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Le parole sepolte. La comunicazione ai tempi del covid-19

 Pubblichiamo oggi questo elzeviro di Alessandro Tamburini uscito su Agorà, inserto cultura del quotidiano Avvenire in data 31/3/2020.

Reclusi fra le mura domestiche, costretti a comprimere le uscite in uno spazio-tempo sempre più simile all’ora d’aria del carcerato, cerchiamo ogni possibile aiuto per colmare il vuoto della distanza dagli altri. I messaggi virtuali proliferano fino a portare al collasso la Rete, ma fanno rimpiangere più che mai il calore dello sguardo, del gesto, del contatto diretto fra le persone. Il telefono si prende invece la sua rivincita. La voce è in sé fisicità, muove da qualcosa che accade nel corpo e ne raccoglie pulsioni e sentimenti. Nemmeno l’immagine raggiunge la sua forza evocativa. Anche nel riascoltare quella registrata di chi non c’è più, viene da pensare che la voce sia la più profonda e insondabile chiave di riconoscibilità di una persona.

E come accade nelle situazioni estreme, quando la posta in gioco è la vita propria e di chi ci è caro, le parole si ricaricano del senso che avevano perduto. Balza subito alla mente Ungaretti che riscopre il valore primigenio della parola nella tragica realtà della guerra, come quando dall’incontro notturno con dei commilitoni scaturiscono i memorabili versi: “Di che reggimento siete/ fratelli”, in cui quel fratelli diventa “parola tremante” come “foglia appena nata”, pronunciata e sentita per la prima volta.

Così oggi, nel momento in cui pensare un’altra persona vuol dire essere in pensiero per lei, e telefonarle equivale davvero a “chiamarla al telefono”, espressioni prima ridotte a distratti convenevoli riacquistano una verità antica e nuova.

“Come stai?” significa: stai ancora bene? non sei stato colpito dal flagello? E un grado oltre: come stai vivendo questa emergenza, che può divenire anche emotiva e nervosa. La domanda mossa da sincero affetto per l’altro contiene anche una ricerca di personale rassicurazione, dato che la vicinanza di ieri può comportare un’odierna condivisione del pericolo. “A casa stanno tutti bene?” allude a sua volta a situazioni comuni a molti: l’anziano congiunto che rientra nella fascia più a rischio, il parente che lavora in ospedale, il figlio che studia all’estero, in un Paese che prima sembrava dietro l’angolo e di colpo è divenuto irraggiungibile.

“Sei uscito oggi? Dove sei stato negli ultimi giorni?” non si domanda per mera curiosità, ma per confrontare realta diverse, riconoscere la soglia del rischio, aiutarsi a stabilire il confine fra misure di vitale importanza e fobie e ossessioni di cui si può cadere vittima. Frasi come “Mi manchi”, “Dammi tue notizie”, “Non vedo l’ora di vederti” a volte si accendono come fiammelle che rischiarano la notte buia, rincuorano come una preghiera.

La comunicazione si fa spesso ansiosa e concitata nello scambiarsi storie di cui si è protagonisti o testimoni, nell’epica quotidiana di questo tempo stravolto. Per l’urgenza di domandare e di far sapere. Di esprimere l’incredulità davanti all’incredibile, che a momenti lascia storditi e sgomenti. Anche l’angoscia si alleggerisce nella misura in cui riusciamo a darle forma di racconto.

Per questo le telefonate fra parenti e amici si moltiplicano, come sassi nel guado delle giornate interminabili. Alleviano il senso di isolamento chiamando a raccolta una Comunità di affetti di cui ci è più che mai necessario il conforto. Ma viene il momento in cui il telefono tace, l’eco dell’ultima voce si spegne e ciascuno rimane con se stesso e le proprie risorse. Radio e televisione non parlano che dello stesso ineludibile argomento, su cui è d’obbligo tenersi aggiornati ma può creare una dipendenza che acuisce l’inquietudine. Diventa vitale la ricerca di evasione, in un orto, un libro o un film, una storia che ci porti via per due ore, tranne poi dover subire il brusco ritorno a ciò che pare ogni volta un brutto sogno e invece è vero.

Viene allora da domandarsi cosa accadrà una volta che ce lo saremo lasciato alle spalle. Capita quando anche una banale influenza ci mette a letto tre giorni, di dirsi quanto si stava bene prima, di non chiedere né desiderare di più. Però appena la si riacquista, l’agognata prestanza fisica non basta, si vuole subito altro, pronti a riprendere una corsa spesso cieca e affannosa verso ciò che sembra irrinunciabile raggiungere. C’è da augurarsi che stavolta non sarà così, che chi ha vissuto questa esperienza traumatica sappia trasformarla in Esperienza, ed essere, per dirla ancora con Ungaretti, un po’ più “presente alla sua fragilità”. Quella che non ha il lusso di potersi dimenticare tanta umanità per cui l’emergenza di epidemie, guerre e fame, è una perenne e ineluttabile condizione di vita.

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