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La scuola ai tempi del Covid-19 /6

  In questi giorni così strani per il Paese e la scuola, la nostra redazione sta ricevendo alcune testimonianze da colleghi di diverse parti d’Italia su diversi temi, tutti però ugualmente sollecitati dall’epidemia in corso. Abbiamo perciò deciso di pubblicarne alcuni. Se altri contributi dovessero arrivare dai nostri lettori e lettrici, continueremo la serie.

***

A quale distanza?

Note sulla didattica on line ai tempi del Covid19

BYOD (Bring Your Own Device): con questo acrostico si intende la possibilità di portare i propri dispositivi personali nel posto di lavoro, e dunque anche a scuola.

Dal 24 febbraio le scuole dell’Emilia Romagna stanno facendo lezione a distanza: non abbiamo portato il nostro dispositivo a scuola, bensì la scuola nel nostro dispositivo.

Dopo un mese di lavoro di questo genere, non so ancora se collocarmi tra i novatori che acclamano la didattica on line come allineamento alle presunte eccellenze nordeuropee, tra i reazionari che vedono il demonio da sconfiggere nella tecnologia, che uccide lo spirito dionisiaco della didattica, tra gli indecisi, che la subiscono come male necessario e dunque la praticano senza convinzione.

Preferisco partire da un racconto di ordinaria vita d’aula, seppur virtuale, perché in realtà anche dentro lo specchio dello schermo, si avvera un piccolo prodigio: si riproducono le dinamiche dell’aula vera, in cui c’è chi si nasconde, chi arriva in ritardo, chi copia la versione, chi si impegna in ogni circostanza, chi tace e prende appunti.

Dopo una lezione, qualche settimana fa, un mio alunno mi scrive che le ore forzate al computer non sono per lui sostenibili per la mancanza di connessione wi-fi ed i costi, mentre si dibatteva con i colleghi di aumentare le ore di lezione. Nessuno pensa mai che non tutti possano, che non tutti abbiano le stesse opportunità finanziarie, che magari in famiglia ci siano più fratelli e un computer, forse senza telecamera. Tutti ormai hanno un cellulare, è vero, ma i contratti dei dati sono contingentati dalla possibilità economica della famiglia. La scuola italiana, in cui io credo strenuamente, è libera e gratuita, l’articolo 34  della nostra Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. 

E’ necessario che, dopo avere riflettuto sulla opportunità cognitiva di tenere davanti a uno schermo  dei ragazzi per tante ore, della qual cosa i genitori e i sedicenti esperti si sono lamentati fino al giorno prima come tragedia delle nuove generazioni, si rifletta anche sui valori della Costituzione, questa volta non per preparare l’ora di educazione civica, ma per la nostra vita activa.

Credo di non essere davvero pronta e preparata per la didattica on line, col rischio di trasporre i modi della scuola in praesentia dall’aula allo schermo e di trasformare il medium nel messaggio. Mi domando se non sia il momento per una revisione dei miei modi di insegnare, se non sia saggio riconsiderare la mole di contenuti che propongo, che mi sembrano sempre più depapauperati, anno dopo anno, dopo ventitré anni anni di onorato servizio, a vantaggio della miriade di attività in cui la scuola di oggi si impegna.

Soprattutto, però, l’abitudine a Seneca, Sofocle, Montaigne, Lucrezio, mi interroga insieme al folletto e allo gnomo di Leopardi:

Folletto: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.

Gnomo: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.

Folletto: E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

La parte più ardua è cercare di lasciare il consustanziale (e funzionale) narcisismo di ciascuno di noi fuori dalla porta della nostra aula ora più che mai, perché credo che il nostro primo compito oggi sia quello di accendere riflessioni profonde. Quando l’emergenza sarà terminata, noi resteremo in cattedra, e altri allievi si succederanno a quelli di ora.

Avremo di certo imparato qualcosa di più su come utilizzare gli strumenti informatici e molti di noi lo avranno fatto obtorto collo, perché in tempi ordinari lo avremmo considerato una perdita di tempo. Avremo imparato a fare selezione dei contenuti la cui amputazione in tempo ordinario ci avrebbe procurato più dolore di quella di un arto. Avremo vinto anche il sacrosanto pudore di farci riprendere nel salotto di casa, con sfondo di prammatica della libreria, magari con il gatto che fa una  passeggiatina sulla tastiera e la lavatrice in sottofondo che centrifuga.

Io però vorrei avere imparato e condiviso con i miei studenti che siamo come le foglie, che la nostra presenza per la terra è un morbo, che la nostra vita è un punto se paragonata al tempo eterno, che la notte è dolce e chiara e senza vento, che quel polisindeto corrisponde esattamente ad un sospiro a pieni polmoni. Vorrei avere capito la citazione che Manzoni fa di Pietro Verri ne I promessi sposi, con la quale spiega che nei disastri pubblici l’uomo preferisce attribuire la causa del male alla perversità del genere umano, contro cui possa fare le sue vendette, rispetto a riconoscerla nel corso di leggi fisiche. Vorrei continuare a lavorare per una scuola egalitaria, libera, capace di essere per ogni studente un’opportunità di rilancio della propria vita, indipendentemente dalla condizione sociale ed economica in cui vive. Vorrei ricordarmi di tutto questo anche quando sarò chiamata alle prossime elezioni, camminando col naso per aria verso il seggio.

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