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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere “I racconti del Pacifico” di Jack London

 «Solo perché siamo malati, vogliono toglierci la libertà. Abbiamo sempre rispettato la legge, non abbiamo mai fatto niente di male, eppure vogliono metterci in prigione. Molokai è una prigione. E questo lo sapete. Niuli, quello laggiù, ha una sorella a Molokai da sette anni. Non l’ha più vista e non la vedrà mai più perché lei resterà lì fino alla morte. E non per scelta sua né di Niuli. L’hanno deciso i bianchi che governano il paese. Ma chi sono questi bianchi? Lo sappiamo ce l’hanno raccontato i padri dei nostri padri. Si presentarono qui come agnelli, con paroline dolci, e cos’altro avrebbero dovuto fare, visto che noi eravamo forti e le isole erano nostre? Paroline dolci, ho detto. Due generi di dolcezza: quella con cui chiedevano il nostro permesso, il nostro benevolo permesso, di predicare il verbo di Dio, e l’altra, quella con cui chiedevano il nostro permesso, il nostro benevolo permesso di commerciare con noi. Questo agli inizi. Oggi tutte le isole appartengono a loro, tutto il bestiame tutto. Quelli che predicavano la parola di Dio e quelli che predicavano la parola del Rum si sono associati e sono diventati i grandi capi. Vivono come re in case con molte stanze e una moltitudine di servi che si prendono cura di loro. Quelli che non avevano niente hanno tutto e se voi, o io, o qualsiasi Kananka, moriamo di fame sorridono e dicono: ‘Bene, perché non lavorate? Ci sono le piantagioni’»

Koolau tacque. Sollevò una mano e con dita contorte e nodose si tolse la splendida corona di fiori di ibisco poggiata sui suoi neri capelli. La luna illuminava di luce argentea la scena. Era una notte tranquilla, di pace, anche se tutti quelli che gli stavano intorno e ascoltavano sembravano scampati a una battaglia. Avevano facce leonine. Qui, dove sarebbe dovuto esserci un naso, s’apriva una crepa e là, dove una mano era marcia e caduta, si levava un moncherino. Erano, tutti e trenta loro, uomini e donne al di là di ogni limite, perché gli era stato impresso il marchio della bestia. Inghirlandati di fiori, se ne stavano accoccolati là nella notte profumata e luminosa, e dalle loro labbra uscivano suoni sgradevoli e dalle gole approvazioni roche al discorso di Kolau. Un tempo quelle creature erano stati uomini e donne, ciò che non erano più, essendo ormai mostri, grottesche caricature, nel viso e nel corpo, di un essere umano. Storpie e orribilmente mutilate, avevano l’aspetto di chi ha patito per millenni l’inferno: le mani, quando le avevano, erano zampe artigliate: i volti erano straziati e storpiati da un dio pazzo che aveva armeggiato col macchinario della vita. E a questo e a quello lo stesso dio pazzo aveva addirittura cancellato i lineamenti. Una donna piangeva lacrime bollenti che scorrevano giù da due buche dell’orrore, là dove un tempo c’erano stati gli occhi. Alcuni soffrivano e dal petto uscivano gemiti di dolore; altri tossivano, e il suono era lacerante, come quello di un tessuto strappato. Due erano idioti, due scimmioni sfigurati, ma forse persino una scimmia sarebbe stata un angelo al confronto. Grugnivano e ghignavano, lì nella luce lunare, incoronati di fiori dorati e appassiti. Uno dei due, con un gonfio lobo d’orecchio che gli sbatteva sulla spalla, colse un magnifico fiore arancione e rosso scarlatto e se ne decorò il mostruoso orecchio, che sbatteva ad ogni movimento.

E su queste cose, su questi esseri, era re Koolau.

 Koolao il lebbroso, tratto da I racconti del Pacifico, Guanda editore.

Perché non è solo la storia di un viaggio, ma ci porta dentro le tempeste

Tra il 1907 e il 1908, Jack London si imbarcò alla volta delle isole della Malanesia e della Polinesia a bordo della sua goletta, la Snark, lo accompagnavano la sua seconda moglie Charmian e un equipaggio ridotto all’osso: nell’intenzione dello scrittore quella sarebbe dovuta essere la prima tappa di un giro intorno al mondo in barca a vela. Sul finire del 1908 lo colpì una misteriosa malattia che mise fine alle sue avventure per mare, che raccontò poi ne “ La crociera dello Snark”, il diario di bordo illustrato e “I racconti del Pacifico”, nove racconti che sviluppano il tema del conflitto e della lotta dell’uomo con la natura, con i suoi simili e con il destino.

London ha la grande dote di far provare al lettore quello che racconta, in modo diretto, senza preamboli e distacco: leggere i suoi testi è sempre fare un viaggio in solitudine, sia esso nel freddo dell’Alaska o nei caldi mari del Pacifico.  Il vero protagonista di queste storie è lo spazio, che atterrisce ed è sempre enorme, mitico e ai margini: la natura è il palcoscenico dove si muovono i suoi eroi, un mondo unico di oppressi e oppressori che lottano per sopravvivere.

Le isole del Pacifico sono qui descritte come un paradiso, ma in cauda venenum, la natura rigogliosa e dolce nasconde violenza e devastazione: una nera nuvolaglia aveva oscurato la faccia del sole e, di colpo, il giorno era diventato buio. Al di là della laguna Raol vide avvicinarsi la massa minacciosa di un groppo nero, scrive nel racconto La casa di Mapuhi, in cui la vendita di un’enorme perla è il pretesto per raccontare una tempesta sul Pacifico. Il racconto è un continuo alternarsi di tranquillità e ansia, in un ritmo sincopato che ci getta nella tragedia: e proprio in quel momento, mentre il capitano Lynch parlava, una grande massa d’acqua si abbatté sull’atollo. L’acqua gli spumeggiò sotto le sedie e tutt’intorno un bel tre pollici d’altezza. Il verbo spumeggiare sembrerebbe quasi aprirci all’idillio, i tre pollici d’altezza paiono una cosa da niente, ma, improvvisamente, London abbandona il senso della vista e ci fa udire la scena: da altre donne si levò un gemito di paura. Abbracciati a loro, i bambini fissavano i cavalloni immensi e piangevano da far pietà. Sconvolti cani e gatti e polli guazzarono nell’acqua per poi, di concerto, svolazzando e saltando e scattando, rifugiarsi sul tetto della casa del capitano. Un paumotano, con una cucciolata di cagnotti neonati nel canestro, s’arrampicò su una palma e assicurò il canestro lassù, a una ventina di piedi di sotto: la madre dei cuccioli intanto, agitatissima, saltellava nell’acqua di sotto, guaendo e uggiolando.

Questo turbinio di suoni indistinti sembra prepararci alla tragedia, ma ancora una volta l’autore rallenta il ritmo e stempera la tensione: E in tutto questo il sole continuava a brillare e la calma assoluta di vento durava.

Solo poche ore più tardi, quando il barometro segnerà “venti otto-venti” la tempesta si abbatterà e spazzerà via tutto quanto incontri sul suo cammino e il vento viene descritto come un essere concreto e vischioso:

il vento soffiava in maniere spaventose; proprio non aveva idea che esistessero venti così forti […] Il sole era ormai scomparso, c’era un crepuscolo plumbeo. All’improvviso, gocce di pioggia, che sembravano arrivare non dall’alto ma dal fianco, lo colpirono e l’impressione esatta fu che fosse stato investito da una scarica di pallini di piombo; poi sul viso gli si abbattè uno scroscio violento d’acqua salata: un vero e proprio schiaffo.[…] Poi guardò il cielo e rimase atterrito: sembrava si fosse abbassato. Gli pendeva in realtà dritto sul capo,e da plumbeo era diventato nero. […] Aveva l’impressione di poter allungare una mano, d’immergervela dentro e di tirarne via i pezzi, come puoi fare con la carne della carcassa di un manzo: l’impressione di potere afferrare quel vento, aggrapparsi a esso come ci si aggrappa a una roccia.

Le tempeste tropicali, descritte con la precisione del navigatore, sembrano entità plastiche e vive, divinità ctonie che si burlano degli uomini, esseri fragili e inutili: i tifoni sono mostri, che giungono in sordina, distruggono, devastano e, quando terminano, lasciano nel lettore inquietudine e paura.

Perché affronta il tema del colonialismo con tutte le contraddizioni ottocentesche

Il mondo aborigeno di London risente degli schemi coloniali di fine Ottocento ed è permeato di oscurità materiale e fisica, di paganesimo, di relazione con la malattia, di lotta con un ambiente ostile, di cannibalismo e di misteriosi riti dionisiaci. Gli indigeni che descrive non sono il buon selvaggio, docile e inerme, ma hanno personalità, desideri, usi e costumi diversi, sanno essere vendicativi, brutali, generosi e sinceri, perché il guaio dell’uomo è che non sa vivere da solo ma nemmeno in compagnia, siamo esseri affettuosi e feroci. L’uomo vive in perpetuo conflitto sociale: i bianchi sono una folla compatta di missionari, proprietari terrieri e dottori, gli indigeni, al contrario, non sono uniti, ma ci sono lotte antiche tra tribù diverse, tra capitribù e popolo, tra indigeni e cinesi.

Ah Cho non comprendeva il francese, con questa frase si apre Il Chinago, uno dei più bei racconti antirazzisti di London, che pure sullo stesso tema aveva posizioni ambigue: si espresse, infatti, contro la Cina, sposando la teoria del pericolo giallo nel suo racconto Guerra alla Cina, la pericolosa invasione.

Il narratore ci scaraventa subito in tribunale con Ah Cho, accusato dell’omicidio di un compagno: il processo è una farsa, giacché tutti e cinque i coolie della piantagione sapevano benissimo che Chung Ga era stato ucciso da Ah San, eppure i francesi si erano guardati dall’arrestarlo. Il protagonista è sicuro che non sarà condannato perché non potevano tagliare la testa a cinque uomini per due soli pugnalate, ma, dall’altra, teme la stupidità e l’inerzia dei francesi: in Cina qualsiasi giudice avrebbe ottenuto la verità ricorrendo alla tortura, qui invece fanno un processo con tanto di giudice.

Ah Cho nell’esaltare i metodi Cinesi, basati su tortura e disumanità, non fa che sottolineare, agli occhi del lettore del tempo, l’arretratezza di quel paese, rispetto al modello di giustizia europeo. Ma la storia cambia spesso piano di analisi e anche i bianchi, che si pongono come modelli di cultura e società, sono in realtà spietati e crudeli: i loro tribunali, le loro leggi e i loro giudici sono solo ulteriori strumenti di sopraffazione.

Al narratore è affidato il compito di spiegare il motivo reale del processo a cinque innocenti: i lavoratori cinesi sono animali da lavoro, rappresentano un bene per la compagnia inglese che li possiede, l’omicidio di un compagno è quindi una perdita economica che va punita. Questo è un racconto di scontri: tra lavoratori e caporali, tra società tra culture diverse, tra sistemi economici e giudiziari diversi.

Dopo tutte queste considerazioni generali ci viene finalmente spiegato chi è Ah Cho: è giovane, ha 22 anni e ha scelto di imbarcarsi per Thaiti per un salario più alto. London simpatizza con questo personaggio che si ammazza di fatica per un futuro migliore e ne rileva la straordinarietà: è una persona mite, senza alcun vizio, un uomo insomma a cui serviva poco, gli bastavano i saperi semplici. Esattamente all’opposto è costruito il personaggio di Schemmer, il caporale, un bruto, una belva che riusciva a ricavare fino all’ultimo sprizzo di energia dai suoi cinquecento schiavi; perché loro questo erano, e tali sarebbero rimasti fino alla fine dei cinque anni: schiavi.

Ah Cho è riflessivo, posato, mite e autorevole, tanto quanto Schemmer è mosso da una primitiva, dominante, implacabile brutalità: è un tedesco, il braccio armato del padrone, un giorno aveva persino ucciso con un pugno un chinago e tutto era stato insabbiato dal medico, nonostante non sia mai morto nessuno di colpo di sole a Tahiti. Impossibile non constatare quanti stereotipi siano presenti in questo racconto: il cinese che ha nelle vene la mitezza e pazienza dell’Asia, il tedesco brutale e dominatore e i francesi che hanno la smania di educare il resto del mondo ma commettono grossolani errori. Quello che è evidente è che nessuno potrà mai capire l’altro.

Ah Cho non capisce i padroni, che chiama i diavoli bianchi, e definisce impenetrabili, dominati dalla rabbia, imprevedibili, insaziabili di vino e di cibo, ma anche terribilmente efficienti tanto da riuscire a fare cose impensabili in pochissimo tempo. La sentenza emessa non lo stupisce, è esattamente quello che ci si aspetta dai bianchi: punire degli innocenti. Tutti e cinque gli imputati vengono riconosciuti colpevoli dell’assassinio di Chung Ga: Ah Chow avrebbe avuto la testa tagliata, Ah Cho a venti anni in una prigione della Nuova Caledonia, Wong Li ne avrebbe scontati dodici e Ah Tong dieci. (Nella fretta London dimentica di scrivere la pena e il nome del quinto colpevole.)

E a questo punto si mette di traverso il destino, altro grande personaggio dei romanzi di London: complice un bicchiere di troppo, il magistrato sbaglia a scrivere il nome del condannato a morte, dimenticando una W, e Ah Cho viene portato alla ghigliottina al posto di Ah Chow. A nulla serve dimostrare l’errore dichiarando di essere più basso di Ah Chow: Chruchot, il gendarme, si rese conto che sedeva l’uomo sbagliato, ma tutto sommato era un chinago alla fin fine. Persino Schemmer si accorge dell’errore, ma afferma facciamolo lo stesso finita, è un chinago. Per entrambi uccidere un cinese è un lavoro come un altro, un lavoro che va fatto, come piantare il cotone o incanalare l’acqua.

Mentre la ghigliottina scende, Ah Cho comprende la lama non avrebbe fatto nessun solletico, questo almeno riuscì a capirlo, prima di cessare di capire. Il racconto termina con la stessa parola con cui si era aperto: capire. Ah Chow non parlava il francese, non è riuscito a capire i diavoli bianchi, ma ha compreso che la lama non fa alcun solletico, che la morte non ha nulla di divertente.

Perché abbiamo bisogno di eroi (solitari)

Il protagonista de Il Chinago è un cinese, eroe e vittima pacifica, eppure basta spostarsi pochi racconti più in là per vedere la popolazione indigena rabbiosa proprio contro gli immigrati cinesi, accusati di aver diffuso la lebbra sulle isole. Tre sono i racconti che hanno come centro questa malattia biblica, già adombrata nel Chinago, quando il gendarme si rallegra con Ah Cho per la bella morte, del tutto opposta alla terribile morte per lebbra: Addio, Jack, lo sceriffo di Kona e Koolau il lebbroso. Questi racconti sono disposti in una sorta di climax: dalla fiducia cieca nei metodi di contenimento del morbo, alla verità sul lazzaretto dei malati per giungere alla strenua difesa della propria libertà di malato. Nel primo la lebbra resta sullo sfondo, il punto di vista è quello dei bianchi e il narratore è lo stesso London che vuole conoscere la colonia di Molokai, dove venivano rinchiusi tutti i malati delle isole. Lo accompagna il coraggioso Jack Kersdale, che esalta la scelta del confinamento: Stanno infinitamente meglio dei loro amici e parenti che non hanno alcun male. Sciocchezze, gli orrori di Molokai sono tutte sciocchezze e gli spiega il nuovo esame batteriologico per identificare la lebbra, prima della sua comparsa (la malattia ha una incubazione di sette anni). Un giorno Kersdale decide di accompagnare London a vedere lo strazio di chi si imbarca per l’isola di Molokai ma non dimenticare – gli dice – che per quanto grande sia il dolore ora, strilleranno molto di più se di qui a un anno la commissione cercherà di strapparli via da Molokai. A un certo punto Jack si ferma e nei suoi occhi compare il terrore: tra le persone pronte a partire c’è anche una bellissima donna, senza alcun segno visibile della malattia, la cantate polinesiana Lucy Makunui, sua ex amante.

Se gli errori giudiziari sono appannaggio di una classe sociale, la malattia è cinicamente democratica, così nel secondo racconto della trilogia è lo sceriffo di Kona a scoprire di essere affetto dalla lebbra, ad accettare in modo eroico il suo destino e a imbarcarsi sull’isola dalla quale scapperà con una fuga rocambolesca, non prima di averci svelato quale luogo di dolore, di deprivazione, quale inferno sia l’isola di Molokai.

L’ultimo eroe è Koolau, il re di una comunità di lebbrosi: la sua lotta è una difesa della dignità umana e del diritto alla libera scelta anche di fronte alla malattia. Per lui l’isola di Molokai non è solo il luogo del confinamento dei lebbrosi, ma anche un luogo di confino imposto dai colonizzatori per evitare le rivolte e mettere a tacere gli oppositori. I bianchi sono la causa della malattia perché noi ci rifiutavamo di coltivare le miglia e miglia di canna da zucchero là dove un tempo pascolavano i nostri cavalli, essi hanno portato gli schiavi cinesi da oltre oceano. E con quelli è arrivato il male cinese.

Koolua invita i compagni a non arrendersi e a morire da uomini liberi. La notte prima della battaglia ballano e cantano una sorta di danza macabra che annuncia l’epilogo finale: è l’ultimo momento di gioia e ha in sé già tutti il germe della morte. La comunità resiste tre giorni, nei quali l’esercito usa armi sempre più potenti fino a giungere a bombardare la foresta, poi Koolau nel ritirarsi con un balzo, nell’attimo stesso in cui tutto questo accadde, vide una forra che pullulava di soldati. I suoi lo avevano tradito. Ma il re dei lebbrosi, strenuo protettore della sua libertà, resiste alla caccia per sei settimane, costringendo i soldati a tornare a Honolulu, senza averlo catturato. Vive nella foresta altri due anni, per poi morire da uomo libero, premendo contro il petto il Mauser con le mani rattrappite e senza dita, padrone delle sue scelte.

Perché si può leggere anche in classe, ad alta voce

Questo libro ha la forza di un racconto epico ed è una lettura che affascina, trascina e colpisce i ragazzi, anche per la sua ruvidezza. Le parole arrivano dirette e potenti, commuovono e inquietano: la dimensione del racconto permette agevolmente la lettura in classe, ad alta voce.

Sono storie di mare, di mostri e di sale che permettono di affrontare tanti temi, e che riescono a portare il lettore lì in mezzo ai venti per fargli provare quello che London ha scelto quasi come epitaffio “ Un uomo che ha frequentato la scuola del mare non la lascia più. Il sale si impregna nel midollo osseo nell’aria che respira e sentirà il richiamo del mare fino alla fine dei suoi giorni”.

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