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diretto da Romano Luperini

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Controcorrente. Su Micheal Löwy – Robert Sayre, Rivolta e malinconia. Il romanticismo contro la modernità, e Antoine Compagnon, Gli antimoderni

 Ditemi la vostra prima, non meditata reazione di fronte alle espressioni «contro la modernità» e «antimoderni» del mio titolo – assenso o irritazione? – e vi dirò chi siete: moderno o antico, progressista o conservatore, integrato o apocalittico, ottimista o pessimista. Non sono ruoli interscambiabili, l’inconciliabilità è totale, si sa. Davvero?

Di fronte a simili aut aut, che ci sono tanto naturali e che infestano il dibattito pubblico di aggressioni reciproche fra spiriti retrotopici e ipermodernizzanti, sono tanto più preziosi questi due affascinanti libri pubblicati recentemente da Neri Pozza: Michael Löwy – Robert Sayre, Rivolta e malinconia. Il romanticismo contro la modernità (2017, 1a ed. francese 1992), Antoine Compagnon, Gli antimoderni. Da Joseph De Maistre a Roland Barthes (2017, 1a ed. francese 2005; poi, con nuova postfazione, 2016).

I due saggi si attestano su una linea di confine tra storia della letteratura, critica e sociologia della cultura, storia delle idee, politologia. Al centro di ciascuno di essi sta un’idea forte: una interpretazione del Romanticismo come critica anticapitalista e una interpretazione degli «antimoderni» come i migliori fra i moderni o gli unici veri moderni.

Romanticismo anticapitalista

L’interpretazione del romanticismo come «forma specifica di critica della “modernità”» (Löwy-Sayre, 32) nasce dalla constatazione che solo una lettura del genere può dar conto del carattere «straordinariamente contraddittorio» di questo fenomeno, contemporaneamente «rivoluzionario e controrivoluzionario, individualista e comunitario, cosmopolita e nazionalista, realista e fantastico, retrogrado e utopista, ribelle e malinconico, democratico e aristocratico, attivista e contemplativo, repubblicano e monarchico, rosso e bianco, mistico e sensuale» (9).

Naturalmente all’origine c’è la Rivoluzione francese: è dal giudizio sui valori e i fatti del 1789 che nasce il dibattito pro o contro la modernità. Il rapporto dei romantici con la Rivoluzione fu, come è noto, contrastato. Se alcuni, come Hölderlin e Büchner, restarono giacobini per tutta la vita, molti altri furono delusi – per le promesse di libertà non mantenute – o disgustati – per il sangue versato (esemplari a questo riguardo gli inglesi Coleridge e Wordsworth): infatti «mentre sognava alcuni dei sogni del romanticismo, la Rivoluzione contribuiva intanto al trionfo della modernità aborrita dai romantici» (Löwy-Sayre, 185). Anche Compagnon ricorre a questa data-cerniera, per distinguere il tradizionalista (portatore dell’«eterno pregiudizio contro il cambiamento») dall’antimoderno («nel senso proprio, moderno, della parola», 9).

Per Löwy e Sayre il romanticismo sarebbe «una radicalizzazione, una trasformazione-continuazione della critica sociale illuminista» (82), trasferita dall’aristocrazia alla borghesia. Se l’illuminismo e la Rivoluzione hanno generato una critica dell’esistente, il romanticismo continua e radicalizza tale critica, perché la estende anche all’altra loro creatura, l’ideologia liberal-razionalista ed utilitarista della borghesia capitalistica.

Ma se si trattasse solo di questo, saremmo ancora nei pressi del «Manifesto del partito comunista», che riconosce e ammira la funzione storica della borghesia nel superamento dell’ancien régime, per poi volgere il materialismo dialettico contro quella stessa classe sociale. L’interpretazione di Löwy e Sayre è invece originale e si concretizza nella proposta di un Marx, certamente non romantico tout court, ma dalle cospicue venature romantiche, messe in ombra dal positivismo, evoluzionismo, fordismo tipici del marxismo successivo, sia nella sua variante riformista socialdemocratica, sia in quella radicale bolscevica (l’anti-capitalismo modernizzatore del leniniano “Soviet più elettrificazione”): l’ideologia storicistica del progresso, moderata o radicale che fosse, ha visto nel filosofo tedesco solo il profeta della necessità ineluttabile dello sviluppo e il baldanzoso scienziato della storia, quando il suo giudizio sul capitalismo implicava invece la consapevolezza del fatto che la civiltà industriale rappresentasse comunque «un passo indietro, dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato» (148. corsivo originale). Per gli autori il “romanticismo” di Marx è all’opera in molte sue idee fondamentali: nel concetto di alienazione, nella critica alla quantificazione e all’astrazione del lavoro umano comportate dal denaro, dalle merci, dal valore di scambio, nella nostalgia di una totalità antropologica e sociale perduta e da reintegrare in un mondo industriale frammentato e scisso.

Se, secondo la diagnosi weberiana, la modernità è spirito di calcolo, disincantamento del mondo, razionalità strumentale, dominio burocratico, la figura spirituale e metastorica del romantico è quella dell’uomo che aspira a un reincantamento del mondo, attraverso il mito, la poesia, la sensibilità personale, l’utopia, la fantasia, nonché attraverso un controcanto politico ai valori della modernizzazione che si concretizza nella difesa della qualità contro la quantità e di un maggior equilibrio tra collettivo-comunitario e individuale («l’“individualismo” dei romantici è sostanzialmente diverso da quello del liberalismo moderno»: 42).

Il romanticismo, in una parola, è «l’impensato del pensiero borghese» (339) e «il rimosso per eccellenza della società moderna» (335).

Gli antimoderni

Nella postfazione aggiunta dieci anni dopo la prima edizione, Compagnon torna sulla propria interpretazione, perché molte reazioni suscitate dal suo libro hanno dimostrato come il termine «antimoderni» continui ad essere ambiguo e oggetto di malintesi: «sono conservatori, reazionari, tradizionalisti, accademici, neoclassici? No, e la distinzione è indispensabile. Essa può sembrare sottile, ma non ha niente di sofistico» (425). Essi sono, al contrario, «i moderni non entusiasti dei Tempi moderni […] o i moderni che furono tali loro malgrado, moderni lacerati e anche moderni intempestivi» (7): «senza l’antimoderno il moderno andrebbe in rovina, perché gli antimoderni sono la libertà dei moderni, o i moderni più la libertà» (423).

La distinzione «sottile ma non sofistica» tra conservatori e tradizionalisti da un lato e antimoderni dall’altro è tracciata a partire dalla reinterpretazione di Chateaubriand e De Maistre. La categoria politica del reazionario e del “codino” nasce per identificare chi avrebbe voluto azzerare le conquiste della Rivoluzione e restaurare l’antico regime. La mossa ardita e arguta di Compagnon è sottrarre i due grandi scrittori, e con loro il primo poeta moderno Baudelaire, dalla cappa di un’idea tanto superficiale e sciocca. Chateaubriand, De Maistre, Baudelaire sono moderni nella misura in cui hanno perfetta coscienza della irreversibilità dei processi storici, ma sono antimoderni perché questa coscienza produce in loro innanzitutto il lutto per una perdita e la sensazione di una radicale inattualità: «la modernità implica la malinconia, o anche la disperazione. Ogni progresso contiene una perdita» (426). L’antimoderno è un «controrivoluzionario», non un «antirivoluzionario» che ha compreso e metabolizzato il significato storico della Rivoluzione. Chateaubriand nel 1830 dichiara: «non credo al diritto divino della monarchia, mentre credo nella potenza delle rivoluzioni e dei fatti». Un tradizionalista “ortodosso” come Louis Bonald ha fede nella bontà immanente della tradizione e dell’ordine, ha una visione semplice e lineare della storia; al contrario l’antimoderno De Maistre è un pessimista, che esagera la presenza del male nel mondo, che è sottile, capzioso, complicato, sofistico, dispettoso, scandaloso: è «in una parola, un dandy» (427).

Il sentimento prevalente degli antimoderni non è il risentimento, ma la pietà, soprattutto la pietà per ciò che avrebbe potuto essere e non potrà mai più essere. Essi difendono «le vie non imboccate dalla storia», «i vinti e le vittime» (9): cosa che dopo il 1789 equivale a dire anche, seppur non solo, la civiltà degli aristocratici.

Ciò che trattiene gli antimoderni un passo indietro rispetto al campo aperto della reazione è una scissione tra spirito attivo e contemplativo: in politica Chateubriand è un pragmatico (dirà a Luigi XVIII: «perdonate la mia fedeltà: io credo che la monarchia sia finita», cui il re risponde «Ebbene, monsieur de Chateaubriand, sono d’accordo con voi», 76) e riserva l’amore per le rovine, la nostalgia, la pietà per il passato al campo estetico e morale.

L’antimoderno quindi è solo un uomo dell’Ottocento che rimpiange il Settecento? Niente affatto. Il libro di Compagnon si chiude su un capitolo stupefacente eppure perfettamente convincente dedicato a Roland Barthes. Scopriamo, testi alla mano, che l’opera del critico comunemente considerato corifeo e fiancheggiatore della letteratura ultramoderna dei suoi anni è percorsa da un tenace filo rosso di antimodernismo: Barthes è ossessionato dalla «Morte della Letteratura» alla fine del XX secolo, vorrebbe una letteratura «semplice […], leggibile, non ironica, senza virgolette, né pieghe, tutta al primo grado, all’opposto dei testi moderni, difficili, ritorti» (416), dichiara di dedicarsi agli scrittori contemporanei solo per dovere professionale e di prendere in mano, la sera prima di andare a letto, proprio Chateaubriand, domandandosi: «e se i Moderni si sbagliassero?» (395).

Barthes, che si dichiarava «alla retroguardia dell’avanguardia» («essere d’avanguardia è sapere ciò che è morto; essere di retroguardia è continuare ad amarlo»: 410), rifiuta il progressismo arrogante in letteratura, propugna «una Forma intensa di ottimismo: un Ottimismo senza Progressismo» (392) ed è convinto che il compito dell’intellettuale sia quello di preservare quanto del passato rischia di essere travolto dall’impetuosa fiumana della storia, non per museale sentimento delle forme morte, né per salvare il passato in quanto passato, ma perché «ciò che è fragile è sempre nuovo» (392).

Di destra o di sinistra?

Il mondo che ha avuto origine nel 1789 ci ha lasciato in eredità un fortunato assioma: facendo coincidere forze del passato e destra, da un lato, e forze del futuro e sinistra, dall’altro, ha reso naturale e spontaneo pensare che progressismo sia sinonimo di sinistra e conservatorismo di destra. Ma la fine della spinta propulsiva della sinistra nel Novecento, a partire dagli anni Settanta, ha fatto saltare questo schema: le forze aggressive del neocapitalismo, prima con la destra di Reagan e Thatcher, poi con la sinistra della Terza via di Clinton e Blair, si sono presentate tutte egualmente emancipative, libertarie, avveniristiche, come il mito trasversale della Silicon Valley dimostra. Così, chi cerchi ancora di salvaguardare la distinzione tra destra e sinistra, è spesso costretto ad adottare teorie ad hoc per far quadrare un paradigma incrinato: si parla di «inversione ideologica» (la sinistra è diventata ultraliberale e filocapitalista), gli ideologi della sinistra riformista più giovanilista e futuribile accusano la sinistra radicale di essere «conservatrice e lagnosa», chi è ancora intimamente convinto della perfetta coincidenza tra sinistra e classico progressismo socialista accusa la sinistra riformista e neoliberale di essere diventata di destra.

I due libri che abbiamo preso in esame possono contribuire a una almeno parziale chiarificazione. Al fondo di molte confusioni e contraddizioni giace una questione squisitamente legata alla nostra concezione del tempo, o a un problema che una volta si sarebbe detto di “filosofia della storia”.

Affrontando il problema dell’atteggiamento politicamente conservatore di alcuni grandi scrittori realisti dell’Ottocento (su tutti Balzac, amato da Marx ed Engels, che ne prendevano però politicamente le distanze), Löwy e Sayre scrivono: «il loro realismo e la loro visione critica non sono affatto in contraddizione con la loro ideologia “reazionaria”, passatistica, legittimista o tory. […] Questi autori criticano il presente con tanto acume e realismo proprio perché il loro sguardo è rivolto al passato. Ovviamente questa critica può essere mossa anche – e meglio – dal punto di vista del futuro, come negli utopisti e nei rivoluzionari, romantici o meno; ma è un pregiudizio, ereditato dall’Illuminismo, concepire la critica della realtà sociale soltanto in un’ottica “progressista”» (23).

Passato e futuro, insomma, si ricongiungono in una identica condizione temporale, quella dell’alterità o alternativa rispetto al presente, secondo un’idea che è centrale in due marxisti eterodossi come Benjamin (Tesi di filosofia della storia) e Ernst Bloch. Per quest’ultimo l’utopia è un sogno ad occhi aperti in grado di realizzare le promesse non mantenute: «la sua concezione della storia è fondata sull’idea che il progresso contenga momenti di ritorno e che il compimento ultimo implichi cogliere l’origine» (Löwy-Sayre, 302). Anche la concezione del tempo di Barthes è esemplata sulla forma della spirale vichiana (ovvero del ricorso storico): tale figura «permette di non rinunciare a nulla, o di conciliare la nostalgia dell’antico con la rivendicazione del nuovo, di progredire conservando» (Compagnon, 394).

Il romantico e l’antimoderno possono quindi incarnarsi in figure attive, addirittura rivoluzionarie, carattere questo che è particolarmente importante nell’interpretazione di Löwy e Sayre. Ma l’ambiguità delle due categorie, e il fatto che esse siano tradizionalmente schiacciate sul conservatorismo politico, non è senza ragione: il diffuso pessimismo antropologico, l’ossessione demaistriana e baudelairiana per la Caduta e il peccato originale, la polemica contro l’ottimismo sociale dei Lumi, possono facilmente sfociare nel fatalismo, che è l’anticamera dell’immobilismo politico e sociale.

Ma dove si sono collocati politicamente, nel corso della propria vita, i romantici di Löwy e Sayre e gli antimoderni di Compagnon? La varietà è infinita: l’inglese Edmund Burke, il fustigatore della Rivoluzione francese, passa solitamente per schietto conservatore, ma non è estraneo a elementi di ideologia whig che ne hanno reso possibile la cooptazione tra le fila del liberalismo borghese antigiacobino del XIX secolo; Baudelaire è sulle barricate dei moti insurrezionali parigini allo scopo di «fucilare il generale Aupick», ma ne è nota la polemica antiegualitarista, antidemocratica, anti-illuminista (Voltaire è, nei Diari intimi, una canaglia priva di immaginazione); Chateaubriand difende la libertà (aristocratica) contro l’uguaglianza (democratica), ma perché odia quel dispotismo – che oggi diremmo populista – che dell’appello alle masse fa la propria forza e che nell’Ottocento francese fu prima legato a Luigi Filippo d’Orleans, poi al bonapartismo; John Ruskin, un tory nostalgico del comunitarismo medievale e critico feroce dell’industria, è stato un autore di riferimento per molti uomini di sinistra inglesi del Novecento. Julien Benda, l’autore de Il tradimento dei chierici, è poi un vero e proprio caso di studio: difensore dell’universalismo della ragione illuminista contro il particolarismo della politica nazionalista, antifascista convinto, antimarxista ma poi filocomunista per ragioni da lui definite «umanitarie», è però un aristocratico dello spirito, antipopolare e misogino.

Le categorie di destra-conservatorismo e sinistra-progressismo oscillano e si fanno labili. E se nel libro di Löwy e Sayre è possibile trovare comunque un baricentro che stabilizza le oscillazioni nel sostanziale antiliberalismo dei romantici (dove però la parola liberale implica una certa tradizione liberale, quella utilitarista), la categoria dell’antimoderno di Compagnon, più morale ed estetica che politica, ammette un’escursione ideologica molto più ampia. 

Controcorrente

La simmetria di Rivolta e malinconia e de Gli antimoderni non è così perfetta come la mia recensione lascia intendere. Eppure, nei due libri, è identica la volontà di proporre una tesi storiografica che costringa noi moderni, postmoderni, ipermoderni, post-postmoderni (dal moderno, comunque, non si esce) a guardarci allo specchio, a ripercorrere a ritroso la nostra genealogia storica, a farle il contropelo. Da questo punto di vista la traduzione italiana del sottotitolo del libro di Löwy e Sayre Il romanticismo contro la modernità, rischia di depistare, perché con essa si perde la sottile ma non capziosa distinzione di Compagnon tra anti- e contro-(rivoluzionario/moderno). Meglio quindi l’originale francese e la traduzione inglese: Le romantisme à contre-courant de la modernité e Romanticism Against the Tide of Modernity. Si può andare solo controcorrente rispetto al fiume della storia, andare a recuperare qualche relitto lasciatoci alle spalle o tentare di rinfrescare la memoria della purezza della fonte: tutti sappiamo comunque che in quella corrente siamo immersi.

La controstoria di Löwy, Sayre e Compagnon mette in guardia dalla tendenza mai estinta di naturalizzare il presente, liquidare il passato e considerare ineluttabile il futuro – There is no alternative, continuano a ripetere gli «zelatori della religione del futuro» (Compagnon, 428). «L’antimoderno rifiuta, se non il progresso, almeno la buona coscienza del progresso» (Compagnon, 429), il romantico ricorda che la parte più intima e profonda dell’identità umana è inafferrabile e ineffabile e per questo sempre esposta al rischio della noncuranza. Benché agli spiriti poveri d’immaginazione e ai pragmatici insofferenti di ogni sosta, romantici e antimoderni sembrino scettici preventivi o queruli idealisti, essi sono al contrario gli unici effettivamente dotati di concretezza e di un senso del mondo speciale e irrinunciabile: essi «tornano sempre da un’esperienza» della realtà, sono «angeli delusi», ben più profondi e ricchi dei «semivergini della modernità» (429).

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