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diretto da Romano Luperini

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Piccola petizione per inserire Arbasino nel canone scolastico

 Non c’è dubbio che Arbasino vada ricordato soprattutto per la cura intensiva somministrata, a scadenze ravvicinate, alla cultura e alla lingua italiana del secondo Novecento. Un provvido arieggiatore di stanze polverose e stantie che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, ha dispensato programmatici shock salutari contro i mali racchiusi nell’allegoria démodé del “tinello” (di suo conio): provincialismo, angustia di orizzonti, arretratezza. Il riconoscimento unanime di questo ruolo all’autore di Certi romanzi è indiscutibile. Ispirato dall’intenzione di documentare a caldo il clima culturale di un’epoca – i sintomi del postmoderno coincidenti con il momento di massima espansione del miracolo economico – non ha smesso di riscriverne il regesto, di completarlo aggiornando «quello che ci poteva essere di latente, di non risolto, di non spiegato». (A. Arbasino, “Conversazione con Furio Colombo. Specchio delle mie trame”, in M. Belpoliti, E, Grazioli, Alberto Arbasino, [a cura di], Milano, Marcos y Marcos, 2001, p. 98).

Ha usato la scrittura mirando con ostinazione all’esaustività, condannato al tempo stesso a patirne l’inevitabile incompletezza, in balia di una sollecitudine che, seppur con cautela, si può definire ‘didattica’. La prudenza è motivata dal fatto che fin dai tempi de La gita a Chiasso, l’articolo scatenato comparso sul «Giorno» nel 1963, l’opera di Arbasino è percorsa da strali rivolti al mondo scolastico. Le punzecchiature polemiche non ne risparmiano il lessico – norme didattiche, tema unico, esortazioni retoriche, tornata accademica, pedagogia e ammonimento, apprendistato coi capelli bianchi, programma limitato, ripetere la lezione – usato sempre in funzione dispregiativa. L’epiteto di maestro lo si trova per lo più in endiadi con l’aggettivo “arretrato”, gli accenni ricorrenti al campo dell’istruzione sono puntualmente connotati in senso sfavorevole e diluiti come veri e propri Leitmotive. Nel momento più caldo degli anni Settanta, l’autore elabora una Proposta fra le più modeste che contempla la «consegna a ogni neonato italiano di un diploma di laurea in bianco» (A. Arbasino, Fantasmi italiani, Roma, Cooperativa Scrittori, 1977, p. 86.), da compilare al raggiungimento della maggiore età, la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado con gran risparmio di fondi pubblici e grandi vantaggi per tutti. E ancora, in un’intervista rilasciata a fine anni Ottanta, Arbasino riconosce il valore della lettura di Adorno fatta intorno ai vent’anni, formativa in quanto avvenuta «fuori dalla scuola» (G. Pulce, Lettura d’autore. Conversazioni di critica e di letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto Arbasino, Roma, Bulzoni, 1988, p. 186.). Sottoposte a tale trattamento, le istituzioni scolastiche italiane ne riemergono asfittiche, popolate da una fauna prossima a quella assemblata da Fellini nell’esilarante galleria di professori di liceo inserita in Amarcord, del tutto inadeguata al compito di stimolare un’autentica formazione, aggiornata e cosmopolita comme il faut. Essa pare possibile solo al di fuori dalle istituzioni che a formare sarebbero predisposte, nelle modalità che Arbasino persegue con determinazione per tutta la vita: i viaggi, le frequentazioni, le letture, condensando in sé un’eloquente rappresentazione delle idee e delle pratiche individuate da Bourdieu nell’imponente ricerca sui consumi culturali, avviata nel 1963:

Purché, però, si posseggano tutti i tratti della distinzione: portamento, prestanza, aspetto, dizione e pronuncia, buone maniere e buone abitudini; senza di cui, per lo meno su questi mercati, tutte le conoscenze scolastiche valgono poco o niente, mentre, proprio per il fatto che la scuola non le insegna mai, o mai in modo completo, essi definiscono di per sé la distinzione borghese [i](P. Bourdieu, La distinction, 1979, trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 90.).

Tuttavia la cronologia inserita nel primo volume dei due  Meridiani che ne raccolgono l’opera, dall’ autore stesso curata insieme a Raffaele Manica, indugia con sovrabbondanza di dati sulla carriera scolastica della gens arbasiniana. La rievocazione – come in una favola di Gozzano – ha inizio dal liceo di Voghera frequentato dai genitori, che ebbero come insegnante Diego Valeri, fino alla laurea in lettere classiche della madre e in chimica del padre, e poi ancora si sofferma sulla ‘fortunata serie di insegnanti decisive’ in cui ebbe la fortuna di imbattersi l’autore da ragazzo, sulle zie professoresse, sulla sofferta ‘sensazione di immaturità’ a causa dell’irregolarità della frequenza per via della guerra, fino al percorso universitario interrotto, la facoltà di Medicina di Pavia, e poi ripreso con il passaggio a Giurisprudenza alla Statale di MIlano e infine approdato alla prestigiosa facoltà di Science politiche a Parigi, dove insegnano fra gli altri Aron e Braudel.

Quello che si coglie, nelle pagine del dilatato rendiconto dei primi vent’anni dell’autobiografia, è il percorso di un apprendistato, il nucleo tematico sul quale sono costruite le narrazioni  arbasianiane più distese e di maggiore fortuna, L’anonimo lombardo («un libro anche pedagogico» G. Agosti, “«La Lombardia, la Gioventù»” in M. Belpoliti, E. Grazioli, Alberto Arbasino, op.cit., p.353.) e Fratelli d’Italia. Quest’ultimo in particolare, nelle mole di pagine triplicata dalla prima edizione nel ’63 all’ultima del ’93, allestisce per il lettore un’offerta via via arricchita di riferimenti a spettacoli, testi, autori, prevalentemente accordata sui toni della satira, e, al contempo, propensa a sfumature documentarie – la cronaca dell’assedio a opera della cultura di massa – e, inaspettatamente, divulgative, non del tutto inopportune per un testo al quale la critica ha attribuito l’attestato di “riassunto pedagogico di un’epoca”. (M. L. Vecchi, Alberto Arbasino, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 59.)

Una precedente variazione crepuscolare sul tema, già corredata della cifra peculiare della scrittura di Arbasino, vala a dire l’accuratezza lenticolare dello sguardo e la sua immediata registrazione linguistica, è presente nel racconto La provinciale. Il testo è collocato come primo inedito fra quelli inseriti nell’Anonimo lombardo, la raccolta pubblicata da Feltrinelli nel giugno 1959, nella sezione «I Contemporanei» della «Biblioteca di letteratura», diretta da Giorgio Bassani. Il titolo richiama il racconto omonimo di Moravia del ’37 e l’adattamento cinematografico presentato a Cannes nel 1953, scritto dallo stesso Moravia con Bassani, De Feo e Soldati, che ne è anche il regista. La ricerca del successo sociale da parte di un’ambiziosa ragazza di provincia, è un motivo ricorrente perché compendia in modo iconograficamente efficace (nel film valorizzato dall’interpretazione della Lollobrigida) e ricco dal punto di vista dell’intreccio, gli esiti del conflitto tra la mentalità retrograda e conservatrice della borghesia degli anni Cinquanta e i repentini cambiamenti sociali indotti dall’avvento della società dell’affluenza. Anche Arbasino aderisce alla tendenza, e sviluppa il tema con modulazioni blande, a rischio di elegia, lasciando la parola a un narratore interno, coetaneo e segreto ammiratore della protagonista fin dall’infanzia.

Come mi piaceva Maria Rosa! […] Quante volte mi aveva detto «Ti sposerei volentieri, se tu avessi solo qualche anno di più», ma siccome ero di due anni più giovane, era naturale che lei non mi considerasse tra i possibili pretendenti. (Per il racconto, d’ora in poi: A. Arbasino, Romanzi e racconti, vol. I, a cura di R. Manica, Milano, Mondadori, 2009, p. 215-238.)

Grazie alla voce narrante in prima persona, che rimane senza nome, si ha la sensazione di poter affiancare i due personaggi lungo le fasi di un’amicizia che procede, con alti e bassi, dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta:

Maria Rosa si confidava spesso con me, e anch’io le parlavo dei miei progetti, delle mie aspirazioni. Desideravo tanto diventare un ottimo medico, le dicevo sempre, era quella la mia più grande speranza. «Io mi sposerò» diceva Maria Rosa, «e credo che mi sposerò presto perché mi piacerebbe tanto viaggiare» Sapeva anche cantare, con la sua bella voce bene intonata, e suonava il piano ella stessa. «Almeno a questo mi saranno servite le lezioni di M.lle Lambert, a accompagnarmi al pianoforte quando canto una canzone»

L’educazione del protagonista è scandita dalle tappe di un percorso pianificato ed è nutrita da multiformi esperienze – lo sport e la politica – che consentono, attraverso il confronto continuo e produttivo con il mondo esterno, la costruzione di un carattere. Della formazione scolastica della ragazza non c’è traccia. Il cenno agli studi musicali sotto la guida di maestri privati si fonda sulla convinzione diffusa che, per una ragazza, saper cantare accompagnandosi al piano assumesse la valenza di un pregio ulteriore, in grado di accrescere sulla piazza il valore di una futura sposa. Al lettore arrivano solo scarne informazioni, ridotte all’ambito familiare, che la circoscrivono in un universo chiuso e limitato, nel quale non le è concessa libertà di scelta. Mentre l’itinerario esistenziale del ragazzo procede speditamente:

Mi ero iscritto, come desideravo, alla Facoltà di Medicina dell’Università più vicina, e quasi ogni giorno prendevo il treno per frequentare tutte le lezioni. […] Alla fine di ottobre ebbi il mio primo abbonamento ferroviario. Lo mostrai con gioia a Maria Rosa, che avevo incontrato di ritorno dalla stazione. «Guarda» le dissi, «adesso incomincia davvero una nuova vita, per me.» […] La nostra vita era un succedersi di balli in ogni luogo e stagione, chiassate e bevute in osterie d’ogni rango.

Le strade si dividono inesorabilmente, ma l’amicizia persiste. Dopo molte insistenze viene concesso alla ragazza il permesso di accompagnare il giovane amico in città

Una valanga di ammonimenti mi vennero fatti fin sulla porta dalla signora unitamente all’ingegnere. Era la prima volta, dicevano, che la loro figliola faceva un viaggio senza di loro, dicevano, a questo non avrebbero mai consentito se essa non li avesse tanto pregati, non avesse fatto tanto parlare di tempi nuovi, di tempi moderni, di consuetudini da superare. A me, continuavano a dire, la raccomandavano, a me, dicevano, perché sapevano che io ero un bravo ragazzo, giudizioso e posato. Badassi bene, mi ripetevano, che non le capitasse niente, badassi di non abbandonarla neanche un istante, di riportarla a casa la sera sana e salva, dicevano.

L’occasione della gita in città, la prima uscita senza i genitori, l’incontro con altri studenti fuori sede, la vicinanza di un noto locale notturno, provocano nella ‘provinciale’, in balia della propria inesperienza e del desiderio di autoaffermazione, un accumulo di sollecitazioni 

«Oggi andiamo a ballare al Kursaal» disse uno di loro. «Non venite anche voi?» «Perché no?» Disse Maria Rosa. […] Ricordati che se andiamo a ballare saremo obbligati a correre al treno proprio nel momento più bello della festa». «Non importa» rispose Maria Rosa. «Voglio vedere un po’ questo famoso ‘Kursaal’ di cui m’hai tanto parlato».

Il sapore della libertà è sovversivo e irresistibile, ha un impatto non previsto:

«Ora il ballo finisce. Rimani qui, mentre vado al guardaroba a ritirare i soprabiti» Persi un po’ di empo, nella calca […] Quando ritornai Maria Rosa non era più dove l’avevo lasciata. Guardai l’orologio: era molto tardi, ormai. Vidi un suo cenno dal mezzo della sala, dove stava ballando. Le feci cenno di smettere immediatamente, e certo finse di non capire perché continuò a discorrere con il suo cavaliere […] Guardando l’orologio feci presto a riscuotermi; erano le nove e mezza, ora di andare via finalmente […] «Andiamo via, Maria Rosa» «Non vengo» disse con la naturalezza più grande.

L’effetto percepito dal lettore di stretta vicinanza con i due protagonisti, è intensificato dall’uso ripetuto del discorso indiretto libero per accentuare l’impressione di immediatezza. Anche la costruzione dei dialoghi va nella medesima direzione. Sono dialoghi organizzati in brevi scambi di battute che danno vita a un parlato molto credibile, una sorta di resoconto o trascrizione in sincrono, sulla pagina, delle probabili parole pronunciate. Per questa resa della spontaneità del parlato, del tutto inusuale nella narrativa italiana all’altezza del passaggio nei Sessanta,[ii] si ritiene opportuno promuovere l’introduzione di Arbasino nel canone scolastico. Il breve ‘trattato sociologico’ in forma di racconto, sul destino riservato a una ragazza di famiglia borghese del secolo scorso, appare più consono alla ricezione dei lettori adolescenti che popolano le nostre aule, degli stralci di Fratelli d’Italia, antologizzati da alcuni manuali temerari.[iii] Sul piano dei contenuti vi si può leggere la predestinazione al fallimento esistenziale[iv] come esito di una formazione mancata, a causa di una concezione angusta e retriva, che non concede spazio all’autodeterminazione. É il lascito dell’autore: la valorizzazione di sé, non può prescindere dall’affinamento di strumenti critici adeguati, non può darsi senza un apprendistato.

[i]L’organizzazione del sistema scolastico francese, articolato in canali paralleli ben separati dal discrimine di una selezione severa, fa dipendere rigidamente le pratiche culturali dal capitale scolastico. Gli esiti della ricerca quindi non sono completamente sovrapponibili alla situazione italiana, dove vige un sistema scolastico pubblico a libero accesso, almeno fino al conseguimento di un diploma.

[ii]Un altra testimonianza significativa di questa propensione alla sincronia linguistica col presente la si trova nel film La bella di Lodi, del 1963, di cui Arbasino, co-regista con Missiroli, ha trasposto il soggetto nell’omonimoromanzo del 1972.

[iii]Temerari perché la ridda di riferimenti sciorinati nel romanzo non può essere recepita dagli studenti odierni, non certo per il tema della preferenza sessuale, somministrato con sprezzatura, da Arbasino, quando non ‘con allegria’. É il discrimine che ne misura la distanza da Pasolini.

[iv]Nella conclusione, qui omessa, il narratore, già adulto e medico affermato, scopre che Maria Rosa non è mai più ritornata a casa e si guadagna da vivere cantando nello stesso locale di quella sera.

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