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diretto da Romano Luperini

 

 Greta Thunberg è in pericolo. Il mondo, con il suo teatro e le sue maschere, e con la sua cattiveria, potrebbe essere già a un passo dall’inghiottirla: senza parere, in alcuni casi con le migliori intenzioni di darle voce e microfono.

Cooptare, normalizzare, screditare

Tre sono i pericoli cui è esposta: la cooptazione, la normalizzazione, lo screditamento.

Greta ha tenuto un Ted talk a Stoccolma nell’agosto del 2018, è intervenuta alla Cop 24 sul clima di Katowice e a dicembre è stata ospitata anche al Forum economico di Davos 2019. Pochi giorni fa è stata proposta per il Nobel per la pace. Non si può dire di lei che la lascino sola a predicare nel deserto, apparentemente.

Il potere politico ha, per costituzione e istinto, la tendenza alla cooptazione delle forze che gli sono antagoniste o che pongono istanze di cui esso non può o non vuole farsi carico. Non sempre è facile tracciare il confine tra la cooptazione machiavellica, che ha lo scopo di neutralizzare, e la cooptazione riformista, che ha lo scopo di accogliere per concretizzare, non prima di aver proceduto a depotenziare istituzionalizzando.

Il secondo pericolo viene dalla sua sovraesposizione mediatica, dal fatto di dover agire all’interno dei codici altamente ritualizzati e “mediocratici” della società dello spettacolo (per utilizzare il neologismo recente di un bellissimo libro di Alain Denault, La mediocrazia). Il potere dell’informazione è temibile e può essere riassunto in una parola: mitridizzazione. I mass media – tutti: da quelli unidirezionali e gerarchici come la tv e i giornali a quelli (apparentemente) rizomatici e orizzontali come la rete – sono in grado di normalizzare qualsiasi abnormità, inquadrando il contenuto ribelle e ob-sceno nell’adeguato format, tra uno spot pubblicitario e l’altro, o aggiogandolo alle imponderabili logiche degli algoritmi dei social network.

 

Infine, lo screditamento: qualche giornale italiano di destra e siti di “controinformazione” (leggi: negazionisti) hanno prontamente insinuato che Greta sia manovrata dalla famiglia, che vorrebbe farsi pubblicità, e da direttori di think tank ambientalisti, che la userebbero nel loro lobbying presso i partiti politici.

Un bambino gridò: “Il re è nudo!”

Il problema, in effetti, è che nessuno dei contesti nei quali Greta ha pronunciato i propri discorsi è un contesto di primo grado, naturale. Limitandosi a considerare soltanto i Ted talk, essi sono format retorici adatti a parlare di apocalisse climatica come ad illustrare, alla Steve Jobs, le virtù taumaturgiche dell’ultimo modello di I-phone. Anche i suoi bei discorsi, estremamente efficaci, sono molto probabilmente costruiti con l’aiuto di qualche ghost writer che sa, ritoccando qui e sottolineando là, far brillare attraverso le parole l’immagine di una piccola e fragile Davide contro il Golia del mondo dei grandi. Nei suoi discorsi Greta non parla da scienziata, né da attivista politica propriamente intesa: non è quello, dopotutto, il suo ruolo. Piuttosto, parla di sé, costruisce il proprio personaggio.

Qual è l’elemento di esemplarità assoluta, di unicità, di questa autobiografia? Greta si presenta nelle vesti del bambino della nota fiaba di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, colui che può dire la verità perché non ha ancora interiorizzato le reticenze e le ipocrisie degli adulti. Oltre che “bambina”, Greta è affetta dalla sindrome di Asperger, che le garantisce un’immunità dalle “trame” e dai “giochi” sociali e che consente al suo sguardo di trafiggere il bersaglio nella sua nudità, cogliendo senza mediazioni la verità. (Questa autorappresentazione è così centrale che ritorna in tutti i suoi discorsi, non solo nel Ted talk).

Né tutto vero, né tutto falso

Chi sente sempre impetuoso risalire dalle viscere l’uzzolo di trovare del marcio dietro ogni apparenza di idealità, ha qui pane per i propri denti. Lo smascheratore di ipocrisia è uno strano soggetto, che conferma lo stesso schema che pretende di far crollare: come l’idealista, è un assolutista, esige nell’altro la sincerità perfetta, e se non è perfetta, se essenza e apparenza non coincidono, allora c’è il trucco.

Greta non è né integralmente vera né integralmente falsa: è quello che appare, ma, perché appaia così, i suoi discorsi e la sua “persona pubblica” sono stati in qualche modo costruiti, perfezionati, intensificati, come qualsiasi lettore di romanzi o spettatore di film sa essere perfettamente normale.

Anzi, se dovessi dirla tutta, spero vivamente per lei che non sia sola, che ci sia qualche adulto a filtrarle il mondo, a esporla solo quanto è necessario e non di più, a dosare la sua immagine perché non sia data in pasto al tritacarne. È diventata un simbolo, ma resta pur sempre una ragazza di sedici anni. Che il mondo non la stritoli.

Non abbiamo tempo

L’Ipcc ci dice che abbiamo dodici anni di tempo per invertire radicalmente la rotta, prima del punto di non ritorno climatico. Dodici anni non sono nulla e probabilmente non basteranno.

Era il 1972 quando un gruppo interdisciplinare e internazionale di studiosi, fra i quali l’italiano Peccei, pubblicava I limiti dello sviluppo. Gli economisti, nella quasi totalità, accolsero il libro con sarcasmo. Di lì a un decennio l’Occidente avrebbe superato la crisi economica dei Settanta con il rilancio da giocatore d’azzardo del neoliberismo, ontologicamente fondato sull’assioma che c’è sviluppo dove non ci sono limiti al mercato. Nei decenni successivi, intorno alla questione ecologica, abbiamo attraversato queste fasi:

Si comincia in linea generale col dire che le crisi ecologiche vengono esagerate per fini ideologici, poi si afferma che, quand’anche la loro gravità fosse accertata, le crisi sono destinate a trovare una soluzione naturale tramite i mercati, e col favore dello sviluppo, per sostenere infine che, qualora non fosse così, il costo economico e politico della loro attuazione sarebbe comunque proibitivo. Tale strategia retorica ricorda molto la parabola del paiolo bucato inventata da Freud in Il motto di spirito, ovvero: un tizio prende in prestito un paiolo e poi lo restituisce con un grosso buco che lo rende inutilizzabile. La persona che glielo ha prestato chiede spiegazioni, e il tizio si difende con questi argomenti in successione: 1. “Non ho mai preso in prestito alcun paiolo”. 2. “Ho reso il paiolo intatto”. 3 “Il paiolo era già bucato quando io l’ho preso in prestito”. La stessa sequenza di argomenti presso gli scettici del clima: “Il cambiamento climatico non esiste” (anni Ottanta). “Esiste, ma è di origine naturale” (anni Novanta). “Esiste a causa dell’uomo, ma i mercati dell’energia consentiranno di risolvere la crisi (anni Duemila). “Il superamento della crisi rappresenterebbe un costo economico e politico insostenibile (l’attuale decennio)»

(Eloi Laurent, Mitologie economiche, 2017, pp. 88-89)

Eccole le “trame” e i “giochi” intessuti intorno al re nudo che l’Asperger Greta non capisce, o da cui è immune. Si chiamano potere, arroganza economica ed epistemologica, ma anche più semplicemente storia e politica, intreccio di discussioni e lotte, infinito argomentare. Noi tutti vi siamo confitti tanto a fondo da non poterne uscire. Nel nostro caso specifico significa che non esiste un punto di vista universale dal quale guardare nemmeno la catastrofe climatica, che è quanto di più universale c’è, perché nessuno le sfuggirà. Ma non possiamo sfuggire al relativismo delle nostre posizioni non perché non ci impegniamo abbastanza, o almeno non soltanto per quello – qui la pars construens dei discorsi di Greta, meramente volontaristica, mostra la propria ingenuità –, ma perché la questione ecologica è una questione politica: la politica ridotta a governance dirà irenicamente che tutti i paesi di buona volontà devono unirsi almeno intorno ad alcuni obiettivi comuni; la politica intesa alla vecchia maniera come conflitto dirà invece che la governance globale (e capitalistica) è parte del problema ed è contro di essa che una soluzione andrà articolata. Siamo quindi di fronte a questo paradosso: il tempo per la discussione è scaduto, ma senza discussione non arriveremo a decidere che fare.

Dire la verità, alludere alla verità

Quello di coniugare universale e relativo è stato un cruccio di moltissimi intellettuali novecenteschi, la cui funzione universalistica – “clericale”, per dirla con Benda – era stata intaccata dalla consapevolezza materialistica che persino l’intellettuale parla da una certa porzione di realtà, da un punto di vista parziale e relativo. Penso ad esempio a Edward Said (Dire la verità) o Pierre Bourdieu (Per un corporativismo dell’universale), che pur assumendo come punto di vista imprescindibile quel materialismo relativistico e contestualistico hanno offerto ipotesi di suo trascendimento (sempre parziale, rivedibile, discutibile) in una prospettiva universale, quella che appunto Said definiva il compito dell’intellettuale di “dire la verità”, comunque e sempre.

Basta assistere a qualche discussione in rete (quelle fra persone intelligenti, non parlo delle urla), per vedere come persino questo compito sia diventato pressoché impossibile. Se qualche intellettuale ci prova, la sua posizione e le sue parole vengono esposte alle “trame”, ai “giochi” del linguaggio, delle interpretazioni, dei fraintendimenti, delle prevaricazioni: dei “non era questo il momento”, dei “cui prodest?”, dei “ma tu da che parte stai?”, de “i problemi sono ben altri”, dei “non parliamo dalla stessa posizione quindi ti diffido dal parlare in mio nome”.

Greta Thunberg non è un’intellettuale, né è un’“attivista politica” (come è definita sulle pagine Wikipedia italiana e inglese che ha già meritato). Non diamo troppa importanza a quello che dice, a cosa ci sia dietro, se sia credibile o no, politicamente percorribile o no. Sottraiamo questa fragile e coraggiosa ragazza alle spire della semiosi illimitata e paranoica in cui viviamo, per la quale il suo cappuccio, le treccine, l’impermeabile giallo sono già diventati simboli infinitamente replicabili in meme, vignette e citazioni.

Quella del clima è probabilmente la sfida più terribile che sia mai stata lanciata alla modernità nata sotto le insegne di scienza e illuminismo, che da questa sfida viene messa in crisi nelle sue stesse fondamenta: stavolta la logica dell’espansione infinita del benessere, del sapere, delle tecniche, quella peculiare metafisica che non ammette di essere tale per cui il progresso è, fatalmente e trionfalmente, autocorrettivo – gli effetti negativi di una tecnica saranno compensati da quella successiva e così via – potrebbe essere arrivata al capolinea. Le rotaie stanno per finire e la “prossima” tecnica è in ritardo.

Per la questione climatica questa ragazza svedese è caduta in depressione, ha smesso di mangiare e di andare a scuola. Nessuno di noi sarebbe mai stato capace di tale oltranzismo, di tale follia. Con il nostro lessico scientifico diremmo che Greta ha “somatizzato” una sofferenza psicologica: solo che il male di cui soffre non è suo, è il male di tutti noi. Se fossimo medievali e ingenui e non moderni e sapienti come siamo, diremmo che è una figura di Cristo, che è come dire una figura della verità. Ma visto che siamo moderni, ci faremo bastare la metafora del bambino di Andersen e ci limiteremo a dire che Greta allude a una verità con la sua stessa persona, prima di ogni possibile interpretazione, e che di quella verità (minuscola) abbiamo bisogno, perché tutta la nostra sapienza moderna sembra non essere in grado di salvarci.

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