L’abusivo di Antonio Franchini tra autoreferenzialità postmoderna e ritorno al reale
La letteratura coltiva questo sogno di ricomporre presente e passato, il progetto di assemblare il vero col verosimile e il falso, per costruire l’illusione che il suo nuovo ordine, l’ordine di parole che ha generato possa esistere, resistere e durare, anche se non si tratta della Verità, ma di una verità altra.
Io però non ci credo.
Antonio Franchini, L’abusivo
Tra anni Novanta e anni Zero non era difficile, per un lettore interessato alle novità della nostra letteratura, imbattersi in testi piuttosto difficili da incasellare. Testi «ibridi», si è detto. Testi che sono narrazioni, senz’altro, ma non sono né romanzo, né reportage; né autobiografia, né biografia altrui; né narrazione storica, né fantascienza. Eppure, testi che danno l’impressione di poter attingere con disinvoltura a tutti i repertori appena elencati, e ad altri ancora.
Pensiamo a due sintomi diversissimi di un fenomeno trasversale: Tiziano Scarpa, con Kamikaze d’occidente (2003), e il collettivo Wu Ming, con Asce di guerra (2000). Il refrain è uno, in Italia ci sono narrazioni che inducono afasia selettiva: se uno prova a definirle con poche parole, non ce la fa.
Allora si constata laconicamente che «le categorie letterarie sono insufficienti» (Scarpa), oppure si va per sottrazione, proponendo un ultra-generico «oggetto narrativo» (Wu Ming), magari con clausola ufologica: «non identificato».
La clausola ufologica sottendeva stupore per la novità. Oggi possiamo invece riconoscere che «la mescolanza di generi è ormai un genere a sua volta» (Giglioli, Senza trauma, 2011, p. 65), e provare a studiare le nostre forme ‘ibride’, indagare gli strati di questo aggettivo. È precisamente ciò che si vorrebbe fare qui con L’abusivo di Antonio Franchini (2001).
Si tratta di un libro che ‘ibrido’ lo è senz’altro. In quarta di copertina, infatti, leggiamo che si tratta di «un’inchiesta dal sapore letterario», e nel testo Franchini rilancia: «la ricostruzione spuria di una vicenda di ordinaria infamia». A interessarci, qui, saranno quel sapore e quello spuria: le zone di ibridazione, appunto.
Apparentemente, la questione è semplice. Giancarlo Siani è un cronista assassinato dalla camorra, uno dei primi. Dalla sua morte alla risoluzione del caso passano nove anni: L’abusivo è la ricostruzione dell’inchiesta – del resto, che i motivi, i mandanti, gli esecutori dell’assassinio siano stati chiariti lo apprendiamo solo nella seconda metà del libro, no?
Sì e no. O meglio: non solo. Dalla prima pagina è infatti chiaro come Franchini non voglia soltanto parlare del lungo iter investigativo e giudiziario, di errori decisionali, false piste, dietrologie… compare subito il suo io, grande e invadente, a complicare le cose.
Nel testo compare subito un Antonio Franchini in cui si sovrappongono autore, narratore e protagonista. La sua postura è quella di chi rende una testimonianza. La sua voce sviluppa filoni narrativi e tematici solo indirettamente legati alla vittima di camorra: l’ambiente giornalistico a Napoli tra anni Settanta e Ottanta, il rapporto dell’emigrato coi luoghi abbandonati, il proprio microcosmo familiare.
Non c’è modo di sapere se le informazioni fornite da questa voce siano vere nel senso comune della parola. Bisogna però rilevare due aspetti: sono informazioni coerenti e riferite come se fossero vere.
Si tratta di un primo tipo di patto tra autore e lettore: quest’ultimo accetta l’utilizzo di forme autobiografiche senza pretendere in cambio alcuna garanzia di veridicità.
Potremmo adoperare la categoria di ambiguità autofinzionale: quando Franchini narra la discordia profonda tra sua madre e sua nonna, quando dice di aver provato a elemosinare una raccomandazione pur di diventare giornalista, il lettore non è nella posizione di verificare queste informazioni come potrebbe verificare di avere cinque dita per mano, ma intanto ne coglie la pretesa verosimiglianza e la coerenza col sistema narrativo del libro.
Tutt’altre categorie servono per parlare della ricostruzione dell’inchiesta.
Nella capillare documentazione su Giancarlo Siani e sulla camorra ci sono interviste in cui, eccezionalmente, il narratore tace: data, luogo, aperte virgolette, e il microfono passa a conoscenti e familiari di Siani, oppure a figure di primo piano nel monitoraggio delle attività camorristiche. Tutte voci il cui ‘io’ è più autorevole rispetto a quello di Franchini, che emigrando ha rifiutato di essere ‘abusivo’ – cioè precario, senza garanzie sindacali.
Queste interviste si presentano come nuda e non mediata trascrizione dal vero. Si sarebbe tentati di parlare di testimonianze: sono sbobinature minuziose, da verbale giudiziario, in cui la presenza dell’intervistatore è sempre implicita. Ci sono, poi, salti tematici e locuzioni che mimano la presa diretta («no, che dico? Sì, nell’83 […]» p.105; «guardi, anche se registriamo, dico con grande onestà […]» p.121).
Trascrivere dal vero, naturalmente, significa fondare il dettato sull’autorità di chi lavora sul campo (‘io c’ero, ho visto, ne parlo’), ma anche ostentare la rimozione di ogni filtro retorico tra realtà e lettore.
Eppure, uno sguardo più attento rivela che di filtri ce n’è un’infinità. Le testimonianze sono cinque prima della risoluzione del caso, e cinque dopo. La prima serie è un lento avvicinamento alla vita privata di Siani, da un autorevole cronista a suo fratello. Tra i vari ‘io’, inconsapevoli l’uno dell’altro, ha luogo un gioco di tensione e distensione: la lacuna di A è colmata dalla verbosità di B, oppure, con un cliché da detective fiction, A indirizza l’intervistatore verso B, e così via.
Evidentemente, in queste pagine l’autore propone al lettore un ‘contratto’ del tutto differente.
Potremmo parlare di narrazione allodiegetica e polifonica intorno a una biografia: l’autore, qui presente anche come narratore e protagonista di molte sequenze, delega localmente la narrazione a persone diverse ma accomunate dall’essere più competenti di lui. Così ambiguità ed effetto di realtà si polarizzano: la prima nell’autobiografismo fittizio di Franchini, la seconda nei ricordi dei testimoni.
Ambiguità ed effetto di realtà rimandano, rispettivamente, a letteratura e cronaca.
La letteratura, che ha la voce «dell’interiorità […] cioè quella che noi vogliamo darle» (p.195), si contrappone alla cronaca, che è nuda trascrizione dalla realtà. L’autore-narratore-protagonista non ha saputo far cronaca a livello professionale e, coerentemente, in sede creativa delega questa funzione a voci altrui.
Letteratura e cronaca chiedono sistemi valutativi differenti. La prima si valuta in base alla coerenza interna, la seconda in base all’aderenza ai fatti: la prima può essere autoreferenziale, la seconda no. La cronaca deve poggiare sul documento (o sul fatto documentabile), mentre la letteratura può anche poggiare sul vuoto.
Questi, dunque, i due principali tipi di testo che ne L’abusivo trovano ibridazione. Tale parola, ‘ibridazione’, serve a sottolineare come essi si influenzino a vicenda: la cronaca costruisce un intreccio dal sapore letterario, e la letteratura adopera i propri «poveri trucchi» (p. 81) per dilazionare il racconto di un fatto reale.
Resta da chiedersi per quale motivo l’autore chieda al lettore di sottoscrivere contemporaneamente due contratti così diversi – e perché, poi, proprio questi.
La risposta sta nelle pagine in cui un camorrista confessa alle autorità che Giancarlo Siani è stato ucciso per ciò che ha scritto in quanto cronista. Dopo nove anni di lungo iter investigativo e giudiziario, presunti errori decisionali, false piste, dietrologie, quando ormai le indagini erano in piena stagnazione, vengono chiariti i motivi, i mandanti, gli esecutori dell’omicidio. Il caso è risolto.
La confessione del camorrista conferma l’ipotesi più immediata e banale, cui era però sempre mancata l’evidenza probante: Siani è morto per ciò che ha scritto.
Franchini torna allora a leggere le sue parole. Ciò che trova lo sgomenta. Vale la pena di riportare il passaggio:
«Che cosa ha scritto Giancarlo Siani?
La sua prosa piena di preamboli […], la sua scrittura costretta a puntualizzare con incisi e clausole burocratiche […], la sua pagina obbligata alle formule più scontate e alle interrogative retoriche […], questo suo stile da ragazzo che, come tutti noi allora, con la penna continua a stare sui banchi di scuola […]
Era sotto la martellante norma di queste frasi che bisognava frugare?» pp. 144-5
L’autore, l’editor, per prima cosa prova scandalo davanti alla completa assenza di stile: nella prosa di Siani non c’è coscienza formale, e questo non dà un’impressione di spontaneità, bensì di goffaggine, di banalità.
Dopo, ma solo dopo, egli considera il fatto che chi ha ucciso per quelle parole, più che a leggere, è abituato a «trattare affari», «muovere soldi», «ammazzare». Siani, magari scrivendo male, ha accusato i Nuvoletta di aver agito da ‘infami’: tanto basta a spiegarne la morte.
Allora si comprende che polarizzare ambiguità ed effetto di realtà, letteratura e cronaca, è servito a preparare e amplificare una dolente presa di coscienza: chi non avverte la possibilità di conferire una profondità estetica al proprio discorso, non sospetta nemmeno che lo stile possa essere spazio etico – chi non nota che l’aggettivo A e l’aggettivo B, pur essendo sinonimi, sono diversissimi, non può comprendere come mai, concretamente, uno scrittore possa sentire di compiere un atto morale preferendo l’aggettivo A all’aggettivo B.
Non comprendere che la forma è parte organica del contenuto porta a una pesante svalutazione della forma. Ma questa incoscienza del mezzo linguistico, malgrado lo sgomento dei letterati, non impedisce un rapporto anche violentissimo tra parole e cose. Dunque, il letterato si sente in posizione di minorità.
L’abusivo però non è il lamento di uno scrittore per l’usura della propria arte, non contiene parole che, accorgendosi di non cogliere alcunché, si fanno oscure o barocche. Al contrario.
L’autore-narratore-protagonista di questo libro potrà anche somigliare a un nichilista post-ideologico, la limitatezza della letteratura potrà anche essere sottolineata in ogni pagina, ma tutto converge nello sforzo di testimoniare l’esistenza di un legame reale, fattuale, concreto e (perché no) violento tra parole e cose.
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