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Il dilemma, però, è politico. Considerazioni su The social dilemma

 

 Ho visto The social dilemma, il documentario drammatizzato (docudrama) di Netflix sugli effetti devastanti dei social network: incremento della dipendenza da schermo, percezione di sé e socializzazione degli adolescenti distorte, politica globale e dibattito pubblico impazziti (polarizzazione, bolle e camere d’eco, complottismo, notizie false, manipolazione delle scelte di voto).

Si tratta indubbiamente di un documentario da vedere, magari da far vedere in classe, in particolare se si è a digiuno su argomenti quali il rapporto tra gli studi psicologici sulla manipolazione e le grandi corporation dell’high tech, i big data e gli algoritmi che governano tutto ciò che “spontaneamente” i social media ci propongono, il «capitalismo della sorveglianza». Vengono intervistati infatti gli autori dei libri più importanti usciti di recente su questi temi: Shoshana Zuboff, Cathy O’ Neill, Jaron Lanier.

Ma l’aspetto di maggior interesse è la folta presenza di ex progettisti e manager (ad altissimo livello) di Facebook, Google, Pinterest, Instagram, … “pentiti”, che, come già altre gole profonde (Edward Snowden), raccontano il dilemma etico di aver contribuito a creare strumenti che credevano potessero connettere gli esseri umani e che si sono progressivamente rivelati al contrario una pericolosa forma di controllo e direzione dei comportamenti. Raccontano anche la scissione vissuta tra identità professionale e personale: durante il giorno contribuivano a perfezionare quegli strumenti da cui loro stessi, una volta tornati a casa, erano diventati dipendenti. Interessante anche il loro comportamento come genitori: i figli di chi ha lavorato alla progettazione dei social media hanno il divieto di usarli (da ricollegare alla notizia di qualche tempo fa sulle scuole delle Silicon valley che non adottano alcun tipo di tecnologia informatica).

Chi segua questo argomento da tempo, però, non si imbatterà in grandi rivelazioni, guardando The social dilemma: si tratta della buona divulgazione di tesi e studi noti. Si potrebbero, anzi, fare alcune osservazioni critiche, anche allo scopo di evitare, fra i neofiti, due reazioni opposte che, a mio parere, il documentario potrebbe produrre: “non esageriamo, non può essere davvero tutto così catastrofico!”; “il mondo sta per precipitare nel caos!”.

1) La narrazione risulta contraddittoria. Fosca e angosciosa per un’ora e tre quarti, vira sull’happy end a un quarto d’ora dalla fine. Si dirà che un po’ di speranza in conclusione non si nega a nessuno e che la struttura stessa della narrazione popolare lo impone. Vero. Ma il peso politico della tesi fin lì sostenuta – che i social media stiano picconando in brevissimo tempo la nostra stabilità psichica e le nostre democrazie – ne esce sminuito. Il potere delle corporation dell’high tech è reticolare, tentacolare, onnipervasivo, ma alla fine, ci si dice, se ci impegniamo possiamo sconfiggerlo. Come? Basterà cancellarsi da tutti i social media come suggerisce Lanier?

2) Nel documentario si insiste esclusivamente sui social media. Ma l’infrastruttura di tracciamento dei nostri comportamenti e la profilazione di ciascuno di noi tramite quantità enormi di dati estratti dalle tracce che lasciamo è ormai consustanziale al web. Chi volesse evitare di essere tracciato e manipolato dovrebbe prendere a martellate il proprio smartphone, incendiare il proprio pc, rifiutarsi di navigare su internet e tornare alle Pagine gialle. Google, Facebook, e mille altri soggetti interessati ai nostri dati seguono i nostri passi sia nella vita virtuale – in qualsiasi pagina visitiamo –, sia nella vita reale – tramite la geolocalizzazione, la registrazione e trascrizione dei nostri messaggi vocali, gli strumenti della domotica, gli aspirapolvere robot come Roomba, le smart tv, … Il semplice possesso di un pc che abbia installato Windows 10, come quello con il quale sto scrivendo, equivale a stare dentro un social media: l’assistente Cortana, la barra di ricerca che trovate in basso a sinistra nell’interfaccia, raccolgono dati. Se vi state dicendo, “basterà disattivarli, dichiarare l’indisponibilità a farsi tracciare”, risponderò: non si può (si veda Zuboff in proposito).

3) La parola “capitalismo” viene nominata solo una volta in tutto il documentario e alla fine si fa qualche accenno, ma politicamente vago, sul fatto che “questo sistema” non è accettabile. Si parla prevalentemente di politici, manager di grandi aziende, Zuckerberg, Larry Page… Si spiega che la tecnologia informatica, come il cyborg Terminator, ci sta sfuggendo di mano e, se pensavamo di poterla controllare per migliorare la nostra vita, ci ritroviamo in un mondo in cui è lei a controllare noi, e non per il nostro bene. È vero. Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale sono macchine per l’apprendimento in larga parte automatizzate e molte decisioni ormai vengono prese demandandole magicamente a loro. Tuttavia, ciò capita certamente perché la razionalità strumentale e la tecnica perseguono una propria necessaria logica, ma anche perché viviamo in un sistema economico ben preciso, in cui i nostri comportamenti e i dati da essi derivati sono diventati la nuova forma di surplus, da cui i capitalisti della sorveglianza hanno estratto un profitto mai visto nella storia dell’umanità. Questo profitto e il potere con cui lo generano viene tenuto ben stretto, e la politica o è connivente pur simulando blande proteste, perché quegli strumenti di cattura e direzione dei comportamenti gli fanno comodo (il primo politico a farsi aiutare da Google per una campagna elettorale mirata e manipolatoria è stato il democraticissimo Obama. Il Russia gate e Cambridge analytica sono la versione peggiorata e di destra di questo incunabolo), o è impotente, perché il potere degli Stati è ormai surclassato da quello del grande capitale. Se non si dice con chiarezza questo, ci si limita a invitare a una vaga e consolatoria presa di coscienza o buona volontà dei singoli. Non è il volontarismo, ma la politica, nel senso più classicamente novecentesco del termine, che farebbe la differenza.

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