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Suarez e il linguaggio dei professori di Perugia

 

 I fatti sono noti, una inchiesta è aperta, TV e giornali ne parlano. L’università per stranieri di Perugia, d’accordo col Rettore della Università statale della stessa città, ha fatto un esame-farsa al giocatore Suarez per farlo diventare in pochi minuti cittadino italiano e permettere il suo acquisto da parte della Juventus. Pare che il giocatore fosse stato preavvisato delle domande e informato sulle risposte che doveva dare. E infatti il giorno stesso dell’esame (durato esattamente dodici minuti) Suarez ha ricevuto una certificazione per la quale solitamente occorrono 45 giorni.

Attraverso le registrazioni sono documentati gli interventi telefonici del Rettore della università statale, della Rettrice dell’Università per gli stranieri, degli avvocati della Juventus e del direttore della area tecnica Paratici, di un addetto al “Centro per la valutazione e la certificazione linguistica” dell’Università, e dei professori incaricati di far sostenere l’esame al giocatore. Non entro nel merito di quanto è accaduto e della sua rilevanza penale. Mi interessa un altro aspetto: il linguaggio. I dirigenti e gli avvocati della Juventus, i rettori delle due università, il direttore generale della Università degli stranieri (un grande burocrate, insomma), i professori incaricati dell’esame, parlano lo stesso linguaggio e hanno la stessa cultura e lo stesso sistema di valori. Per loro il suddetto Paratici «è più importante di Mattarella», è inconcepibile che un giocatore «che guadagna 10 milioni di euro a stagione» debba sottostare a un esame normale (quello che ogni anno affrontano altri stranieri, etiopi, cinesi, coreani, nigeriani…), essere invitati in tribuna vip allo stadio della Juventus è un privilegio per cui sarebbe impensabile non chiudere  occhi e  orecchie (per non sentire che il giocatore sa coniugare i verbi italiani solo all’infinito, come ammette un insegnante), aiutare un centravanti che «ci fa vincere la Champions» è cosa assolutamente fuori discussione. L’unica differenza linguistica percepibile è che i legali e i tecnici juventini non parlano ovviamente il romanesco becero dei professori perugini, personaggi del tutto degni (non solo per  lingua, ma per cultura e ideologia) dell’immortale tipo d’italiano rappresentato da Alberto Sordi. Gli investigatori cercano la prova della corruzione: ma i dirigenti della Juventus non hanno bisogno di corrompere o persuadere i rappresentanti della università perché questi sono già persuasi per proprio conto.

Due osservazioni: per allettare i dirigenti della Università per stranieri il Rettore della statale fa presente che promuovere Suarez «sarebbe stato un modo per fare pubblicità». Detto fatto: il giorno del cosiddetto esame giornalisti e telecamere sono convocati e si affollano intorno all’illustre esaminato (giunto, pare, con aereo personale) che alla fine sventola l’ottenuto certificato nel tripudio di docenti, discenti, burocrati universitari, tecnici juventini (che nel frattempo però hanno fiutato lo scandalo e rinunciato a comprare Suarez, ma ancora nessuno lo sa). A questo è ridotta la Università: a vendersi l’anima per attirare studenti e investimenti, e insomma per farsi un po’ di pubblicità.

 

La seconda osservazione riguarda gli insegnanti di Perugia, quelli più sbracati nel loro romanesco, un tempo tipico delle borgate e ora, come sapeva Pasolini, diventato il linguaggio di una universale piccola borghesia. La loro lingua un tempo era quella del popolo, del proletariato e del sottoproletariato. Oggi è segno della proletarizzazione del ceto intellettuale, una massa che talora può anche rivoltarsi ma che in genere, non avendo una cultura alternativa, finisce senza neppure accorgersene per essere subalterna ai gruppi dirigenti. L’egemonia culturale che questi esercitano compatta a suo modo il paese, diventando egemonia ideologica e politica. Da questo punto di vista lo sport industrializzato di oggi è un ottimo collante. E infatti questi insegnanti rivelano qui tutte le loro frustrazioni, ma queste non alimentano una presa di coscienza, e si traducono invece in sterili sogni di successo (oh, essere invitati nella tribuna vip!) e in facili miti (il giocatore che ci fa vincere la Champions e che guadagna 10 milioni all’anno!). Hanno rinunciato ai valori civili e umanistici che erano (e in parte fortunatamente sono ancora) propri del loro ceto e parlano ormai la lingua dei loro dominatori.

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