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diretto da Romano Luperini

mostra espressionismo tedesco

Perché (ri)leggere Bestie di Federigo Tozzi

 Forza di Bestie

C’è – nelle sessantanove prose che compongono la raccolta Bestie di Tozzi – qualcosa di artefatto; come una forzatura: nella estensione, compressa sino all’aforisma; nella sintassi, spesso costretta in interrogative retoriche o risolta in esclamazioni o privata del verbo; nella lingua, che quasi per ogni vocabolo sembra mantenere una sorta di doppio accesso, ora simbolico ora materiale sino alla brutalità;  nella stessa apparizione delle bestie, che si ripete spiazzante nel finale di ogni prosa, prevedibilmente disattendendo le aspettative della logica sequenziale (il lettore s’aspetta cioè di essere spiazzato). Eppure, una volta che s’inizia a leggerle, è impossibile lasciarle e quasi impossibile non leggerle tutte d’un fiato; ed è strano, giacché niente – niente di canonicamente strutturato – le tiene insieme: non la trama o una cornice, non la voce narrante, non l’ambientazione; e nemmeno quello che, annunciato dal titolo come un tema unificante, si risolve in effetti in una rassegna di irrelate epifanie. Si direbbe però che quelli che abbiamo indicato come limiti ne siano al contempo i punti di forza.

Brevità

Scriveva Tozzi nell’articolo intitolato “Le nostre ombre”:

La prosa dugentesca, quella migliore, sembra che abbia una brevità naturale e intima. (…) E’ fatta di costrutti che non si possono più toccare, quasi umili e timidi; ma netti e melodiosi come arie popolari. (…) E non è affatto vero che le sue giunture siano quasi insufficienti a renderla pieghevole e pastosa.

Il modello è esplicito, ma non è l’adeguamento solo formale ad esso a fare la qualità di queste prose e non serve, a misurarne il valore, l’equazione che fa della brevità l’equivalente della schiettezza; peraltro Tozzi non è narratore prolisso nemmeno da romanziere. Più che a ricercare una presunta autenticità delle cose, si direbbe che la brevità sia indirizzata al recupero di quella dimensione naturale e intima in cui le cose vengono percepite dal soggetto. L’autenticità dell’esistenza – insomma – non è da ricercarsi in rebus, ma nella modalità della percezione delle cose stesse. E’ questa modalità ad essere il vero motore delle piccole narrazioni, e a garantirne flessibilità, a renderle pieghevoli, nonostante la riduzione degli spazi sintattici. Questo vale anche là dove il ridimensionamento (talvolta sino all’aforisma) appaia come ostentazione:

So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta.

Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell’Orsa, che me l’hanno buttata là chi sa perché.

Il vento, che batte su la faccia, viene di là.

E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me; e spinge in qua l’uscio, sì che duro fatica a richiuderlo.

Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?

Ma trova conferme anche (probabilmente soprattutto) là dove Tozzi si concede una estensione narrativa appena più ampia: lo spazio più esteso difficilmente significa per lui (nonostante i giovanili entusiasmi dannunziani) lo scivolamento nell’effusione sentimentale; esso si spezza piuttosto in una serie di membretti timidi, o forse, meglio, schivi, con i quali il narratore sembra riprodurre il movimento di progressivo avvicinamento del soggetto alle cose e il suo successivo allontanarsene, non necessariamente ferito, ma sempre incapace di impadronirsene. Quello spazio appena allargato è terreno di conquista non delle cose, ma della percezione meglio dispiegata di esse.

La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n’è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l’erba è voluta crescere. Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l’ascia, con un’ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C’è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino rococò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margheritine bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell’occhio; e gli stessi prati si sono lasciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini metton fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare; e, forse, di non odorare né meno quanto una violetta. E c’è modo, del resto, per tutti di far qualcosa.

Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?

Da tutti e tre i testi (riportati a titolo di esempio fra i molti esempi possibili) si evince con chiarezza la tessitura speciale della brevitas tozziana, che non è lavoro d’incisore, né di pittore impressionista, ma reticolo che s’irradia robusto da quel centro propulsore instancabile che è il soggetto sensiente; reticolo niente affatto labile o tenue, ma dotato di “un senso di sicurezza precisa e limpidissima”, come la prosa duecentesca alla quale s’ispira.

Spossessamento

E’ tuttavia, come si diceva, sicurezza che deriva dall’osservazione e dalla descrizione minuziosa della percezione delle cose e non dal possesso delle cose: mai sapremo chi sia “uno che m’odia” e il perché di quell’odio; anche le stagioni (qui la primavera) sfuggono al controllo convenzionale del tempo, perfino alle loro connotazioni comuni; e nemmeno la propria casa è possedimento solido e rassicurante. Mai – insomma – l’indagine sugli oggetti, sul paesaggio, sulle relazioni umane si traduce nella illuministica analisi dei dati, ma nemmeno produce i risultati metafisici e un poco morbosi di un romantico streben, né quelli ora ottimisti ora cinici dell’osservazione positivistica. E l’apparizione enigmatica o disturbante delle bestie, nel finale, è costante sottolineatura dello “spossessamento”.

Il termine giuridico ci viene incontro a definire una situazione che non implica la perdita della proprietà dei beni, ma il fallimento nella amministrazione e nella disponibilità di essi: allo stesso modo Tozzi disegna la condizione esistenziale sofferta di chi vorrebbe ancora poter riconoscere come “beni di proprietà” certe relazioni privilegiate con la natura, con gli uomini, con le cose, ma sente di aver irrimediabilmente perduto il controllo su di esse, anzi di aver perduto tout court l’illusione (illuministica? Romantica? Positivistica?) che in quelle relazioni un senso ci sia e vada cercato. Vediamo ancora un esempio:

Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me.

Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi.

Queste pareti riconoscono la mia voce; e la loro fedeltà è profonda.

Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch’io terra da sémina.

E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate.

Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti, mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle.

Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette.

Qui (come altrove), se è vistoso il tentativo da parte del soggetto di affermare il proprio controllo, persino il proprio dominio sulle cose, eclatante ne risulta il fallimento sino alla rinuncia. La fedeltà che passa per il riconoscimento della voce è quella di un cane al suo padrone ed è sufficiente un “ma” avversativo a metterla in crisi e a trasformare il soggetto da padrone a sottomessa “terra da sémina” fino al desiderio espresso nel sottofinale: “cambierei di posto volentieri con le stelle”; in altre parole: “se potessi, starei a guardare dall’alto e basta”. Ma, ci suggerisce Luperini, rinunciare al possesso delle cose significa “dover rinunciare all’esperienza vitale che darebbe loro senso”[1] ed è la contemplazione desolata dello spossessamento a produrre nel lettore quella lettura come d’un fiato, quell’inarrestabile movimento in avanti nel tentativo di riacciuffare ciò che inesorabilmente sembra voler fuggire.

Fuga del senso

Ripercorrendo la prosa appena citata, ci si accorge facilmente come si riveli illusoria la funzione di trait d’union rappresentata dal soggetto, pure instancabilmente sensiente; altrove addirittura, forse anche con maggiore efficacia, Tozzi scrive:

Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d’una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più.

Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo.

Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l’aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza.

Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare.

Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell’aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà.

Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata.

Mi vengono i brividi.

Portava gli agnelli a vendere.

Venuta meno la funzione unificante del soggetto, tutte le cose cessano d’avere senso e si accampano le une accanto alle altre come oggetti irrelati di una natura morta: limone, bicchieri, piatti “sono belli perché miei”, perché l’io li tiene insieme nella “compilazione d’una storia” che lo riguarda. Ma, non appena qualsiasi elemento estraneo (qui la voce di un ragazzo che porta “gli agnelli a vendere”) interviene ad alterare il novero degli oggetti posseduti, l’io stesso si scompagina, scosso dai brividi, e ogni cosa precipita in un vuoto di senso, “così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo”. Vuoto “storico”, storicamente leggibile, se alle date vogliamo attribuire valore: Bestie fu significativamente composta tra il 1912 e il 1914 e pubblicata nel 1917; ed è vuoto reso ancora più abissale dal “non sapere”, dalla inconsapevolezza ostinata con la quale una intera generazione, prima irretita dal fascino della Belle Époque, poi trascinata dalla lucida follia della guerra igiene del mondo, attraversò con gli occhi chiusi il valico altrimenti insopportabilmente doloroso fra l’Ottocento e il Novecento. Ma, a ben guardare, è vuoto di oggi, e di tutti. Non è solo che quel vuoto non è mai stato colmato e nessun senso nuovo o rinnovato è mai intervenuto a ripristinare le relazioni fra gli uomini e fra gli uomini e la natura, fra gli uomini e la storia, nemmeno una generica solidarietà; è anche che il possesso delle cose, degli oggetti – cifra insopprimibile della modernità, corollario imprescindibile al teorema vincente del consumismo – ci ha beffardamente convinto di essere quelle cose, definitivamente spodestando l’io persino dal suo ruolo di compilatore “d’una storia che riguarda ”, proprio come Tozzi in qualche modo sembra presentire:

Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono.

Qualche altra volta, mi erano sembrate – libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti – poemi immensi.

Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro.

 Ma questa sera hanno atteso tutte d’accordo.

 Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio.

La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c’è.

Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno.

Bestie oggi

Davvero l’esatto contrario di uno short message, di una “storia” di Istagram, oggi la brevità di questo piccolo capolavoro di Tozzi, forse, può risultare respingente. Di fronte a quel mondo che s’andava sgretolando, Tozzi sembra quasi raccoglierne i pezzi sparsi, ridefinendo la capienza del contenitore narrativo, che, da quella dei grandi romanzi ottocenteschi, si riduce sino allo spazio dell’aforisma. Ma i pezzi che Tozzi raccoglie e conserva, pur se “macerie di un sogno ormai svanito”[2], mantengono tuttavia, se non la forza, quanto meno l’ingombro del sogno che hanno rappresentato, dei valori che hanno contenuto (e questo sembrerebbe dare ragione di quel tanto di masochistico che più volte è stato osservato nelle trame tozziane): alcuni “pezzi” ricorrono, infatti, con un’insistenza impossibile da trascurare (la casa, i libri, la strada, gli amici, il padre, la madre, i campi…). Sono grumi di senso rappreso che certamente non possiamo sciogliere e trasfondere nelle nuove generazioni, se non con un’operazione disonesta (e inutile) di riesumazione. Disonesto sarebbe pertanto proporre la brevità di Tozzi come modello per rappresentare un mondo che agli occhi del lettore di oggi si offre con caratteristiche assai diverse da quelle che Tozzi osservava, giacché, come allo stesso Tozzi piacerebbe dire, “le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente”.

Ma che Bestie possa rappresentare uno strumento alternativo per interrogare le cose, questo, invece, lo credo davvero; o, ancora meglio, credo possa fungere da strumento conoscitivo di una brevità-altra: non una brevità omissiva, non una brevità semplificatrice, efficiente, spavalda e risolutiva, ma una brevità densa che è raccoglimento, lentezza e punto di domanda. Dallo spazio circoscritto tracciato da Tozzi con le sue parole, spesse come un tratto di carboncino e sottili come un fitta, è impossibile evadere con la stessa facilità con cui si abbandona un gruppo di Whatsapp; e chi se ne va (si legga la prosa qui di seguito) per non soffrire di una sofferenza estranea e di cui non ha colpa, finisce col piangere ugualmente: tanto vale restare e provare a capire.

Una sera d’estate mi sedei a piè d’un greppo e cominciai a fumar sigarette l’una dopo l’altra. Era molto scuro, e le stelle parevano così piccole che certo avrebbero bucato. Avrei voluto con me un amico per parlare di qualche cosa, o meglio per ascoltarlo. Quando voglio bene ad un amico, mi piace di più star zitto fumando.
Quasi annoiato e intristito a star lì, appuntellai le mani su l’erba e feci per alzarmi. Allora un grillo, così vicino che non raccapezzavo dove, cominciò a cantare. Era tra le mie ginocchia, forse? Era dietro di me? Né meno. M’era saltato addosso? Mi scossi tutto: no. Dovetti andarmene, e mi misi a piangere.

[1] R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere. Laterza, Bari 1995, p.119.

[2] Ivi, p.114.

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