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diretto da Romano Luperini

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Per una rilettura di Giovani di Federigo Tozzi

 Il loro tempo passato s’era staccato tutto da loro; ed elle s’erano avvizzite come se non avessero più potuto riceverne le linfe. (…) Ma ora gli anni erano sempre eguali; e tanto l’una che l’altra vivevano soltanto di quel che avveniva durante una giornata (Le pigionali, p.213).

Benedetto aveva finito tutte le elementari; e, non avendo bisogno di lavorare, passava le giornate addirittura senza far niente (…). Egli era vantato per il più elegante del paese (…). Leggeva Petrarca e faceva qualche sonetto: altri libri, del resto, non gli erano né meno capitati (I pittori, pp.231-232).

Ella (…) ingrassava sempre di più, con un nido di nèi in una guancia: certi nèi cicciolosi e rossi come ciliegie mature. E di sposi non gliene capitò più. Quando s’accorse che ormai gli anni erano passati, ella conobbe in quale inganno era stata tenuta: fu una rivelazione così brutale che si ammalò e perse per sempre la salute (Una figliola, p.293).

Orazio Civillini aveva fatto tardi in città, preso dal bisogno d’incontrare qualche amico a cui avesse potuto raccontare la vita che ora faceva tutti i giorni, da tre anni, alla sua fattoria. Passava tra la folla un poco pensoso, distratto; lasciandosi spingere da un senso di sogno indefinibile, che gli piaceva tanto (L’ombra della giovinezza, p.360).

Una scrittura fortemente pianificata

Con la raccolta di novelle Giovani si è inaugurata nel novembre del 2018 l’edizione nazionale dell’opera omnia di Federigo Tozzi per la Biblioteca Italiana Testi&Studi delle Edizioni di Storia e Letteratura. Il lavoro è curato da Paola Salatto, che firma anche la scrupolosa introduzione, preceduto dalla presentazione di Riccardo Castellana (direttore del Comitato scientifico) e dalla prefazione di Romano Luperini (presidente del Comitato).

Giovani è l’unica raccolta di novelle di Federigo Tozzi preordinata dallo scrittore. Tozzi inviò effettivamente a Treves fra l’ottobre e il dicembre del 1919 ventuno novelle accompagnate da un elenco con ventiquattro titoli: erano tutte novelle già pubblicate su riviste entro il settembre dello stesso 1919, ma, colto da polmonite, Tozzi morì senza revisionarne le bozze e senza vederne la pubblicazione, avvenuta postuma nel 1920.

Fatto salvo l’apprezzamento immediato prima di Borgese e poi di Pirandello, Tozzi da principio fu fatto oggetto di un interesse unicamente indirizzato verso «certe non necessarie caratteristiche, più esteriori che interiori dei suoi personaggi relative ad usi e costumi e di contenuto aneddotico»: che era quanto Tozzi lucidamente contestava nella valutazione comune di Deledda (F. Tozzi, Per l’arte di Grazia Deledda). È la lettura freudiana di De Benedetti e poi quella di Baldacci a sottrarre Tozzi alla dimensione del bozzetto provinciale, immettendolo in un orizzonte decisamente più ampio, sul quale si muovono lo stesso Luperini, Castellana, Tortora e altri ancora, ridisegnando i significati di una narrazione che, per dimensioni, struttura, sintassi, situazioni, personaggi, sfugge alle convenzioni del genere e al controllo della critica benpensante.

Adesso però l’edizione critica questo ci impone di ridefinire in primo luogo: che tanto la «magmaticità alluvionale» (Baldacci) della raccolta di Tozzi, quanto la sua cifra sfuggente e anticonvenzionale, non sono da ritenersi espressione di irresolutezza o volubilità. Dalla ricostruzione di Salatto emerge in modo inequivocabile una scrittura fortemente pianificata, strutturata, controllata. Il corpus di Giovani si rivela organismo meditato in ogni sua parte, perfino in quelle escluse, ed è lì, allora, in quella compattezza degli esiti, ma anche degli intenti che ogni studioso potrà cercare il senso della narrativa tozziana, sulla direttrice che porta dal «mondo oggettivo di una situazione sociale e geografica precisa al mondo soggettivo dell’anima» (Luperini).

Ma riconoscere e descrivere l’istanza progettuale sottrae probabilmente l’opera all’etichetta stessa di “raccolta”: l’edizione critica di Giovani ci restituisce piuttosto il corpo di un’opera organica, dotata di importanti rimandi interni. Come già in Bestie (l’antecedente più prossimo di Giovani), anche qui niente sembra tenere insieme le novelle: non trama né cornice, non voce narrante né ambientazione; perfino il titolo – annunciato come tema unificante – va indagato e risemantizzato per poter essere usato come fil rouge.

Tozzi interviene sui testi anche con modifiche linguistiche o grafiche. L’edizione critica pertanto affronta energicamente la questione della lingua, non solo per quei profili che riguardano la “normativizzazione” grafica, ma anche per quanto più strettamente concerne la scelta del lessico. Alla luce di questi risultati, lo studioso si trova a dover indagare proprio la zona d’ombra delle tormentate incertezze là dove, svincolate da preoccupazioni editoriali, le scelte linguistiche di Tozzi sembrano invece coraggiosamente affrontare «il limite incombente di una competenza comunicativa geograficamente limitata» (Baldacci), trasformando il limite stesso in una risorsa, in uno strumento di infrazione, che serva a registrare appunto ciò che è “stridente”, contraddittorio, irrisolto e irresolubile.

Tutte le combinazioni per rendere interessante un tema

Nonostante la presenza frequente di giovani protagonisti all’interno delle novelle, il titolo non allude unicamente a una situazione anagrafica, ma indica piuttosto una condizione esistenziale di irresolutezza, di sospensione, di volubilità di umori e di intenti, cifra eloquente e vistosa di un mondo «in cui si evita la responsabilità», in cui «si cerca scampo nella regressività» (Baldacci). È  – questa – acquisizione ormai consolidata dalla critica tozziana e confermata dall’interesse esplicito di Tozzi nei confronti della psicologia, e in particolare del profilo psicologico dell’adolescente: i Giovani di Tozzi, anche quando giovani non sono, sono comunque «estraniati dal giro attivo della vita a cui occorre di sapere le conseguenze degli atti propri e altrui»; in mancanza di questa consapevolezza, non rimane loro «che registrare con stupore sgomento e angoscia quegli atti indecifrabili» (De Benedetti). Lo studio filologico oggi sembrerebbe confermare che Tozzi, dando corpo alla sua prima raccolta, perseguisse con determinazione la rappresentazione di questa condizione in cui i tratti del «mito positivo» (Castellana) della giovinezza degenerano nei sintomi e poi nelle manifestazioni inequivocabili di «una malattia caratterizzata dallo sperpero del tempo, dalla dispersione delle sensazioni, dall’impossibilità di conservare le esperienze e di tesaurizzarle in vista di una crescita e di uno sviluppo» (Luperini), cicatrici così vistose da fungere da segni di riconoscimento: è osservandoli che Tozzi seleziona con sicurezza, nella sua vasta produzione, le novelle capaci di descrivere il decorso di questa «malattia senza guarigione, malinconia spaventosa, presagio di morte» (Luperini)  e lavora a precisarne le tinte, le dimensioni, i contorni perché possano sostenere l’architettura, necessariamente solida e precaria, del progetto contraddittorio di rappresentazione della «frana immobile» del tempo (Luperini).

È sicurezza invero assai sorprendente, sia perché le novelle non erano nate in un parto né dentro un recinto comune e stupisce vederle indocili ma ubbidienti rientrare nel solco tracciato ex post dal narratore, sia perché la malattia di cui sono portatrici non è l’infreddatura di una giornata ventosa, ma è morbo contratto in un’aria malsana, è latenza, è degenza senza dimissioni. Difficile credere dunque che quel progetto Tozzi avesse cominciato a definirlo solo quando con chiarezza si precisarono gli accordi contrattuali con Treves. L’impressione – piuttosto –  è che la riflessione esistenziale condotta da Tozzi in quegli anni fosse attraversata da una sorta di sottotraccia che nel progetto editoriale trova finalmente e fermamente spessore, modalità e spazi di svolgimento. Questa sottotraccia ci sembra possa essere rinvenuta nei Saggi, là dove il narratore dichiaratamente riflette sulle narrazioni altrui; essa darebbe ragione anche della scelta di sviluppare il tema a lui caro non genericamente nelle novelle, ma in quella raccolta di novelle, e di quella raccolta spiegherebbe la fisionomia e l’assetto particolarissimo. Vediamo dunque di entrare dentro Giovani facendoci strada con i Saggi.

Così, nel 1913, Tozzi si esprimeva a proposito della raccolta I volti dell’amore di Amalia Guglielminetti, esibendo tuttavia di voler fare non una recensione, ma lo «studio di alcune realtà psicologiche» (F. Tozzi, I due):

Mi pare che in queste pagine (…) ci siano un ricco ingegno e un’abbondante immaginazione, che si son persi ad ammucchiare una materia erotica che confonde tutti i personaggi, troppo schizzati, in una medesima espressione. I personaggi qui non sono personaggi, ma pretesti a mettere insieme, con quanta più logica fosse possibile, tutte le combinazioni che si possono dare quando deliberatamente si vuol discutere e rendere interessante un tema. Non novelle dunque, ma quadretti, ciascuno dei quali ha una sua ricetta particolare. Questo volume si rende, per conseguenza, noioso come un trattato di cucina che si dovesse leggere tutto di seguito senza aver tempo mai… di assaggiare le vivande da vero.

Questa pagina rivela alcune indicazioni importanti, perché costituisce per Tozzi una sorta di vademecum degli errori da evitare nella costruzione di una raccolta di novelle. Per prima cosa ne definisce l’entità: quando diventa ammucchiata, una raccolta di novelle è un’occasione perduta, un inutile dispendio di ingegno e immaginazione; di contro, si delinea con chiarezza la fisionomia che Tozzi imprimerà alla sua opera, contrassegnata – come abbiamo visto – da una robusta progettualità, a scongiurare il rischio di quadretti isolati, stuzzichini per palati disinteressati ad assaggiare le vivande da vero, attratti piuttosto da una logica combinatoria alquanto fatua: essa confonde i termini invece di ricondurli dal complesso al semplice e la raccolta di Guglielminetti si risolve quindi in un’estenuante serie di “variazioni sul tema”. Tozzi sembra quasi assumerla come modello negativo e, nel concepire la sua raccolta, si comporta in maniera perfettamente opposta: non una serie, ma un prisma, capace di mostrare tutte le manifestazioni della malattia. Così, se i Volti di Guglielminetti sono ridotti a pretesti per rendere interessante un tema, i Giovani di Tozzi mostrano senza pudore i segni vistosi o segreti del male che li corrode sino a paralizzarli e la novella – ogni novella della raccolta – è radiografia rivelatrice e mai travestimento pretestuoso.

Bernoccoli barocchi e appiccicosità linfatiche

Sebbene in tutte le sue opere Tozzi affronti variamente la fenomenologia della malattia su cui indagano le novelle di Giovani, è nei Saggi che sembra darne la formulazione più chiara, non narrandola – dunque – ma riflettendo sulla narrativa d’altri; paradosso in verità solo apparente, se riconosciamo alla scrittura saggistica le finalità epistemologiche che le sono peculiari in quanto strumento di disamina oggettiva.

Non è tenero, Tozzi, nel trattare degli scrittori suoi contemporanei:

Anche certi aborti che si spacciano da sé e chissà perché, ormai da parecchi anni, per scrittori giovani, (…), si credevano innovatori perché impastavano la loro prosa e la loro lirichetta di bernoccoli barocchi e appiccicosità linfatiche. Ecco che questa falsa giovinezza d’Italia, destinata e sacra all’impotenza, che tentava di affermare questa impotenza facendola passare per una elegante malattia di moda, avvizzendo nei caffè e sui marciapiedi, disputando di una virgola, in mancanza di meglio, o s’era data a una professione meno ardua o era rinsavita. (F. Tozzi, Critica costruttiva).

Purtroppo per lo sventurato Tozzi «destato dal sogno» il risveglio è tremendo: la biblioteca meravigliosa, che, nel sogno, converte ad altra professione stentorei poetastri e prosatori o che addirittura li fa rinsavire salvandoli da impotenza e falsa giovinezza, appare «di una stranezza lontana ed estinta». E quegli aborti che si spacciano per giovani, avvizziti e oziosi, tutti bernoccoli e appiccicosità, tornano a piede libero. Nella raccolta del ’20 non sono pochi i personaggi che ce li ricordano assai da vicino: a volte, capo scoperto, hanno i bubboni ben in mostra, segnali vistosi della loro impotenza; altre volte li incontriamo mascherati dietro l’abbigliamento alla moda di una elegante malattia; ma sempre sono in mancanza di meglio da fare.

Non diciamo – con questo – che nei protagonisti di Giovani Tozzi proietti gli scrittori della sua generazione; sembrerebbe tuttavia che quegli scrittori siano significativamente individuati da Tozzi come portatori di quella stessa inquietudine, di quello stesso disagio, di quelle stesse contraddizioni che fanno la malattia dei suoi personaggi. Quegli scrittori non sono untori, quanto piuttosto vittime diversamente consapevoli di un malessere che Tozzi riconosce non come vezzo d’artista, ma come male universale. Si legga la pagina che il narratore dedica a Luigi Pirandello:

Egli ha, piuttosto, da dare libertà alla propria veemenza spirituale; e mentre qualche volta è in piena servitù di quel che gli è più antipatico, e ogni suo tentativo è vano, altre volte riesce a scostarsene, come uno che liberasse il braccio da una morsa, e allora si sente tutto il compiacimento che ne prova e la voglia che tutti lo risappiano. Egli è inceppato in caratteristiche morali, ch’egli stesso vorrebbe abolire; ed è allora che la sua prosa sembra scottare e minacciare. È un muoversi continuamente tra quest’ombra e questa penombra, uno spostarsi originato dal desiderio stesso di andare dritto; perché Pirandello deve invece appagare ora l’uno ora l’altro dei due temperamenti che sono in lui. Ma quasi mai egli può avere la gioia di sentirsi libero. C’è in lui uno strazio continuo di questa ebbrezza non mai dimenticata; e l’ebbrezza è amara. Egli pensa le cose più adatte ad esprimere questa convulsione tenace e sempre giovanile [corsivo mio]. (F. Tozzi, Luigi Pirandello).

Non sono pochi i personaggi che, nella raccolta, sembrano dare corpo a un’inquietudine che Tozzi leggeva come pirandelliana, ma che probabilmente andava facendo sua e diagnosticava al genere umano. Non sono pochi, ma non sono tutti: quella ebbrezza contraddittoria e straziante che è espressione di veemenza spirituale, talvolta si risolve in uno spiritualismo velleitario che per Tozzi è la cifra caratterizzante di Guido Gozzano:

(…) lo sbiadito e piccolo poeta che (…) si è imposto all’ambiguità sentimentale delle signorine e alla impotenza intellettuale che è di moda. (…) è appunto piaciuto quel suo vano ascoltare interiore di cose che gli sfuggono, senza che egli riesca a prendersele e farle divenire poesia. È piaciuto a coloro che hanno sentito e sentono dentro di sé quell’illusione di arte che li consola della loro inferiorità dinanzi ai capolavori e alla vera poesia. (…) È piaciuto a tutta questa gente che non riesce a tenersi congiunta con una spiritualità più elevata. (…) È una caricatura, una satira? No: perché il Gozzano è sentimentale e si compiace d’essere artefatto. La caricatura atroce e sguaiata è lui stesso, la serietà infantile con la quale si tratta. (…) Il Gozzano è così piccolo che scrivendo di lui mi ricordo benissimo dell’impressione che io ebbi una volta leggendo per caso e per curiosità tutti i componimenti di una classe liceale; e, se basta saper fare l’intelligente al liceo, il Gozzano è il più bravo scolare d’Italia. (F. Tozzi, I due).

La malattia che non lascia il tempo di guarire è dunque come un virus con due ceppi: uno, che chiameremo “pirandelliano”, è lacerante, contraddittorio, smanioso desiderio di andare dritto mentre è in piena servitù; l’altro, che chiameremo “gozzaniano”, è inerte «mistificazione di una insensibilità». Entrambi sono la manifestazione uguale e diversa di uno spossessamento: la rassegnata rinuncia al possesso delle cose significa rinuncia «all’esperienza vitale che darebbe loro senso» (Luperini) da parte di un’intera generazione. È questo il virus che Tozzi sente e vede dilagare dentro di sé e intorno a sé. 

La realtà di Giovani: piena, polposa, bastevolissima

Il rifiuto della serialità, della “variazione sul tema” come elemento aggregante delle novelle, impone dunque a Tozzi di ripensare lo strumento di selezione e di orchestrazione delle novelle intorno al tema; di più: gli impone il ripensamento del tema medesimo. Come abbiamo visto, il tema per Tozzi non è pretesto, ma implica al contrario precise responsabilità in quanto indicatore forte della postura dello scrittore di fronte alle urgenze della realtà in cui vive; e la realtà non necessita – per essere compresa – di «alterazioni che irritano» (o delle già menzionate combinazioni per renderla interessante) giacché essa è «piena e polposa, bastevolissima». Lo chiarisce assai bene Tozzi, ancora una volta scrivendo delle opere di altri, questa volta di Gabriele D’Annunzio:

(…) le loro parti veramente stupende sono guaste da aggiunte, quasi esplicative: prima c’è l’immagine della realtà, piena e polposa, bastevolissima; poi, immediatamente, questa immagine viene sbiadita e sfilacciata in alterazioni che irritano.

A motivare dunque la scelta del tema è la fermezza con cui, al contrario di D’Annunzio, Tozzi decide di «darsi schiettamente» all’osservazione della realtà, di cui avverte «con troppa tristezza» il ridimensionamento in quella «mediocrità inutile e informe» che è l’essenza della malattia della giovinezza.

Da questo deriva la fisionomia prismatica della raccolta, mai tabula rasa sulla quale distesamente dispiegare il tema, ma costruzione spigolosa che raccoglie la luce in modo diseguale e con intensità sempre diversa la proietta a illuminare la polpa ora acerba, ora marcia della realtà dei suoi Giovani.

Giovani spossessati

Siano o non siano anagraficamente giovani, tutti i protagonisti delle novelle della raccolta sono – come s’è visto – vittime di uno spossessamento che rappresenta – per tutti – impedimento a vivere pienamente, compiutamente, sensatamente. In questo i personaggi di Giovani si somigliano drammaticamente fra loro, questo costituisce il tramite segreto e fortissimo che li tiene disperatamente insieme.

Tuttavia non tutti sono spossessati allo stesso modo, non tutti degli stessi averi. Gli spossessati sono prima di tutto coloro i quali sono privati della stessa giovinezza o di quello che comunemente si ritiene il portato sempreverde dell’età giovanile: fiducia nel futuro, curiosità verso il mondo, intraprendenza. Non si tratta unicamente di persone mature o addirittura anziane, cui le contingenze o il cinismo della vita hanno sottratto i desideri e gli entusiasmi giovanili; nel novero sono ampiamente rappresentati anche giovani e giovanissimi impediti nei loro sogni o nelle loro aspirazioni da adulti prepotenti e soverchiatori o da malattie che li stroncano precocemente, alcune riconoscibili, come la tisi, altre più simili alla resa di un germoglio al gelo.

Del resto non sono meno dolorose né meno predatrici della giovinezza le violenze psicologiche subite quasi sempre supinamente, se non silenziosamente, da parecchi personaggi e che producono spesso nei personaggi una sorta di anaffettività, come se temessero di vedere nell’altro se stessi, e per questo lo rifiutassero. L’anaffettività si trasferisce anche sulla natura, in cui raramente i personaggi di Giovani si rifugiano per cercare conforto o si proiettano per trovare energie.

Ma è lo spossessamento economico la cifra più leggibile di quel processo di alienazione dalla vita attiva che qui, come in tutta la sua opera, Tozzi ha voluto rappresentare: comunemente, infatti, la proprietà è intesa come godimento-sfruttamento esclusivo di oggetti e la privazione di essi si traduce facilmente – nel linguaggio simbolico della letteratura – nella estromissione dalla pratica reale della vita nella società; società della quale quegli oggetti sono espressione, strumenti di accesso, materiale di scambio e molto altro ancora. Tuttavia nella raccolta tozziana questa deprivazione si carica di sensi ulteriori. Innanzi tutto i beni posseduti e perduti (o posseduti e minacciati) non sono beni qualsiasi, ma sono sempre legati ad affetti familiari o comunque indicatori di relazioni fra gli esseri umani emotivamente intense e socialmente significative; in secondo luogo la persona (il personaggio) sente di qualificarsi in relazione al possesso o meno di quei beni, sicché la perdita del bene (o la minacciata/paventata perdita di esso) costituisce una minaccia all’identità personale, mette a repentaglio la stessa percezione, consapevolezza e stima di sé.

La lingua dei Giovani

Già Luperini, anche sulla scorta di un’indicazione di Tellini, ha individuato nella «sintassi del racconto sempre sincopata, ellittica, fortemente paratattica» la rappresentazione di un «andirivieni sussultorio e contraddittorio di una coscienza disturbata, piuttosto che i parametri di una narrazione oggettiva». Confortata dai risultati dell’indagine filologica, si impone tuttavia qualche notazione sulle scelte linguistiche operate da Tozzi, o – per dir meglio – sulla direzione, sulla motivazione di quelle scelte. Tozzi lavora con insistenza alla lingua di Giovani, veicolo espressivo tormentato e inquieto, che funziona, in perfetta e incessante contraddizione, ora come amplificatore, ora come sordina delle emozioni violente e irrisolte che sono il motore della narrazione. Compagno, sodale di una generazione di giovani spossessati, lo scrittore cerca di riaffermare proprio attraverso la lingua la padronanza, se non delle cose, della «intelligenza» e della «sensibilità» di esse, della possibilità stessa – cioè – di sentirle, comprenderle, dirle. Lui stesso lo spiega; ed è forse l’esternazione più autenticamente “autobiografica” fra quante gliene sono state attribuite, giacché, per questo figlio di un trattore-fattore, la lingua dovette essere, se non corazza difensiva, sicuramente l’armamentario di una sfida, quella al limite incombente di una competenza comunicativa geograficamente limitata:

(…) gli uomini che hanno avuto qualche cosa da dire, hanno scritto bene; appunto perché scrivere bene significa essere padrone della propria intelligenza e della propria sensibilità. Chi non conosce abbastanza la lingua italiana, dovrebbe scrivere nel suo dialetto; o, per lo meno, articolare la sua sintassi non ad orecchio ma secondo le regole naturali del suo dialetto. Ma io non sono un beghino; e so che qualunque parola può essere adoprata se lo scrittore riesce a mettere dentro ad essa un significato. Allora, quella parola diventa, necessariamente, bella e buona. Basta che sia di casa nostra, e non importa se figlia d’ignoti. (F.Tozzi, Come leggo io).

Diffidente verso le lusinghe del periodare di ampio respiro degli esempi “alti” della narrativa italiana, da Manzoni a D’Annunzio, Tozzi tuttavia orgogliosamente rifiuta di ripiegare tout court sul dialetto, mutuandone semmai le regole naturali della sintassi, sull’esempio degli amatissimi modelli toscani duecenteschi, fino a riprodurre il movimento di progressivo avvicinamento del soggetto alle cose e il suo successivo allontanarsene, spossessato:

Ho pensato esista un mondo che Dio non ha finito di creare. La materia non è morta e non è viva. Vi sono vegetazioni quasi tutte uguali tra sé; e sbozzature di bestie informi, che non possono muoversi dal loro fango perché non ne hanno né gambe né occhi. Le piante di questo mondo non sarebbero riconoscibili al colore; perché non ne hanno. Soltanto quando c’è un tentativo di primavera, si potrebbe sentire il loro odore che ha però qualche cosa del fango. Vi è anche un abbozzo di Adamo; ma senz’anima. Non può parlare né vedere, ma sente che attorno a lui il fango si muove; e ha paura. Non c’è sole né luna; ed è un mondo che resta nella parte più solitaria dell’infinito; dove le stelle non vanno mai: dove soltanto qualche cometa va a spegnersi; quasi in gastigo. Questa mezza vita è più antica della nostra.  (…) Pensavo queste cose un pomeriggio domenicale, mentre ero appoggiato all’argine del Tevere, nel punto più sudicio e più deserto (Il crocifisso, pp.251-252).


 L’intervento è una riduzione dell’articolo apparso, con il medesimo titolo, su Moderna, XXI, 1-2, 2019, al quale si rimanda per l’approfondimento delle questioni affrontate.

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