica, che dona a chi la usa la patente di esperto, e intanto distanzia e mummifica la realtà. L’antilingua in questi sessant’anni si è nutrita anche di terminologia scientifica e tecnologica per mantenere la sua caratteristica genetica di occultamento della realtà. La lingua del potere di cui parlava Manzoni, non certo un pericoloso marxista, è quella che attecchisce meglio sulla nostre ridenti contrade. Le «rime buccali degli alunni» sono una virtuosa via di mezzo (aurea mediocritas, scusate se insisto, ma un po’ di latino ci sta sempre bene) tra il cavo orofaringeo e la propaggine del naso (con rispetto parlando). Ma in realtà esse servono a smentire che il «distanziamento fisico» che inderogabilmente deve essere di almeno «1 metro» sia stato eluso. Nella terra di Gorgia sappiamo bene, senza bisogno di scomodare i 38 stratagemmi di Schopenhauer, che cos’è l’Arte di ottenere ragione. Comprendiamo che lo scopo della rima,  termine medico scientifico tecnico, è quello di introdursi nella città assediata: questa rima è il grimaldello per ridurre il metro di distanza che è dichiarato «punto di primaria importanza».  Perciò si mantiene 1 metro che però si accorcia: potenza della rima.

Si tratta di sinalefe? No di logistica: bisogna fare entrare banchi dove non ne possono entrare date le regole di distanziamento. E  per questo è stata coniata una bella espressione di antilingua fornita dall’inoppugnabile scienza dello spazio: le geometrie d’aula variabili che vanno ad accoppiarsi con le convergenze parallele, per dare alla luce i cruscotti informativi. Nel frattempo la realtà è scomparsa. È bastato un metro per essere sistemati per le rime. Le parole hanno distrutto le cose.

Chist’è ‘o paese d’‘o sole

L’antilingua è un sistema complesso con la sua grammatica, lessico, morfologia, sintassi, semantica. Costruendo un mondo che non esiste, l’antilingua spazia senza alcuna remora nelle verdi praterie dell’assurdo. Come qualsiasi artificio letterario, necessita della sospensione dell’incredulità da parte dell’ascoltatore. E su questo conta per auto reggersi e alimentarsi. Di solito, lo sappiamo, il massimo parlante e scrivente antilingua è un esperto o in termini più generali uno che può permettersi di dire quello che dice: un potente rispetto al quale chiniamo il capo (nel senso di testa; con rispetto parlando). Non è un caso che tra i tanti esperti della scuola non venga mai interpellato come tale un insegnante, il quale può fornire gustosi o patetici aneddoti, ma certo non ha il potere di affrontare le questioni dei Massimi Sistemi. Rispetto all’augusta triade del ventennio manca il Combattere, ma Credere e Obbedire rimangono i  capisaldi dell’insegnante travet: nella scala gerarchica un impiegato, non un professionista, un sottoposto al Dirigente, un dipendente (non tossico, si auspica) della Pubblica Amministrazione. Un anonimo nessuno.

Ma sentiamo, dunque, che cosa gli esperti propongono per risolvere il problema dello spazio, quando perfino le geometrie variabili non riescono a fare entrare banchi sufficienti in 50 metri quadri (sempre che la dimensione media delle aule sia veritiera ed escludendo perciò tutte le aule che sono sotto la media: e peggio per loro!). Del resto, a quanto pare, soltanto il 15% degli studenti dovrà essere sistemato. Poco. Soltanto un milione e duecentomila ragazzi sono fuori delle aule. Che buona notizia, temevo peggio. E questo esercito dovrebbe occupare? Cinema, teatri, palestre, beni requisiti  alla mafia… Ma dove?

La soluzione però più legata all’universo parallelo dell’antilingua è la lezione all’aperto. I cantori di questa innovativa attività didattica, esperti, pedagoghi, tecnici, scienziati, specialisti, rammemorano: 

«Portare le discipline fuori non è una cosa complicata, attorno ad un albero puoi fare storia, geografia, scienze, matematica e letteratura. La didattica di un albero può far dialogare tutte quante le discipline. Credo che il poter usufruire da settembre in poi di tutte le opportunità che il fuori metterà a disposizione avrà due benefici: la naturale messa in sicurezza e il ripensamento della scuola». Tutto a costo zero. Nessuno potrà più dire «mancano le risorse».

Monica Guerra dixit. Chi siamo noi per contraddirla? Del resto ho letto di esperti che sollecitavano a fare lezioni nei boschi, notoriamente raggiungibili al centro di Milano, come nelle rutilanti cittadine delle boschive città meridionali, tra un trullo e la scogliera. Ma certo ci sono altre attrattive. Certo il mare. ‘O sole… Il mandolino non manca perché la musica e il canto dovrebbero avere un ruolo fondamentale nella Nuova Scuola di Settembre. New September’s School, suona meglio: nasconde di più la realtà.

Si vorrebbe sapere da questi partigiani dell’apprendimento en plein air, che si fa quando piove? E quando fa tremendamente freddo? O terribilmente caldo? E come si arriva al locus amoenus? Saranno i genitori  ad inerpicarsi nei sentieri o sarà compito del professor Jones? (Indiana, ovviamente).

Certo, l’Italia è il paese del sole, tuttavia abbiamo una media di precipitazioni lievemente superiore al Sahara. Certo, non può piovere sempre… E già sento le accuse di disfattismo. E mi taccio.

Ma fare lezione davanti ad un albero è un’immagine indimenticabile: Pier della Vigna, la fotosintesi clorofilliana, L’albero della Vita, Il DNA, Hegel e la dialettica triadica, Fibonacci e la sezione aurea e il Partenone, e … e mentre l’insegnante uno, onnisciente e onnipresente, declina il suo sapere alla vista delle frondi, un malintenzionato importuno  molesta un minore a lui affidato, con sommo scandalo della comunità tutta: culpa in vigilando: dura lex, sed lex. Agli esperti, dei regolamenti e delle norme e dei vincoli e delle responsabilità di un insegnante cosa importa?

Del resto il problema della sicurezza, altra volta così impellente da suscitare collettivi deliri psicopatici, si annulla miracolosamente all’apparire di una scolaresca guidata dalla gioviale Maestra, con il suo cestino, mentre scende dai monti sui quali ha lasciato la sua capretta:

«Bambini, ragazzi, educatori, insegnanti occuperanno pacificamente i luoghi delle città e li bonificheranno».

Monica Guerra dixit. Un milione e duecentomila giovani che cantano O sole mio metteranno in fuga stuoli di malintenzionati, spargeranno fiori sulle strade, tingeranno il cielo di arcobaleni (forse meglio di no, l’arcobaleno puzza di politica), mentre scontrosi vecchi delusi della vita si arrovelleranno nella vana ricerca di negare che questo (d’’o sole) è il migliore dei mondi possibili.

Eppure di fronte all’antilingua trionfante di Moro, Pasolini diceva che «solo nella lingua si sono avuti dei sintomi» della corsa verso il vuoto del potere democristiano. Pasolini diceva «Come sempre solo nella lingua». Lo ricordava Sciascia alla ricerca della verità attraverso l’analisi di quella lingua costruita appositamente per non farsi capire, che nelle lettere doveva servire per farsi capire. Era il latino di Moro prigioniero.

L’antilingua non è neutra e non è innocua.

                                             (…) Gli oppressi

sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli

parlano nei telefoni (…)

Scrivi mi dico (…) La poesia

non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Le parole e le cose: l’osceno valore della realtà. La bocca è bocca (con rispetto parlando)

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