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diretto da Romano Luperini

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L’eros negato: L’incontro. Appendice di Light verses e imitazioni, in Composita Solvantur

L’io diviso [i]

Io non credo che ciò che debba essere fatto per trasformare i rapporti tra le persone abbia come suo sintomo una diminuzione delle contraddizioni; non lo credo affatto. Di ciò che noi chiamiamo genere umano, la lacerazione tra essenza ed esistenza è costitutiva. L’uomo è uomo soltanto se è spaccato, solo se non è unitario.

Fortini non ha alcun dubbio nell’individuare come unico centro unitario dell’essere umano la contraddizione. E non ha alcuna esitazione ad attraversarla da poeta anche contro o nonostante il saggista, il narratore, l’oratore, il filosofo o qualunque altra cosa abbia voluto e saputo essere. L’unità e la coerenza di Fortini è la contraddizione. Dunque non sarà strano trovare il politico e il rivoluzionario nel percorso allegorico che passa attraverso il tema erotico, che sembra estraneo all’intellettuale che la critica ci ha consegnato.

Del resto, il testo poetico è il luogo in cui si cela e si esprime una lacerazione più profonda di quanto il Fortini  pubblico voglia ammettere. Nella metrica prende forma l’informe e ciò che si agita confusamente nelle zone d’ombra del conflitto e del trauma si dipana in un sistema chiuso che lo include e lo governa. Questo è il rimedio che Fortini escogita per dominare il perturbante, che nega e che esprime al contempo. Nella poesia esplode l’espressione, tenuta sotto pressione dalla metrica, si chiarifica l’oscurità inquietante e si distende, a volte, sulle rime narrative dell’ottava. La tradizione letteraria giunge a ordinare ciò che la coscienza stenta a giustificare. Ma l’inquietudine, nonostante tutto, non si domina e la spinta sotterranea erompe: Eros si manifesta suscitando terrore. Per neutralizzarne la forza eversiva, si materializza Thanatos: tutto si giustifica nella morte anche il più sconcio linguaggio del desiderio sessuale. A chi sta morendo si perdona l’ultimo desiderio. E così Eros è giustificato da Thanatos, sorella gemella di Hypnos. L’incontro, perciò, avviene di notte: è ricordo e sogno, profezia e memoria, promessa e minaccia.

Strani viaggi

Ghiaccia la pioggia tra luci violette

incontro a un capolinea, a una beatrice?

O, a notte folta, finzioni dilette

di un cine infame. Excelsior, Fenìce?

Con le mie voglie in me solo costrette,

com’ero giovane! Come felice!

Uno, che fui e che ora è vento, andava

per le vie di sua cieca anima schiava,

 

quando, schiusa la bocca sopra i corti

canini radi acuti, ecco una donna

– adusata, o mi parve, agli angiporti –

sull’ampio culo ben tesa la gonna

venirmi incontro a passi lenti e forti

di sé feroce facendo colonna,

di petto immenso e capo altero e come

grevi di bestia sui cigli le chiome.

 

Con due unghie puntate a mezza vita

m’arrestò, mi squadrò, sorrise appena.

Poi disse: «Tu non meriti salita

tanto al membro ti è flebile la vena.

Esci dal sogno, carne mal fornita,

stolida di vecchiezza e di error piena».

Tacque e sparì come va nave in ombra.

E il suo furore la mente mi ingombra.

 

Se la mente mi ingombri, immagine empia

di un me che contro me sempre si avventa,

secca è ancora la lingua, arde la tempia.

Là nella valle che il nulla tormenta

portami al sangue che la vita adempia,

Ecate cara scarmigliata e lenta!

E un nome avevi, o dea di crine e d’ira,

Carla o Zaira, Isolina o Diomira.

L’incontro notturno è una discesa agli inferi della propria interiorità, una caduta nel pozzo oscuro dei desideri e delle paure, nell’imbuto dei rimproveri, che l’io rivolge a se stesso, e delle vergogne sopite, alla ricerca di un’attenuante che si rivela un’aggravante. Vittima «di un me che contro me sempre si avventa» (v. 26) e perciò carnefice di se stesso, l’io diviso si fa evocatore di Ecate, una e trina, accompagnatrice dei vivi e dei morti nell’oltretomba, dea triviale, maga e strega, per gettare una luce su se stesso, scoprendosi con raccapriccio diverso e altro, sempre uguale nell’essere nascosto. Non si tratta di emersione di materiale rimosso, ma di scrupolo, masochistico, nell’individuare la colpa dell’impetuoso e sfrontato desiderio sessuale che dai verdi anni della giovinezza «felice» (v. 6) lo accompagna fino alla «vecchiezza» (v. 22), in una apparente adesione letterale alla manzoniana invocazione pentecostale («adorna la canizie / di liete voglie sante»). Ma le «voglie» (v. 5), tutt’altro che sante, saranno placate solo nella morte o, al contrario, potrebbero essere ribadite, nel rovesciamento della suggestione manzoniana, nell’invocazione ad Ecate: se la vecchiezza è impotenza che impedisce, in vita, l’attività sessuale («tanto al membro ti è flebile la vena», v. 12), alla «cara» dea si chiede che, morto, lo conduca «al sangue che la vita adempia» (v. 29). Sogni, certo, immagini, fantasmi, spettri: allegorie, che prendono corpo nella banalità di uno spazio urbano circoscritto, tra «un capolinea» e «un cine». Nel tempo condensato dell’io si mescolano il tempo passato della giovinezza, il tempo presente della vecchiaia e il tempo futuro della morte, scanditi da echi letterari che devono tenere a bada l’incandescenza della materia. E trattandosi, in questa  Appendice di Composita solvantur, esplicitamente di «imitazioni», l’incubo comincia con un termine dantesco: «Ghiaccia», luogo del basso inferno, che nella prima cantica è sostantivo, mentre qui è aggettivo (o verbo) in posizione fortissima. Quand’anche il lettore non fosse messo in allarme dal titolo della sezione o dal primo termine della poesia, sarebbe costretto a seguire un itinerario dantesco dalla presenza di «beatrice» (v. 2), che innesca inevitabilmente una memoria involontaria, rivelando, rispetto il livello letterale di superficie, l’esistenza di un parallelo significato sotterraneo. E in questo testo di uno scavo, comunque lo si voglia intendere, si tratta: ma allo scavo dell’io nel sé, corrisponde quello del lettore nel testo. Fortini dissemina il suo discorso di segni, tracce, indizi, citazioni, riferimenti, allude e sotto-intende e così fa della sua poesia una sorta di città a diversi strati. Bisogna che il lettore decida a quale livello, a quale profondità, fermarsi, affinché il capogiro non lo travolga, perché, ad un tratto, l’espressione onirica del disagio dell’io che scrive e racconta diventa la condizione di disagio del lettore che si chiede se ciò che vede è vero o è solo sua immaginazione. Proviamo a seguire, allora, una semantica parallela a quella del discorso narrato dalle ottave.                                                                                                                                                                                                                                                                 

La prima ottava è l’ingresso degli inferi: «Ghiaccia», «pioggia», «notte» sono lemmi danteschi fortemente connotati dalla dimensione infernale; ma «beatrice» o almeno quella con l’iniziale maiuscola, rimanda ad una dimensione paradisiaca piuttosto che infernale. Qui invece si tratta di «una», indeterminata, «beatrice», comune, in rima con «Fenìce» (rimanda alla resurrezione) e «felice» (beatitudine). Sembrerebbe una linea verticale, ascensionale. In effetti, nella Commedia Dante incontra Beatrice nel canto XXX del Purgatorio, alla sommità della montagna, nell’Eden. Ma l’incontro tanto desiderato è segnato dal pianto del poeta e dal rimprovero della donna. Quello che accade è la scomparsa di Virgilio «dolcissimo patre», dai connotati così rassicuranti da indurre Dante a rivolgersi a lui «col respitto / col quale il fantolin corre alla mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto». Invece Beatrice, «proterva», appare spietata a Dante in preda alla vergogna: «Così la madre al figlio par superba, / com’ella parve a me; perché d’amaro / sente il sapor della pietade acerba».  Il figlio, in preda alla vergogna, che ha perduto il padre, e che è rimproverato dalla madre di non occuparsi delle decisive cose importanti, deve avere una profonda risonanza in Fortini, che quando ricorda il padre lo fa sottolineando la vergogna e l’umiliazione del figlio e della madre. Così l’incontro fortiniano, che narra tutt’altra cosa, racchiude in sé anche l’incontro dantesco, con cui sembra entrare in sotterraneo dialogo. Le spie formali allora diventano significative e intrecciano corrispondenze tra L’incontro e il Canto XXX del Purgatorio in una fitta rete di rime e di lemmi che si rincorrono.

L’Io e l’Es

La repressione e la vergogna sessuale potrebbero essere, al contrario di quanto solitamente accade in un percorso freudiano, formazioni di copertura rispetto alla vergogna nei confronti di un padre tanto debole da assumere i connotati di mamma protettiva e di una madre tanto forte da apparire severa e punitiva come dovrebbe essere il padre: un rovesciamento dei ruoli che traumatizzerebbe il figlio alla ricerca della sua identità sessuale. L’ambivalenza dell’eros, che attrae col desiderio sessuale e che respinge con la vergogna della propria inadeguatezza, nasconde la minaccia di una madre castrante, che lo accusa di impotenza. E la donna – prostituta disegnata da Fortini con il suo «ampio culo» e il «petto immenso» ha gli elementi steatopigici fondamentali della Grande Madre (oltre a avere i caratteri leonini della superbia dantesca). Scriveva Fortini nel 1945:

Forse, nei cuori, la donna che desideriamo ma non riconosciamo compagna è sempre una madre terribile e mortale, e a lei, indietro, capovolti nel buio verso la morte del non essere, ci respinge un’immagine. Per gli schiavi di quell’immagine materna, l’azione è sempre una dolente violenza strappata all’amore.

L’«immagine empia» (v. 25)  «che contro me sempre s’avventa» (v.26) rimanda a «quell’immagine materna» inquietante e ambivalente: antagonista di eros, è madre che sigilla nell’urna uterina il figlio – feto capovolto «nel buio» «del non essere», che conduce alla «morte» dell’immobilità e dell’impossibilità di agire. La nascita, l’uscita dalla madre funerea, sarà la vita, l’azione, l’amore. La prostituta, del resto, è una donna «che desideriamo ma non riconosciamo compagna», «una beatrice», «una madre terribile e mortale», «Ecate», tramite tra il  buio mondo sotterraneo e quello luminoso di superficie, luna calante che inghiottirà nel buio il figlio che alla tranquillità di Thanatos ha preferito la sofferenza di Eros.

Nella seconda ottava, sintatticamente legata alla prima, agli echi danteschi si sommano le ostentate citazioni petrarchesche: la rima «donna» : «gonna» : «colonna» (vv. 10:12:14) è nella celeberrima canzone CXXVI del Canzoniere; «a passi lenti» (v. 13) è una citazione accorciata di «a passi tardi e lenti» del sonetto XXXV. Se nella prima ottava compare una beatrice minuscola, qui incontriamo una Laura degradata.      Si tratta di una donna «feroce» che allude alla petrarchesca «fera» di «Chiare fresche e dolci acque», ma che assume gli inquietanti connotati infernali della ibridazione dantesca con quei suoi «canini» (v. 10) e le sue «chiome» «di bestia» (v.16). E «bocca» (v. 9) è lemma dantesco con più occorrenze nell’Inferno (la memoria corre a Ugolino, ma il termine è presente anche nel Canto XXX del Purgatorio).

La lussuria che suscita la prostituta o che a lei si attribuisce lega «bocca» (v. 9) specificatamente al V Canto dell’Inferno,  dove leggiamo «faccendo […] di sé lunga riga»  che Fortini rimonta in «di sé […] facendo colonna» (v. 14) a formare una crux. Il poeta rimane legato al supplizio della colonna, la donna – Laura, desiderata e mai posseduta, è ora prostituta «feroce»: Petrarca trascolora fino a divenire evanescente, resta il masochismo dell’uomo – figlio complementare all’aggressività della donna – bestia.  Il «furore» (v. 24) diventa parola sprezzante nella terza ottava in cui l’eco di Dante, oltre ai termini già indicati, si fa sentire insistentemente. Il dialogo sottotraccia mantiene vivo il ruolo del poeta – figlio afflitto da vergogna e consumato dal desiderio di fronte alla donna – madre severa ammonitrice dell’«error».

La conclusione del racconto è l’uscita dal sogno, nel quale si è manifestata – in una donna – l’immagine di un furente me accusatorio, che lascia il residuo di ingovernabile vergogna («secca è ancora la lingua, arde la tempia», v. 27) e rimane solo Ecate, personificazione della morte, donna – dea ambivalente e multiforme. L’ultimo verso ne elenca quattro nomi sistemati in due coppie. La scelta dei nomi non può essere casuale, e tuttavia il criterio ci sfugge, esattamente come il significato latente di un sogno, che pure ci tormenta con la percezione di uno sfuggente significato nascosto. Ed è Fortini, consapevolmente, che ci induce questo tormento, costruito ad arte: siamo di fronte ad una costruzione allegorica e all’allegoria della rappresentazione psicoanalitica. Provo ad avanzare un’ipotesi di senso di questi nomi di donne attribuiti ad Ecate, distinta da «una beatrice» (v. 2) e da «una donna» (v. 10), che è l’immagine di un sé che sadicamente non prova pietà di un sé masochistico.

Storie di donne

È evidente che nella serie di nomi, «Carla», nella sua banalità, rimane isolata rispetto ai poco comuni o francamente insoliti nomi successivi. In effetti tutti e tre i  nomi seguenti hanno a che fare con il melodramma, quasi a voler sottolineare la prosaicità del primo nome: frizione con la letteratura in falsetto tanto esibita da far pensare ad un riferimento biografico, a qualcosa di reale. Ecate è colei che accompagna, in un luogo pieno solo di sofferenza («Là nella valle che il nulla tormenta», v. 28), all’elemento che realizza la vita «al sangue che la vita adempia» (v.29): la sostanza, l’elemento essenziale e reale della vita. Ma Ecate è mitologica, è fuori del tempo, ha a che fare con il nulla, in un eterno presente. Carla è Ecate nella storia, e il suo tempo, che si può narrare, è imperfetto. Esiste un poemetto nel quale si descrive tutto lo squallore di un’esistenza piccolo borghese in una Milano alle soglie delle magnifiche sorti e progressive del boom economico: La ragazza Carla di Elio Pagliarani. Il tono del poemetto, annunciatore di neoavanguardia, è – in verità – tra neorealista e neocrepuscolare: la vita di Carla è certo un inferno sotto «questo cielo contemporaneo», «questo cielo di lamiera», in cui sono nominati,  come nella città delimitata all’inizio di L’incontro, il «cinema» e il «capolinea». Carla sembra quindi indurre l’idea di città – infernale reale: Milano appare luogo plumbeo e spietato in cui si consuma lo sfruttamento e la degradazione umana, che passa attraverso la mercificazione del sesso. Il testo era stato pubblicato nel 1960 sul secondo numero di «Menabò», in cui compare anche un saggio di Fortini, Le poesie italiane di questi anni. Se il percorso sotterraneo ha un suo senso, non sarà irrilevante ricordare che la rivista era diretta da Vittorini e Calvino. Nell’assenza di una figura paterna da ammirare, Vittorini ha svolto una funzione fondamentale nella formazione culturale e nella biografia di Fortini. Se Ecate, che aveva nome Carla, ci conduce nell’inferno della città contemporanea, «Zaira» e «Diomira» ci portano nelle città invisibili di Calvino: nella Parte I, Diomira è La città della memoria 1, Zaira è La città della memoria 3. Le città della memoria sono città invisibili depositate nella parola di chi le racconta, sono luoghi che Fortini esplora nella sua mente, sono le immagini di ciò che si è visto o che si è immaginato, di cui si parla ad un altro. Sono invisibili città come l’io che guarda e visita se stesso e che di sé può parlare raccontando ad un altro. Anche Zaira e Diomira sono nel tempo imperfetto del racconto di sé. Quello nascosto, che è invisibile agli altri. Rimane Isolina, che credo con il suo diminuitivo, essere proprio quello che dice di essere, una piccola ‘isola’ in cui l’io può abbandonarsi: con il suo artificio melodrammatico, potrebbe essere la letteratura che consente all’io di esprimersi e di isolarsi. Come questa poesia. Se nell’annientamento della morte si chiede a Ecate di condurre l’io al compimento definitivo della vita, durante l’esistenza della vita quelle che ci guidano per non smarrirci nell’abisso dell’io  sono la storia, la memoria e la letteratura. Scriveva Calvino (Le città invisibili):

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Fortini non riesce a non soffrire dell’«inferno che abitiamo tutti i giorni»: l’amore è continuamente minacciato dalla rabbia, dal senso di colpa, dalla vergogna, eppure, il poeta instancabilmente cerca quello che «non è inferno» e gli dà «spazio», dolorosamente, contraddittoriamente, sulla pagina. Thanatos inghiotte nel nulla l’io, che è attratto dal proprio annientamento, ma Eros si ribella alla fine dell’esistenza e rivela la profonda lacerazione dell’ essenza. Il terrore dell’incontro è l’incubo della fine della vita. La morte sgomenta vivendo.


[i] Il presente articolo è la parziale rielaborazione e riduzione di una sezione di Il tema erotico nella poesia di Fortini, uscito su “Moderna” XXI, 1-2, 2019, a cui si rimanda per l’analisi formale del testo, per le citazioni e per la bibliografia, nonché per il discorso di più ampio respiro sulla presenza del tema amoroso nella poesia di Fortini.

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